domenica 31 marzo 2013

TANTI AUGURI DI UNA SERENA E SANTA PASQUA


Pascha nostra immolatus est Christus. Ipse enim verus est Agnus qui abstulit peccata mundi. 
Qui mortem nostram moriendo destruxit et vita resurgendo reparavit (Praef. Paschalis)



SAN MICHELE, ANGELO DELLA BUONA MORTE

Secondo la dottrina cattolica in punto di morte noi riceviamo l’aiuto degli angeli e di san Michele. Se vi è infatti un’ora nella quale il cristiano abbia bisogno di soccorso e di protezione, è sicuramente l’ora della morte. L’inferno si sforza in quell’istante nel rapire a Dio l’anima il cui tempo di prova sta per arrivare alla sua fine, egli dirige contro di essa tutte le sue forze ed ingaggia l’assalto supremo e definitivo.

E’ questo che spiega le angosce ed i terrori dell’agonia. Come l’uomo non sarebbe spaventato, quando si vede circondato da nemici accaniti nella sua perdita, quando già sente venire il suo Giudice con le sue terribili rivendicazioni?

Ammiriamo una volta di più le attenzioni della divina Provvidenza: ella non ha voluto che nell’ultima ora noi fossimo isolati nella lotta contro l’inferno. Se quest’ora è attesa dall’angelo della morte eterna, essa è augurata anche dall’angelo della vita eterna.

Il pio diacono Pantaleone diceva nel VII secolo, che la funzione attribuita a san Michele di proteggere i morenti, è un privilegio secolare e riconosciuto da tutti. Secondo un autore del III secolo, gli apostoli avrebbero insegnato ai primi cristiani che “San Michele è l’angelo la cui intercessione procura una santa morte davanti a Dio, ch’egli assiste le anime desiderose di morire in Cristo”. Tale è ben, del resto, la tradizione, e tale è l’insegnamento dei teologi.

Un culto particolare è infine tributato a Michele da chi si trova in procinto di morire. Nella storia araba di San Giuseppe il Falegname (prima del IV secolo), il Santo prega in questi termini: “Se la mia vita, o Signore, è al termine; se per me è venuto il momento di lasciare questo mondo, mandami Michele, il Principe dei tuoi santi Angeli.

Che egli si fermi presso di me, perché la mia povera anima esca in pace, senza pena o timore da questo corpo addolorato”. Il Sacramentarlo Gelasiano (fine V secolo) registra la seguente preghiera dopo la morte della persona: “Ricevi, Signore, l’anima del tuo servo che a te ritorna, le sia presente l’Angelo della tua Alleanza, Michele”, colui che nell’antichità veniva definito Praepositus paradisi.

Nelle raccomandazioni dei moribondi per le comunità di rito ambrosiano, si invoca espressamente il nostro Arcangelo: “Lo assista (il moribondo) San Michele, l’Angelo della tua Alleanza, e per mano dei santi Angeli degnati di collocarlo tra i tuoi santi e i tuoi eletti, nel grembo dei tuoi patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. Un testo liturgico che risale al X secolo contiene questa invocazione: “Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera le anime di tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dal profondo abisso; liberale dalle fauci del leone, affinché non siano preda del tartaro e non cadano nelle tenebre; ma le conduca il Vessillifero San Michele alla Luce santa, che un giorno promettesti ad Abramo e alla sua discendenza”.

Bellarmino e Suarez, poggiandosi su san Tommaso, dichiarano che san Michele è delegato da Dio per presiedere alla morte dei cristiani, ch’egli libera i suoi servitori dalle astuzie del demonio e dona loro la pace e l’eterna gloria. Sant’Alfonso de Liguori dice a sua volta: “San Michele è incaricato in modo speciale dal Signore di assisterci nel momento della morte”.

A tutte queste autorità si aggiunge la pratica della Chiesa. Quando il ministro dell’unzione degli infermi si avvicina al morente, egli chiede a Dio “d’inviare dal cielo il suo santo angelo perché custodisca, conservi, visiti e difenda questo malato”. Infine questa preghiera che la Chiesa pone sulle nostre labbra: “San Michele arcangelo, difendeteci nella lotta, affinché non periamo nel temibile giudizio”, non è essa per attrarre su di noi la protezione di san Michele nel tempo della grande lotta il cui pegno sarà la nostra eternità? La Chiesa riconosce dunque al glorioso Arcangelo questa funzione. Ecco perché essa ha approvato le confraternite erette sotto il titolo di San Michele della Buona Morte, così numerose una volta, e le ha arricchite d’indulgenze.

I santi si raccomandavano istantaneamente al Principe degli Angeli, al fine di ottenere da lui la grazia d’una buona morte.

Sant’Anselmo, assistendo un suo monaco morente, vide il demonio tormentarlo. Ma l’Arcangelo apparve e lo confuse: “Impara, disse a satana, che tu non avrai mai alcun potere sui miei servitori, i miei protetti, i miei amici”. Incoraggiato da quella visione, il santo chiese all’Arcangelo la sua protezione per l’ora della morte. San Michele è l’angelo del transitus che riceve le anime dei giusti e le accompagna davanti a Dio, in particolare l’anima di Adamo ed Eva e di Mosè, di Giuseppe e di Maria che Cristo stesso gli affida.

Come angelo della morte e conduttore delle anime compare in tutte le opere giudaiche apocrife relative al trapasso dei giusti e in questo ruolo compare presto nella Tradizione cristiana accolta anche nell’Antifona dell’Offertorio della Messa preconciliare dei defunti. Per questo spesso le cappelle dei cimiteri e gli ossari sono dedicati a San Michele. Nelle Litanie di San Michele troviamo dei titoli per San Michele quali: “Aiuto di coloro che sono in agonia”, “Luce e fiducia delle anime all’ora della morte”, “consolatore delle anime trattenute tra le fiamme del purgatorio”. Poiché Michele è anche il “potente intercessore dei cristiani” e “guaritore dei malati”, tutti questi ministeri o favori operano insieme per salvare le anime da satana, per ottenere vittoria eterna e per offrire protezione sulla terra; l’intercessione di Michele continua mentre le anime sono in purgatorio e le scorta in paradiso di cui è pure il protettore.

HAPPY EASTER! BUONA PASQUA! - 2013




GOD AWAITS OUR SMILE - DIO ATTENDE IL NOSTRO SORRISO 

"WELL, GOOD AND FAITHFUL SERVANT ... 
ENTER THOU INTO THE JOY OF YOUR MASTER" 
(Mt 25: 21,23).

The smile of a creature privileged in the whole universe.
The smile of a creature born anew.
The smile of a sick child.
The smile of a sheep half dead.
The smile of an old friend, reborn in pain.
The smile of who hungers and thirsts for justice.
The smile of someone who despairs.
The smile of a shipwrecked sailor who sees the port of salvation.
The smile of him who thanks, who praises, who implores, who would want to sing perhaps with the last breath, "Lord, thou knowest that I love thee." (Jn 21:15)
The smile of someone who listens, who now desires nothing more than to see the Father smile from Heaven: 
“My son, give me your heart, and let your eyes keep to my ways.”
(Pro 23:26).

DIO ATTENDE IL NOSTRO SORRISO!
"BENE, SERVO BUONO E FEDELE ...; 
PRENDI PARTE ALLA GIOIA DEL TUO PADRONE" (Mt 25, 21.23).

è il sorriso di una creatura privilegiata su tutto l'universo.
è il sorriso di una creatura rifatta a nuovo nella filiazione adottiva.
è il sorriso di un figlio ammalato.
è il sorriso di una pecorella mezzo morto.
è il sorriso di un vecchio amico, rinata nel dolore.
è il sorriso di che ha fame e sete di giustizia.
è il sorriso di chi di tutti dispera, meno che di lui.
è il sorriso del naufrago che intravede il porto della Salvezza.
è il sorriso di chi ringrazia, di chi loda, di chi implora, di che vorebbe cantare magari con l'ultimo fiato: "Signore, tu lo sai che ti voglio bene". (Gv 21,15) 
è il sorriso di chi sta in ascolto, di chi null'altro ormai brama che di vedere il Padre sorridere dal Cielo: "Fa' bene attenzione a me, figlio mio". (Pro 23,26).

(The Picture: The Chi Rho with a wreath symbolizing the victory of the Resurrection, ca. 350-La figura nel disegno simboleggia la vittoria della Resurrezione)

Alleluja! Cristo è risorto


Et resurrexit tertia die secundum Scripturas! Halleluja!

Auguro, che la luce della Risurrezione possa penetrare le tenebre della nostra vita, le difficoltà piccole e le tragedie grandi. 
Auguro che in questa immensa Luce, che è Cristo, noi troveremo la nostra ragione, la nostra voglia profonda e libera, di gustare la vita nella sua pienezza.

Sir Edward Burne-Jones (1833-1898), "Il mattino della Resurrezione"


“La luce splende nelle tenebre” (Gv 1,5)

Del racconto della creazione la Chiesa, nella Veglia pasquale, ascolta soprattutto la prima frase: “Dio disse: «Sia la luce!» (Gen 1,3). Il racconto della creazione, in modo simbolico, inizia con la creazione della luce....Il fatto che Dio abbia creato la luce significa che Dio ha creato il mondo come spazio di conoscenza e di verità, spazio di incontro e di libertà, spazio del bene e dell'amore. La materia prima del mondo è buona, l'essere stesso è buono. E il male non proviene dall'essere che è creato da Dio, ma esiste solo in virtù della negazione. È il “no”.

A Pasqua, al mattino del primo giorno della settimana, Dio ha detto nuovamente: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l'eclissi solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”. Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L'amore è più forte dell'odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio.
Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi. Ma come può avvenire questo? Come può tutto questo giungere fino a noi così che non rimanga solo parola, ma diventi una realtà in cui siamo coinvolti? Mediante il Sacramento del battesimo ... il Signore dice a colui che lo riceve: Fiat lux – sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D'ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera.

- Cardinale Joseph Ratzinger - 

sabato 30 marzo 2013

Sabato di silenzio


..... Sabbato sancto Ecclesia ad sepulcrum Domini immoratur, passionem eius et mortem necnon descensum ad inferos meditando, eius resurrectionem ieiunio et oratione expectando.
Hac die Ecclesia ab Eucharistiae celebratione omnino abstinet.


TI ADORO O CROCE SANTA


Recitata 50 volte ogni venerdì, libera 5 Anime del Purgatorio

"Ti adoro, o Croce Santa, che fosti ornata del Corpo Sacratissimo del mio Signore, coperta e tinta del suo Preziosissimo Sangue. Ti adoro, mio Dio, posto in croce per me. Ti adoro, o Croce Santa, per amore di Colui che è il mio Signore". Amen.

(Recitata 33 volte il Venerdì Santo, libera 33 Anime del Purgatorio.)

Venne confermata dai Papi Adriano VI, Gregorio XIII e Paolo VI.

Allego il commento di Provvidenza Cardia nel quale spiega la provenienza e l'efficacia di questa bellissima Preghiera:

"Sicuramente avrai sentito parlare della comunione dei Santi e saprai che Tutti noi viventi e defunti formiamo un unico corpo,:il corpo di Cristo e se alcuni membra del corpo soffrono soffre anche l'intero corpo e ogni membro dve per solidarietà preoccuparsi della salute del corpo..Sappiamo con certezza che i Santi sono esistiti e ci hanno lasciato svariate testimonianze sull'esistenza del Purgatorio ,inoltre numerosi mistici fra cui Maria Simma che aveva il dono di incontrare i defunti e di venire a conoscenza delle infinite sofferenze che subivano ci dice che le preghiere dei vivi servono ai defunti,perchè sono atto di carità nei loro riguardi,dunque tutti noi siamo chiamati a pregare per idefunti.,per alleviare le loro sofferenze..

La preghiera "Ti adoro croce Santa",è antichissima ed è stata trovata in una cappella in Polonia e il papa dell'epoca,l'ha approvata intendendola come preghiera di liberazione,liberando subito 5 anime del Purgatorio.Siccome come Sai il Papa è vicario di Cristo,capo della Chiesa a cui è stato riconosciuto dallo stesso Cristo (vedere i Vangeli ) il potere di unire o sciogliere in terra ciò che Cristo poi avrebbe unito o sciolto in cielo,si è preso questa libertà,che anche altri papi hanno perpetuato. 
Dunque la preghiera ha il solo potere di aiutare i defunti ad avanzare verso Dio, è un atto di carità e sicuramente se si crede, (si è liberi di non credere) come il papa ha liberato 5 anime così se si recita la preghiera potranno altrettante anime essere liberate.

Divulgare la preghiera è un atto di carità verso i defunti e verso noi membra del corpo di Cristo, perchè chi prega per gli altri, prega anche per sè.


L'incredulo ama le tenebre, le chiama luce, e, bestemmiando, non s'accorge di bestemmiare. - Sant'Agostino



L'Encenia era la festa della Dedicazione del tempio.  in greco vuol dire nuovo. Il giorno in cui si inaugurava qualcosa di nuovo veniva chiamato Encenia; parola che poi è passata nell'uso comune: quando uno, ad esempio, indossa una tunica nuova si usa il verbo "enceniare". I Giudei celebravano solennemente il giorno della dedicazione del tempio; si celebrava appunto questa festa, quando il Signore pronunciò il discorso che è stato letto.

Era d'inverno, e Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. I Giudei gli si fecero attorno e gli dissero: Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo diccelo chiaramente! (Gv 10, 23-24). Essi non cercavano la verità ma macchinavano un complotto. Si era d'inverno ed erano pieni di freddo, perché non facevano niente per avvicinarsi a quel fuoco divino. Avvicinarsi significa credere: chi crede si avvicina, chi nega si allontana. Non si muove l'anima con i piedi, ma con l'affetto del cuore.

In loro si era spento del tutto il fuoco della carità, e ardeva soltanto il desiderio di far del male. Erano molto lontani, benché fossero lì; non si avvicinavano con la fede, ma gli stavano addosso perseguitandolo. Volevano sentir dire dal Signore: Io sono il Cristo, e forse di Cristo avevano un'opinione soltanto umana. I profeti avevano annunziato Cristo; ma se neppure gli eretici accettano la divinità di Cristo secondo la testimonianza dei profeti e dello stesso Vangelo, tanto meno i Giudei quindi, finché rimane il velo sopra il loro cuore (2 Cor 3, 15). 

Mercoledì di Passione
Gv.10,22-38
S.AGOSTINO
Tractatus 48 in Joannem, circa initium
Breviario Romano, Letture dal Mattutino



La Sinagoga bendata, Duomo di Strasburgo

Nella festa della Dedicazione i nemici di Gesù cercano con animo malvagio un’affermazione aperta da parte di Gesù sulla sua divinità per poterlo condannare. Gesù adduce le prove fornite dalle sue opere e afferma esplicitamente la sua consustanzialità con il Padre. Allo scandalo farisaico replica richiamandosi alla rivelazione antica  che chiama “dei” i giudici di Israele. Ora se sono chiamati “dei” coloro ai quali si indirizza la parola, quanto più lo sarà la Parola stessa inviata dal Padre perché gli uomini conoscano in essa il Padre.
La divinità di Cristo non è solo la base della nostra fede, ma è anche il fondamento della nostra redenzione e della nostra partecipazione alla vita stessa di Dio. Egli ha comunicato Se stesso e la sua vita divina alla Chiesa, che è il prolungamento della Sua Umanità e della Sua incarnazione nel mondo.
La cecità interiore dell’uomo, causata dal peccato, provoca anche la cecità di fronte all’evidenza del fatto soprannaturale. L’ostinazione dei Giudei che vedono Gesù, ascoltano le sue parole, sono spettatori dei suoi miracoli, notano la sua impeccabilità, ma non credono in Lui e Lo respingono fa pensare a molti cristiani che rinnegano la fede con le opere e soffocano nel peccato la voce ammonitrice della coscienza.




Gloriamoci anche noi nella Croce del Signore. Dai «Discorsi» di sant'Agostino


La passione del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo è pegno sicuro di gloria e insieme ammaestramento di pazienza.
Che cosa mai non devono aspettarsi dalla grazia di Dio i cuori dei fedeli! Infatti al Figlio unigenito di Dio, coeterno al Padre, sembrando troppo poco nascere uomo dagli uomini, volle spingersi fino al punto di morire quale uomo e proprio per mano di quegli uomini che aveva creato lui stesso.
Gran cosa è ciò che ci viene promesso dal Signore per il futuro, ma è molto più grande quello che celebriamo ricordando quanto è già stato compiuto per noi. Dove erano e che cosa erano gli uomini, quando Cristo morì per i peccatori? Come si può dubitare che egli darà ai suoi fedeli la sua vita, quando per essi, egli non ha esitato a dare anche la sua morte? Perché gli uomini stentano a credere che un giorno vivranno con Dio, quando già si è verificato un fatto molto più incredibile, quello di un Dio morto per gli uomini?
Chi è infatti Cristo? E' colui del quale si dice: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio»? (Gv 1, 1). Ebbene questo Verbo di Dio «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Egli non aveva nulla in se stesso per cui potesse morire per noi, se non avesse preso da noi una carne mortale. In tal modo egli immortale poté morire, volendo dare la vita per i mortali. Rese partecipi della sua vita quelli di cui aveva condiviso la morte. Noi infatti non avevamo di nostro nulla da cui aver la vita, come lui nulla aveva da cui ricevere la morte. Donde lo stupefacente scambio: fece sua la nostra morte e nostra la sua vita. Dunque non vergogna, ma fiducia sconfinata e vanto immenso nella morte del Cristo.
Prese su di sé la morte che trovò in noi e così assicurò quella vita che da noi non può venire. Ciò che noi peccatori avevamo meritato per il peccato, lo scontò colui che era senza peccato. E allora non ci darà ora quanto meritiamo per giustizia, lui che è l'artefice della giustificazione? Come non darà il premio dei santi, lui fedeltà personificata, che senza colpa sopportò la pena dei cattivi?
Confessiamo perciò, o fratelli, senza timore, anzi proclamiamo che Cristo fu crocifisso per noi. Diciamolo, non già con timore, ma con gioia, non con rossore, ma con fierezza.
L'apostolo Paolo lo comprese bene e lo fece valere come titolo di gloria. Poteva celebrare le più grandi e affascinanti imprese del Cristo. Poteva gloriarsi richiamando le eccelse prerogative del Cristo, presentandolo quale creatore del mondo in quanto Dio con il Padre, e quale padrone del mondo in quanto uomo simile a noi. Tuttavia non disse altro che questo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6, 14).

Dai «Discorsi» di sant'Agostino

venerdì 29 marzo 2013

Triduo di ringraziamento a San Giuseppe - Da ripetersi dal 29 al 31 Marzo


Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.


1. Santissimo Sposo di Maria, con il cuore pieno di riconoscenza io vengo a Te per ringraziarti per aver con paterna bontà accolta ed esaudita la mia preghiera. O caro Santo, come ascoltasti la mia invocazione di soccorso, accogli ora il mio canto di gratitudine. Nessuno mai, ricorrendo a Te, è rimasto deluso.
- 3 Gloria

2. Inclito custode del Verbo Incarnato, sia benedetto il momento in cui fiducioso mi sono rivolto a Te. Il mio gemito fu da Te ascoltato, la mia preghiera fu da Te esaudita. Sii eternamente benedetto, o capo augusto della Sacra Famiglia.
- 3 Gloria

3. O eccelso taumaturgo, in segno di riconoscenza per aver sperimentato il tuo potere sui Cuori di Gesù e di Maria, mi propongo di far conoscere a tutti la tua dignità e potere, con la parola e con la stampa, per indurre tutti a rivolgersi a Te con fiducia in tutte le necessità fisiche e spirituali.
- 3 Gloria


MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI DAVANTI ALLA SACRA SINDONE


Cari amici,

questo è per me un momento molto atteso. 
In un’altra occasione mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. 
Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”.Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio. Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. 
Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.
Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”. 
Cari fratelli, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.
E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. 
Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale.
In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. 
Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. 
E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”. 
Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - “Passio Christi. Passio hominis” - promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. 

Come parla la Sindone? 

Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.

Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie. 

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana


giovedì 28 marzo 2013

Il Tempo di Passione preparazione prossima al mistero pasquale. - San Leone Magno

Dilettissimi, non ignoriamo che tra tutte le solennità cristiane il mistero pasquale è il principale e per accoglierlo degnamente, come si deve, tutte le istituzioni degli altri tempi costituiscono una preparazione.
I giorni presenti però, esigono più degli altri la nostra devozione, perché, come sappiamo, sono prossimi a quel mistero sublimissimo della divina misericordia. Giustamente in questi giorni sono stati stabiliti dai Santi Apostoli i digiuni, affinchè, partecipando in comune alla croce di Cristo, anche noi apportiamo il nostro contributo a quanto egli ha fatto per noi. In proposito San Paolo dice: Se soffriamo con Lui, saremo con Lui glorificati (Rm.8,17). Certa e sicura è la speranza della beatitudine promessa quando si partecipa alla passione del Signore.

A nessuno, dilettissimi, è negata la partecipazione a questa gloria a motivo delle condizioni di una epoca, quasi che la tranquillità e la pace non abbiano occasione di esercitare la virtù. Infatti l’Apostolo asserisce: Tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù sperimenteranno la persecuzione (2 Tim. 3,12). Perciò mai manca la tribolazione e la persecuzione, se mai vien meno la pratica della pietà. Il Signore stesso nei suoi insegnamenti afferma: Chi non prende la sua croce e mi segue, non è degno di me (Mt.10,38). E dobbiamo essere certi che queste parole non riguardano soltanto i discepoli di Cristo, ma tutti i fedeli e tutta la Chiesa, la quale ascolta la via della salvezza per mezzo di quelli che erano presenti.

Dunque, come in ogni tempo si deve vivere con pietà, così in ogni tempo si deve portare la croce. Giustamente si dice che ognuno deve portare la propria croce, perché ognuno la sopporta secondo le proprie capacità e misure.
La persecuzione ha un nome solo ma la causa della lotta non è una sola; per lo più vi è maggior pericolo quando si è occultamente insidiati che quando il nemico è manifesto. Giobbe, ammaestrato dall’alterna vicenda dei beni e dei mali in questo mondo diceva: Non è forse tentazione la vita dell’uomo sulla terra? (Gb. 7,1). Infatti, l’anima fedele non solo è ostacolata quando ha dolori e tormenti del corpo, ma anche è soggetta a grave malattia quando, sebbene nelle incolumità delle membra, è illanguidita dal piacere carnale. Ma siccome la carne brama cose contrarie allo spirito, e lo spirito desidera cose contrarie alla carne, l’anima razionale viene armata con la croce di Cristo; così, quando è sollecitata dalle dannose cupidigie, non acconsente, poiché è trafitta con i chiodi della continenza e con il timore di Dio.

Dominica I Passionis 
S.LEONE MAGNO
Sermo 9 de Quadragesima
Breviario Romano, Mattutino, Letture II Notturno




mercoledì 27 marzo 2013

Sacro Triduo Pasquale


Sacro Triduo Pasquale:

Il Santo Triduo è il vertice di tutto l’anno liturgico.
La Messa del giovedì sera è già l’inizio del Triduo santo della passione, morte, sepoltura e risurrezione del Signore che termina poi con i Vespri della domenica di Pasqua. 

GIOVEDI' SANTO - ULTIMA CENA

Il giovedì, al mattino, una sola Eucaristia nelle diocesi, per la consacrazione degli Oli Santi e la memoria del Sacerdozio unico di Gesù, partecipato a tutto il popolo e per esso, in maniera tutta speciale, ai vescovi, presbiteri e diaconi.
È la festa di tutto il popolo sacerdotale e, per questo, i fedeli sono invitati a partecipare insieme al vescovo e agli altri ministri ordinati. 
Vengono benedetti: il crisma, olio d’oliva o di altre piante misto ad essenze profumate, olio che consacra i re, i profeti e i sacerdoti, nel battesimo, nella cresima, nell’ordine e nei segni dell’altare e dell’edificio chiesa; l’olio per i Catecumeni, che conferisce la forza dello Spirito per la lotta contro il male; l’olio degli infermi che dona lo Spirito Santo per offrire in sacrificio il proprio dolore, strappargli la sua negatività e farlo divenire redenzione e salvezza unendolo a quello di Gesù, guarendo lo spirito e spesso anche il corpo dei fedeli. 

La sera del giovedì santo: «Messa nella Cena del Signore» 

All’inizio della Messa nella Cena del Signore, sono recati in processione gli Oli nuovi che tutta la comunità saluta ed accoglie; il diacono o il sacerdote li depone sulla mensa dell’altare, li incensa e poi va a deporli nella loro custodia che solitamente è presso il battistero; verranno usati nella notte di Pasqua per i sacramenti ai battezzandi.
La Chiesa fa memoria questa sera dell’Istituzione dell’Eucaristia, del sacerdozio ministeriale e ricorda il «mandato» del Signore: «Fate questo in memoria di me», «Amatevi come io vi ho amato », fino a consegnare la vostra stessa vita.
Ogni comunità si raduna attorno ai propri presbiteri nell’unica celebrazione. L’Evangelo di Gesù che lava i piedi ai suoi durante la cena, è l’altro modo per dirci che cosa egli fece della sua vita; è la sconvolgente manifestazione di Dio che si china dinanzi agli uomini per compiere un gesto da schiavo, per deporre ai loro piedi la propria vita, tutta versata per lavarli. 

martedì 26 marzo 2013

La Passione del Signore soggetto inesauribile di meditazione - San Leone Magno

L'orazione nell'orto- La cattura di Gesù,Duccio di Buoninsegna, Siena, Museo dell'Opera del Duomo






















Celebriamo, o dilettissimi, la festa della Passione del Signore, questa festa tanto desiderata che il mondo intero vede sempre venire con gioia. Nei trasporti della nostra allegrezza non ci è permesso mantenere il silenzio e benché sia difficile parlare spesso e in maniera degna della stessa solennità appartiene ai doveri di un pastore, in questa circostanza, fare ascoltare al suo popolo gli accenti della sua voce paterna. Questo ammirabile sacramento della Misericordia divina è soggetto inesauribile e mai si potrebbe terminarlo perché mai si riuscirebbe a trattarlo sufficientemente. Ceda quindi  alla Gloria di Dio la nostra debolezza che sempre si scopre inadeguata nello spiegare le opere della Sua Misericordia. Stentiamo con l’intelligenza, siamo ottusi nello spirito, difettiamo nell’eloquio: è vantaggioso per noi non poter comprendere in tutta la sua grandezza la maestà di Dio.

Il profeta dice: Cercate il Signore e vi farà forti, ricercate sempre il Suo volto (Ps.104,4) perché nessuno deve avere la presunzione di credere che egli ha perfettamente approfondito ciò che cerca di conoscere né deve cessare di avvicinarsi alla verità cessando di cercarla. Fra tutte le opere di Dio che formano l’oggetto della nostra ammirazione ve ne è uno che più della Passione del Signore sia al di sopra delle forze della nostra intelligenza e meriti maggiormente le nostre riflessioni?  Per spezzare le catene del genere umano che era divenuto schiavo dopo la sua fatale prevaricazione Gesù Cristo ha nascosta al crudele demonio la potenza della sua divina maestà e gli ha contrapposta l’infermità della condizione umana. Perché se questo nemico crudele e superbo avesse potuto penetrare la saggezza della divina Misericordia egli avrebbe cercato piuttosto  di addolcire e calmare lo spirito dei Giudei anzichè ispirare loro un odio ingiusto per timore di perdere la schiavitù di tutti i peccatori mentre perseguitava la libertà di Colui che nulla gli doveva., 

La sua stessa malizia lo ha ingannato: egli ha fatto condannare il Figlio di Dio al supplizio che ha rigenerato tutti i figli degli uomini; egli ha versato il sangue innocente che è stato il prezzo della riconciliazione del mondo e che è servito da bevanda salutare all’umanità. Il Signore ha sofferto il genere di morte che Lui stesso aveva scelto. Egli ha permesso che uomini forsennati mettessero su di  Lui le loro mani empie e concorressero così con il loro stesso crimine al compimento dei suoi piani di salvezza. E la Sua bontà verso i suoi carnefici fu così grande che dall’alto della croce egli pregava il Padre di non vendicarlo e di perdonare loro la Sua morte.



S.LEONE MAGNO 
Sermo 11 de Passione Domini
Breviario Romano, Mattutino, Letture del II Notturno

Gesù davanti a Caifa
Duccio di Buoninsegna, Siena, Museo dell'Opera del Duomo




lunedì 25 marzo 2013

Le armi della carità. Dai «Discorsi» di san Fulgenzio di Ruspe, vescovo

Primo martire cristiano, e proprio per questo viene celebrato subito dopo la nascita di Gesù. 
Fu arrestato nel periodo dopo la Pentecoste, e morì lapidato. 
In lui si realizza in modo esemplare la figura del martire come imitatore di Cristo; egli contempla la gloria del Risorto, ne proclama la divinità, gli affida il suo spirito, perdona ai suoi uccisori. 
Saulo testimone della sua lapidazione ne raccoglierà l'eredità spirituale diventando Apostolo delle genti. (Mess. Rom.)

Ieri abbiamo celebrato la nascita nel tempo del nostro Re eterno, oggi celebriamo la passione trionfale del soldato.

Ieri infatti il nostro Re, rivestito della nostra carne e uscendo dal seno della Vergine, si è degnato di visitare il mondo; oggi il soldato, uscendo dalla tenda del corpo, è entrato trionfante nel cielo.

Il nostro Re, l'Altissimo, venne per noi umile, ma non poté venire a mani vuote; infatti portò un grande dono ai suoi soldati, con cui non solo li arricchì abbondantemente, ma nello stesso tempo li ha rinvigoriti perché combattessero con forza invitta. Portò il dono della carità, che conduce gli uomini alla comunione con Dio.

Quel che ha portato, lo ha distribuito, senza subire menomazioni; arricchì invece mirabilmente la miseria dei suoi fedeli, ed egli rimase pieno di tesori inesauribili.

La carità, dunque, che fece scendere Cristo dal cielo sulla terra, innalzò Stefano dalla terra al cielo. La carità che fu prima nel Re, rifulse poi nel soldato.

Stefano quindi per meritare la corona che il suo nome significa, aveva per armi la carità e con essa vinceva dovunque. Per mezzo della carità non cedette ai Giudei che infierivano contro di lui; per la carità verso il prossimo pregò per quanti lo lapidavano. Con la carità confutava gli erranti perché si ravvedessero; con la carità pregava per i lapidatori perché non fossero puniti.

Sostenuto dalla forza della carità vinse Saulo che infieriva crudelmente, e meritò di avere compagno in cielo colui che ebbe in terra persecutore.

La stessa carità santa e instancabile desiderava di conquistare con la preghiera coloro che non poté convertire con le parole.

Ed ecco che ora Paolo è felice con Stefano, con Stefano gode della gloria di Cristo, con Stefano esulta, con Stefano regna. Dove Stefano, ucciso dalle pietre di Paolo, lo ha preceduto, là Paolo lo ha seguito per le preghiere di Stefano.

Quanto è verace quella vita, fratelli, dove Paolo non resta confuso per l’uccisione di Stefano, ma Stefano si rallegra della compagnia di Paolo, perché la carità esulta in tutt’e due. Sì, la carità di Stefano ha superato la crudeltà dei Giudei, la carità di Paolo ha coperto la moltitudine dei peccati, per la carità entrambi hanno meritato di possedere insieme il regno dei cieli.

La carità dunque è la sorgente e l’origine di tutti i beni, ottima difesa, via che conduce al cielo. Colui che cammina nella carità non può errare, né aver timore. Essa guida, essa protegge, essa fa arrivare al termine.

Perciò, fratelli, poiché Cristo ci ha dato la scala della carità, per mezzo della quale ogni cristiano può giungere al cielo, conservate vigorosamente integra la carità, dimostratevela a vicenda e crescete continuamente in essa.

La profezia sulla Santa Chiesa di Santa Ildegarda di Bingen


«Se si considera la poliedrica personalità di Ildegarda (…) ci dobbiamo chiedere se l’uomo d’oggi sia ancora capace di accostarsi ed imitare quello di ieri, avvalendosi del misticismo per ritrovare profondità di spirito, coerenza di comportamento, speranza di futuro, e non soltanto di atteggiarsi a un cembalo che suona perché scosso da altri», così scriveva nella sua prefazione Michelangelo Navire (scomparso di recente) nel suo libro La sinfonia Mistica di Ildegarda di Bingen (pp. 8-9, Edizioni Segno, Udine 2011), libro che, oltre a dare un profilo della vita e delle opere di questa mistica e scienziata, ancora troppo sconosciuta fuori dai confini tedeschi, offre alla lettura i settanta Carmina di Ildegarda ‒ che compongono la Symphonia harmoniae coelestium revelationum ‒ nel loro testo latino e qui, per la prima volta, presentati anche nella traduzione italiana, unitamente alla composizione drammatica Ordo virtutum.

Gli insegnamenti teologici, filosofici e scientifici di Ildegarda di Bingen, dove Fede e ragione coincidono mirabilmente, sono di un’attualità sconcertante e irrompono nella nostra contemporaneità desolata, deturpata, alluvionata dai peccati. Provvidenziale il suo recupero da parte di Benedetto XVI, che ha riproposto, con alcune catechesi dedicate alla santa teutonica e con la sua proclamazione a Dottore della Chiesa (7 ottobre 2012), insegnamenti, visioni (che ella compiva in stato di coscienza e non di estasi) e profezie; quest’ultime concernenti anche la crisi della Chiesa. Il 16 maggio 2012, quando Ildegarda (già venerata come santa) venne canonizzata per equipollenza, il Papa sottolineò, davanti alla Curia romana, la lotta e la difesa di questa santa monaca benedettina per la Chiesa, affermando: «Nella visione di sant’Ildegarda il volto della Chiesa è coperto di polvere ed è così che noi l’abbiamo visto».

Lascia scritto, infatti, la «Sibilla del Reno», come veniva chiamata già in vita: «Nell’anno 1170 dopo la nascita di Cristo ero per un lungo tempo malata a letto.
Allora, fisicamente e mentalmente sveglia, vidi una donna di una bellezza tale che la mente umana non è in grado di comprendere.
La sua figura si ergeva dalla terra fino al cielo. Il suo volto brillava di uno splendore sublime. Il suo occhio era rivolto al cielo.
Era vestita di una veste luminosa e raggiante di seta bianca e di un mantello guarnito di pietre preziose. Ai piedi calzava scarpe di onice. Ma il suo volto era cosparso di polvere, il suo vestito, dal lato destro, era strappato.
Anche il mantello aveva perso la sua bellezza singolare e le sue scarpe erano insudiciate dal di sopra.
Con voce alta e lamentosa, la donna gridò verso il cielo: “Ascolta, o cielo: il mio volto è imbrattato!
Affliggiti, o terra: il mio vestito è strappato!
Trema, o abisso: le mie scarpe sono insudiciate!”
E proseguì: “Ero nascosta nel cuore del Padre, finché il Figlio dell’uomo, concepito e partorito nella verginità, sparse il suo sangue. Con questo sangue, quale sua dote, mi ha preso come sua sposa. Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini.
Proprio questo restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale.

Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità”. E sentii una voce dal cielo che diceva: “Questa immagine rappresenta la Chiesa. Per questo, o essere umano che vedi tutto ciò e che ascolti le parole di lamento, annuncialo ai sacerdoti che sono destinati alla guida e all’istruzione del popolo di Dio e ai quali, come agli apostoli, è stato detto: ‘Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura’ (Mc. 16,15)”»

(Lettera a Werner von Kirchheim e alla sua comunità sacerdotale).

Le rivelazioni private, riconosciute dalla Chiesa, sono strumenti preziosi per tutti i suoi membri, dalle più alte gerarchie ai più umili fedeli; sono manifestazioni divine dentro la storia dell’uomo, il quale, troppo spesso, si lascia distrarre e sedurre dalle dinamiche perverse del mondo; sono segnali che cercano di avvertire, ammonire, svegliare le intorpidite, o a volte annientate, coscienze.

di Cristina Siccardi
Fonte: Corrispondenza Romana



Gli amuleti portano male…… alla Fede! - Padre Ernesto Maria Caro


Un terreno spesso scelto dai nemici di Dio per confondere i cristiani e indebolire la loro fede, è senza dubbio, l’uso di amuleti e di talismani. Con questi oggetti si cerca di ottenere la benevolenza e la provvidenza di Dio pensando erroneamente di camminare anche nella fede. Sarà dunque bene chiarire, una volta per tutte, che questi oggetti non hanno alcun valore, tuttavia il Demonio, colui che crea divisione, può utilizzarne qualcuno per causare il male. 
L’ignoranza fa sì che amuleti e talismani abbiano presunti poteri magici e soprannaturali. 
Prendiamo il caso della piramidi, alcune pietre o altri oggetti ai quali si attribuisce culto.

Queste cose sono promosse da scuole di pensiero ben lontane dal vero cristianesimo, e tra di essere annoveriamo la Dianetica, la dinamica mentale, lo yoga che in apparenza si presentano buone ed inoffensive, ma nella realtà allontanano l’uomo dalla fede e danno la possibilità al Demonio di fare ingresso nella nostra vita. Il Demonio è un essere reale, capace di perturbare e rendere infelici le nostre vite.

Dunque, tutte le pratiche di magia sono contrarie alla religione ed è censurabile l’uso degli amuleti. 

Lo spiritismo implica con frequenza, pratiche di magia o di profezia :per questa ragione, la Chiesa, da sempre, avverte i fedeli ad usare prudenza e ad evitare la trappola di amuleti e talismani e di certe pratiche seducenti.


di Padre Ernesto Maria Caro


domenica 24 marzo 2013

Domenica delle Palme - 24 marzo 2013




























"DOMENICA DELLE PALME"

Diamo inizio con questa celebrazione a quella che per noi discepoli di Gesù, è la settimana più importante dell’anno… talmente importante da essere definita "santa". 
Sincronizzeremo minuto dopo minuto gli orologi della fede alle ultime ore di vita del maestro. 
In ogni luogo… al lavoro, a casa, in famiglia, tutto procederà come sempre, ma col pensiero saremo lì a quegli ultimi istanti, alle Sue ultime parole. 
Tutto intorno a noi corre velocemente, come sempre, ma noi sappiamo cosa sta per succedere al Signore. Lo abbiamo seguito nel deserto, abbiamo cercato di innalzare il nostro sguardo verso il Tabor, verso la bellezza di Dio, abbiamo assistito, anche noi turbati, alla cacciata dei mercanti dal tempio eravamo lì quando a Nicodemo, in quel colloquio notturno, parlava della necessità di rinascere dall'alto guardando all'appeso!
La conosciamo bene la storia di quegli ultimi giorni, ma abbiamo bisogno che incroci la nostra storia, che scardini le nostre presunte certezze, che rianimi e ravvivi la nostra piccola fede. Abbiamo bisogno urgente di conversione, ancora e ancora. Ora è il tempo di fermarsi. Ora è il momento di sedersi per contemplare il mistero della morte di Dio. Inizia come una festa questa domenica, con quei rami di ulivi e di palme strappati dagli alberi e agitati davanti al Nazareno che entra in città cavalcando un asinello da soma. E la gente che canta e grida, inebriata, entusiasta, come se tutto fosse vero e semplice. Stendono i mantelli al passaggio, i bambini, come tutti i bambini, fanno a gara a chi urla più forte. Sorride, divertito, il Signore. Non entra cavalcando un puledro bianco, nessun esercito a scortarlo, né bandiere a sventolare in alto. Non i notabili e i sacerdoti lo aspettano alle porte della città, ma povera gente che interrompe il lavoro del campi. Osanna, Dio inatteso. Osanna, speranza nelle tenebre. Osanna, consolazione dei perduti e dei perdenti. Osanna. Nelle nostre chiese si ripete quel gesto. Bambini divertiti portano i loro piccoli rami d'ulivo a benedire.
Poi la liturgia si fa seria. Anticipando il grande venerdì, già legge il racconto della passione. Tocca a Marco, quest'anno, il primo vangelo ad essere scritto. È un racconto asciutto, sconcertante. Gesù non reagisce, non parla, non dice nulla. Sa che sarebbe inutile… sa che non serve! L'uomo ha deciso di farlo fuori, cosa cambierebbe? Non è un Gesù rassegnato ma consegnato. Umano… umanissimo. Marco è l'unico che descrive il grido straziante del morente e la citazione del salmo 22 con quella percezione stupita dell'abbandono come se Dio, per un attimo, si dimostrasse incredulo… assente. Non muore per finta, il Signore… non ha vantaggi, non scherza. Va fino in fondo, osa, si consegna, è osteso, appeso. 
Ecco, Dio ha dato tutto! Ci ritrovate in questo racconto? Ci siamo? Dove? 
Forse quest'anno ci sentiamo un po' come gli apostoli paurosi e sconcertati, o come Pilato, ossessionato dal potere. Forse ci ritroviamo nella trama intrigante e sconclusionata di Giuda, o nella sofferenza cruenta del Cireneo che porta la Croce, o nel desiderio di salvezza del ladro o, Dio non voglia, ci ritroviamo nell'indifferenza di quei pii ebrei che, entrando in città, affrettando il passo per l'imminente temporale, gettarono uno sguardo di disprezzo verso gli ennesimi condannati a morte, vergogna della società, che venivano esemplarmente puniti. Tra questi condannati, Dio moriva. Ma fra tutti i personaggi, due mi sono particolarmente cari, due che solo Marco descrive. 
Il primo è quel ragazzo presente all'arresto, forse svegliato dal trambusto, sceso per curiosare vestito solo di un lenzuolo e che, preso dal trambusto, fugge inorridito, nudo. Chi è quel ragazzo? Piccolo enigma fra i tanti, molti hanno cercato di identificarlo, forse è lo stesso giovane Marco. Ma, certamente, Marco, e con lui Pietro, sta dicendo che quel giovane assomiglia al neofita che si avvicina a Cristo. Fino a quando non ha accettato la durezza della croce, lo scandalo della passione, lo sconcerto del fallimento, non può dirsi discepolo. È facile seguire Gesù nella gloria. Meno evidente farlo nella croce. 
Fugge, il ragazzo, ma sarà di nuovo presente alla resurrezione. È una nudità necessaria, la sua. Come quella del discepolo. Pietro, che l'ha drammaticamente vissuta sulla sua pelle, lo sa! Chi è Gesù? La domanda accompagna tutto il vangelo. Qui, alla fine, troviamo la risposta. Risposta che viene data, clamorosamente, da un non credente, un ufficiale romano che si fa voce di tutti i cercatori di Dio. Veramente costui è il figlio di Dio, afferma, vedendolo morire in quel modo. Senza maledire, senza disperazione, senza fuggire. E noi… meditando la passione, guardando verso l'appeso, possiamo arrivare alla stessa, sconcertante conclusione? Buon cammino a tutti... Lasciamoci trascinare dalla narrazione, riviviamo in noi gli odori, i suoni, le luci e i colori di quei tre giorni in cui Dio morì donando se stesso.

sabato 23 marzo 2013

L'umiltà di Pio X


Oggi voglio raccontarvi gesti di umiltà di un uomo a cui son molto legato, che è Pio X (papa dal 1903 al 1914), l’ultimo pontefice ad essere stato proclamato santo. 
Come prima cura d’anime ebbe la parrocchia di Tombolo, nel trevigiano, un paese di commercianti di bestiame dove si bestemmiava molto. Gli abitanti si lamentarono con il giovane prete di essere analfabeti. 
E lui mise in piedi una scuola serale per insegnare loro a leggere e scrivere. «Quanto ci farà pagare?», chiese la gente. «Nulla, vi chiedo soltanto una cosa, che non bestemmiate più». 
Quando in seguito fu eletto Papa, prese ad insegnare il catechismo anche da Pontefice, radunando i fedeli romani nel primo pomeriggio della domenica nel cortile della Pigna, in Vaticano.
Quando gli fu detto che, se voleva, poteva conferire titoli nobiliari ai suoi parenti, rispose: «Hanno giù un loro rispettivo titolo: mio fratello è ufficiale delle poste e le mie sorelle sono brave governatrici di casa». 
Un suo nipote prete, don Battista Parolin, dopo aver pregato di farsi chiamare a servizio in Vaticano, si sentì rispondere dall’illustre zio che egli lo riteneva molto più utile nella sua parrocchia.
Generosissimo con i poveri, aveva spedito il suo orologio d’oro al Monte di pietà e aveva rinunciato a comprare la cappamagna cardinalizia, scegliendo di adattare, grazie ai rattoppi delle sorelle, quella vecchia e consumata del predecessore. Arrivò persino ad impegnare l’anello episcopale per ricavarne monete da regalare a chi aveva bisogno.

San Pio X indossava una croce pettorale tempestata di gemme preziose, ma solo dopo la sua morte si è saputo essere una copia in bigiotteria identica all'originale, venduta per fare la carità ai poveri senza alcun comunicato della sala stampa vaticana, perché nessuno dovesse saperlo.

Quel santo Pontefice, allorché era Patriarca di Venezia, saliva in treno nella carrozza di prima classe, per poi viaggiare in terza e ridiscendere, una volta giunto a destinazione, dalla prima. 
Nessuno doveva sapere, nessuna forma di umiltà andava ostentata. 
E’ così, fratelli cari, che hanno agito tantissimi sacerdoti, vescovi, cardinali e papi, in una storia della Chiesa che nessuno più conosce. E’ nel silenzio che Essa vuole agire, memore delle parole di Gesù, che nel Vangelo di Matteo (6,1-4) ammonisce: 

“Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”.





venerdì 22 marzo 2013

DESACRALISMI - Card. Joseph Ratzinger, 13 luglio 1988


"Dopo il Concilio, ci sono stati molti preti che hanno elevato deliberatamente la "desacralizzazione" a livello di un programma, sulla pretesa che il nuovo testamento ha abolito il culto del tempio: il velo del tempio che è stato strappato dall'alto al basso al momento della morte di Cristo sulla croce è, secondo certuni, il segno della fine del sacro. La morte di Gesù, fuori delle mura della città, cioè, dal mondo pubblico, è ora la vera religione. La religione, se vuol avere il suo essere in senso pieno, deve averlo nella non sacralità della vita quotidiana, nell'amore che è vissuto. Ispirati da tali ragionamenti, hanno messo da parte i paramenti sacri; hanno spogliato le chiese più che hanno potuto di quello splendore che porta a elevare la mente al sacro; ed hanno ridotto il liturgia alla lingua e ai gesti di una vita ordinaria, per mezzo di saluti, i segni comuni di amicizia e cose simili.

Non c'è dubbio che, con queste teorie e pratiche, hanno del tutto misconosciuto l'autentica connessione tra il vecchio ed il nuovo testamento: s'è dimenticato che questo mondo non è il regno di Dio e che "il Santo di Dio" (Gv 6,69) continua ad esistere in contraddizione a questo mondo; che abbiamo bisogno di purificazione prima di accostarci a lui; che il profano, anche dopo la morte e la resurrezione di Gesù, non è riuscito a trasformarsi nel "santo". Il Risorto è apparso, ma a quelli il cui il cuore era ben disposto verso di Lui, al Santo; non si è manifestato a tutti. È in questo modo che un nuovo spazio è stato aperto per la religione a cui tutti noi ora dobbiamo sottometterci; questa religione che consiste nell'accostarci alla famiglia del Risorto, ai cui piedi le donne si prostravano e lo adoravano. Non intendo ora sviluppare ulteriormente questo aspetto; mi limito sinteticamente a questa conclusione: dobbiamo riacquistare la dimensione del sacro nella liturgia. 
La liturgia non è una festa; non è una riunione con scopo di passare dei momenti sereni. 
Non importa assolutamente che il parroco si scervelli per farsi venire in mente chissà quali idee o novità ricche di immaginazione. 
La liturgia è ciò che fa sì che il Dio Tre volte Santo sia presente fra noi; è il roveto ardente; è l'alleanza di Dio con l'uomo in Gesù Cristo, che è morto e di nuovo è tornato alla vita. La grandezza della liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi [da soli] non siamo capaci di evocare. 

Viene perché vuole. In altre parole, l'essenziale nella liturgia è il mistero, che è realizzato nel ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo sminuisce. Alcuni cercano di sperimentarlo secondo una moda vivace, e si trovano ingannati: quando il mistero è trasformato nella distrazione, quando l'attore principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l'animatore liturgico (...)

Tutto questo conduce tantissima gente chiedersi se la Chiesa di oggi è realmente la stessa di ieri, o se l'hanno cambiata con qualcos'altro senza dirlo alla gente. La sola via nella quale il Vaticano II può essere reso plausibile è di presentarlo così come è: una parte dell'ininterrotta, dell'unica tradizione della Chiesa e della sua fede.

Non c'è il minimo dubbio che, nei movimenti spirituali dell'era post-conciliare, vi è stato frequentemente un oblio, o persino una soppressione, della questione della verità".


Card. Joseph Ratzinger, Indirizzo alla Conferenza Episcopale Cilena, 13 luglio 1988.


giovedì 21 marzo 2013

Confessioni a Padre Pio


Un signore, tra il 1954 e il 1955 andò a confessarsi da Padre Pio, a San Giovanni Rotondo. Quando finì l’accusa dei peccati padre Pio chiese: "Hai altro?" ed egli rispose, "No padre". Il padre ripeté la domanda: "Hai altro?" "No padre". Per la terza volta padre Pio gli chiese: "Hai altro?". Al reiterato diniego si scatenò l’uragano. Con la voce dello Spirito Santo padre Pio urlò: "Vattene! Vattene! Perché non sei pentito dei tuoi peccati!".
L’uomo rimase impietrito anche per la vergogna che provava di fronte a tanta gente. Quindi cercò di dire qualcosa…ma padre Pio continuò: "Stai zitto, chiacchierone, hai parlato abbastanza; ora voglio parlare io. E’ vero o non è vero che frequenti le sale da ballo?" – " Si padre" – "E non sai che il ballo è un invito al peccato?". Stupito non sapevo che dire: nel portafoglio avevo il tesserino di socio di una sala da ballo. Promisi di emendarmi e dopo tanto mi diede l’assoluzione.

Le bugie

Un giorno, un signore disse a Padre Pio. "Padre, dico bugie quando sono in compagnia, tanto per tenere in allegria gli amici.". E Padre Pio rispose: "Eh, vuoi andare all’inferno scherzando?!"

La mormorazione

La malizia del peccato della mormorazione consiste nel distruggere la reputazione e l’onore di un fratello che ha invece diritto a godere di stima.
Un giorno Padre Pio disse ad un penitente: "Quando tu mormori di una persona vuol dire che non l’ami, l’hai tolta dal cuore. Ma sappi che, quando togli uno dal tuo cuore, con quel tuo fratello se ne va via anche Gesù".
Una volta, invitato a benedire una casa, arrivato all’ingresso della cucina disse "Qui ci sono i serpenti, non entro". E ad un sacerdote che spesso ci andava per mangiare disse di non andarci più perché li si mormorava.

La bestemmia

Un uomo era originario delle Marche ed insieme ad un suo amico era partito dal suo paese con un camion per trasportare dei mobili vicino a San Giovanni Rotondo. Mentre facevano l’ultima salita, prima di giungere a destinazione, il camion si ruppe e si fermò. Ogni tentativo di farlo ripartire risultò vano. A quel punto l’autista perse la calma e preso dall’ira bestemmiò. Il giorno dopo i due uomini andarono a San Giovanni Rotondo dove uno dei due aveva una sorella. Tramite lei riuscirono a confessarsi da Padre Pio. Entrò il primo ma padre Pio non lo fece neanche inginocchiare e lo cacciò via. Venne poi il turno dell’autista che cominciò il colloquio e disse a Padre Pio: "Mi sono adirato". Ma Padre Pio gridò: "Sciagurato! Hai bestemmiato la Mamma nostra! Che ti ha fatto la Madonna?". E lo cacciò via.

Il demonio è molto vicino a coloro che bestemmiano.

In un albergo di San Giovanni Rotondo non si poteva riposare né di giorno né di notte perché c’era una bambina indemoniata che urlava da fare spavento. La mamma portava ogni giorno la piccola in Chiesa con la speranza che Padre Pio la liberasse dallo spirito del male. Anche qui il baccano che si verificava era indescrivibile. Una mattina dopo la confessione delle donne, nell’attraversare la chiesa per far ritorno in convento, Padre Pio si ritrovò davanti la bambina che urlava paurosamente, trattenuta a stento da due o tre uomini. Il Santo, stanco di tutto quel trambusto, diede una pestata sul piede e poi una violenta pacca sulla testa, gridando. "Mo basta!" La piccola cadde a terra esamine. Ad un medico presente il Padre disse di portarla a San Michele, al vicino santuario di Monte Sant’Angelo. Arrivati a destinazione, entrarono nella grotta dove è apparso san Michele. La bambina si rianimò ma non c’era verso di farla avvicinare all’altare dedicato all’Angelo. Ma ad un certo punto un frate riuscì a far toccare l’altare alla bambina. La bambina come folgorata cadde a terra. Si risvegliò più tardi come se non fosse successo nulla e con dolcezza chiese alla Mamma: "Mi compri un gelato?"
A quel punto il gruppo di persone ritornò a San Giovanni Rotondo per informare e ringraziare Padre Pio il quale disse alla Mamma: "Di a tuo marito che non bestemmiasse più, altrimenti il demonio ritorna".

Mancare all’Eucarestia

Un giovane medico, agli inizi degli anni ’50, andò a confessarsi da Padre Pio. Fece l’accusa dei suoi peccati e rimase in silenzio. Padre Pio chiese se avesse altro da aggiungere ma il medico risposte negativamente. Allora Padre Pio disse al medico "Ricordati che nei giorni festivi non si può mancare neanche ad una sola Messa, perché è peccato mortale". A quel punto il giovane ricordò di avere "saltato" un appuntamento domenicale con la Messa, qualche mese prima.

La magia

Padre Pio proibiva ogni forma di ricorso allo spiritismo ed alle pratiche dell’occulto. Una signora racconta: "Mi confessai da Padre Pio nel mese di novembre del 1948. Tra le altre cose disse al Padre che nella nostra famiglia eravamo preoccupati perché una zia leggeva le carte. Il padre con tono perentorio disse: "Gettate via subito quella roba".

Il divorzio

Nella famiglia unita e santa, Padre Pio vedeva il luogo dove germoglia la fede. Egli diceva. Il Divorzio è il passaporto per l’Inferno.
Una giovane signora, terminata la confessione dei propri peccati, ricevette la penitenza da Padre Pio che le disse: "Devi chiuderti nel silenzio della preghiera e salverai il tuo matrimonio".
La Signora rimase sorpresa perché il suo rapporto matrimoniale non aveva problemi. Dovette invece ricredersi di li a poco quando una tempesta colpì il suo rapporto matrimoniale. Lei era però preparata e seguendo il consiglio di Padre Pio, superò quel triste momento evitando la distruzione della famiglia.

L’Aborto

Un giorno, padre Pellegrino chiese a Padre Pio: "Padre, lei stamattina ha negato l’assoluzione per un procurato aborto ad una signora. Perché è stato tanto rigoroso con quella povera disgraziata?".
Padre Pio rispose: "Il giorno in cui gli uomini, spaventati dal, come si dice, boom economico, dai danni fisici o dai sacrifici economici, perderanno l’orrore dell’aborto, sarà un giorno terribile per l’umanità. Perché è proprio quello il giorno in cui dovrebbero dimostrare di averne orrore. L’aborto non è soltanto omicidio ma pure suicidio. E con coloro che vediamo sull’orlo di commettere con un solo colpo l’uno e l’altro delitto, vogliamo avere il coraggio di mostrare la nostra fede? Vogliamo recuperarli si o no?"
"Perché suicidio?" chiese padre Pellegrino.
"Assalito da una di quelle insolite furie divine, compensato da uno sconfinato entroterra di dolcezza e di bontà, padre Pio rispose: "Capiresti questo suicidio della razza umana, se con l’occhio della ragione, vedessi "la bellezza e la gioia" della terra popolata di vecchi e spopolata di bambini: bruciata come un deserto. Se riflettessi, allora si che capiresti la duplice gravità dell’aborto: con l’aborto si mutila sempre anche la vita dei genitori. Questi genitori vorrei cospargerli con le ceneri dei loro feti distrutti, per inchiodarli alle loro responsabilità e per negare ad essi la possibilità di appello alla propria ignoranza. I resti di un procurato aborto non vanno seppelliti con falsi riguardi e falsa pietà. Sarebbe un abominevole ipocrisia. Quelle ceneri vanno sbattute sulle facce di bronzo dei genitori assassini.
Il mio rigore, in quanto difende il sopraggiungere dei bambini al mondo è sempre un atto di fede e di speranza nei nostri incontri con Dio sulla terra.