venerdì 31 agosto 2012

Il Cardinale Carlo Maria Martini è morto - 31 agosto 2012



Il Cardinale Carlo Maria Martini è morto. 
Lo accolgano gli Angeli e lo conducano davanti al Trono dell'Altissimo. 
Amen. 
Riposi in Pax Christi.


L'eterno riposo dona a lui o Signore
e splenda per lui la Luce Perpetua.
Amen.

Fedeltà al Papa – San Josemarìa Escrivà


A pochi minuti dall'elezione di Benedetto XVI: "La fedeltà al Romano Pontefice implica un obbligo chiaro e determinato: conoscere il pensiero del Papa, espresso nelle Encicliche o in altri documenti, e fare quanto è in noi  perché tutti i cattolici diano ascolto al magistero del Santo Padre, e adeguino a questi insegnamenti il loro agire nella vita." (San Josemaría, Forgia, 633)

19 aprile 2005
«Perché siano una cosa sola, come lo siamo noi» [Gv 17, 11], chiede Cristo al Padre; «Perché tutti siano una sola cosa, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi una sola cosa in noi» [Gv 17, 21]. La continua esortazione all'unità sgorga costantemente dalle labbra di Gesù Cristo, perché «ogni regno diviso in sé stesso cade in rovina, e nessuna città o famiglia divisa in sé stessa può stare in piedi» [Mt 12, 25]. Predicazione che diventa desiderio ardente: «Ed ho ancora altre pecore che non sono di quest'ovile; anche quelle io devo radunare, e ascolteranno la mia voce, e si avrà un solo gregge, e un solo pastore» [Gv 10, 16].

Con che meravigliosi accenti il Signore ha esposto questa dottrina! Moltiplica le parole e le immagini affinché possiamo comprenderlo, perché resti ben impressa nella nostra anima questa passione per l'unità: «Io sono la vera vite, e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie via; e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché frutti di più... Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può recare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» [Gv 15, 1-5].

Non vedete come quelli che si separano dalla Chiesa, anche se sono rami frondosi, diventano rapidamente secchi, e i loro frutti si riempiono del brulichio dei vermi? Amate la Chiesa Santa, Apostolica, Romana: l'Unica Chiesa. Scrive san Cipriano: «Chi miete altrove, fuori della Chiesa, disperde la Chiesa di Cristo» [SAN CIPRIANO, De catholicae Ecclesiae unitateHomilia de capto Eutropio, 6].

Si difende l'unità della Chiesa vivendo molto uniti a Cristo, che è la vite di cui siamo i tralci. In che modo? Aumentando la nostra fedeltà al Magistero perenne della Chiesa: «Ai successori di Pietro lo Spirito Santo non fu promesso perché per rivelazione propria propalassero una nuova dottrina, ma perché, con la sua assistenza, custodissero santamente ed esponessero fedelmente la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il deposito della fede» [CONCILIO VATICANO I, Costituzione dogmatica sulla Chiesa, DS 3070 (1836)]. In questo modo conserveremo l'unità: venerando la nostra Madre senza macchia; amando il Romano Pontefice.
La Chiesa nostra Madre, 20

La fedeltà al Romano Pontefice implica un obbligo chiaro e determinato: conoscere il pensiero del Papa, espresso nelle Encicliche o in altri documenti, e fare quanto è in noi perché tutti i cattolici diano ascolto al magistero del Santo Padre, e adeguino a questi insegnamenti il loro agire nella vita.
Forgia, 633

Offri l'orazione, l'espiazione e l'azione per questo fine: “Ut sint unum!” — perché tutti noi cristiani abbiamo una sola volontà, un solo cuore, un solo spirito: perché “omnes cum Petro ad Iesum per Mariam!” — tutti, ben uniti al Papa, andiamo a Gesù, per mezzo di Maria.
Forgia, 647

giovedì 30 agosto 2012

Giovanni Paolo II a difesa della vita


A decidere della morte del bambino non ancora nato, accanto alla madre, ci sono spesso altre persone. Anzitutto, può essere colpevole il padre del bambino, non solo quando espressamente spinge la donna all'aborto, ma anche quando indirettamente favorisce tale sua decisione perché la lascia sola di fronte ai problemi della gravidanza: in tal modo la famiglia viene mortalmente ferita e profanata nella sua natura di comunità di amore e nella sua vocazione ad essere «santuario della vita». Né vanno taciute le sollecitazioni che a volte provengono dal più ampio contesto familiare e dagli amici. Non di rado la donna è sottoposta a pressioni talmente forti da sentirsi psicologicamente costretta a cedere all'aborto: non v'è dubbio che in questo caso la responsabilità morale grava particolarmente su quelli che direttamente o indirettamente l'hanno forzata ad abortire. Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuovere la vita.
Ma la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti. Una responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti hanno favorito il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e disistima della maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare — e non l'hanno fatto — valide politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente di quelle numerose o con particolari difficoltà economiche ed educative. Non si può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell'aborto nel mondo. In tal senso l'aborto va oltre la responsabilità delle singole persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente sociale: è una ferita gravissima inferta alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero esserne i costruttori e i difensori. Come ho scritto nella mia Lettera alle Famiglie, «ci troviamo di fronte ad un'enorme minaccia contro la vita, non solo di singoli individui, ma anche dell'intera civiltà». Ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una «struttura di peccato» contro la vita umana non ancora nata.

(Beato Giovanni Paolo II - Evangelium Vitae 59)



mercoledì 29 agosto 2012

II Rosario in famiglia

Adesso stiamo dicendo il santo Rosario, ma vi siete mai resi conto perché in tante famiglie Dio non può entrare? Sapete perché?
Perché nelle nostre famiglie non si prega più. Nelle nostre famiglie non si va più ai sacramenti e lentamente si diventa dei materialoni. E poi la materia ci soffoca, ci acceca, ed eccoci nel buio.
Ma quanto era bella quella famiglia raccolta davanti al quadro della Madonna, tutti riuniti, anche i bambini, e si insegnava il Padre Nostro e l' Ave Maria, e dicevano il Rosario!
La corona della Madonna ce la siamo tolta dalle mani; i nostri bambini talvolta non sanno neppure che cos'è.
Ma, cari genitori, non mettiamo più in mano ai bambini il Rosario della Madonna, e a 18 anni vostro figlio che cosa avrà in mano? Starà sempre così senza far niente?
Non avete messo loro in mano l'arma dell'amore, e dovrete vedere nelle loro mani l'arma dell' odio, la pistola. E non sarà questo anche per colpa dei genitori?

Fratel Gino

martedì 28 agosto 2012

Santa Monica. Il Papa: mai scoraggiarsi di fronte al rumore del male

Essere costanti nel bene nonostante le difficoltà e le incomprensioni: è l’insegnamento che il Papa trae da Santa Monica che aiutò il marito pagano a “scoprire la bellezza della fede” e tante lacrime e preghiere versò per la conversione del figlio, Agostino.

“Monica non smise mai di pregare per lui e per la sua conversione, ed ebbe la consolazione di vederlo ritornare alla fede e ricevere il battesimo. Iddio esaudì le preghiere di questa santa mamma, alla quale il vescovo di Ippona aveva detto: È impossibile che un figlio di tante lacrime vada perduto”. (Angelus, 30 agosto 2009).

Di fronte alla ribellione del figlio, Monica fu capace di vincere il chiasso del male col silenzio del bene:

“Quante difficoltà anche oggi nei rapporti familiari e quante mamme sono angustiate perché i figli s’avviano su strade sbagliate! Monica, donna saggia e solida nella fede, le invita a non scoraggiarsi, ma a perseverare nella missione di spose e di madri, mantenendo ferma la fiducia in Dio e aggrappandosi con perseveranza alla preghiera”. (Angelus, 27 agosto 2006)

Il Papa ricorda un celebre colloquio tra Santa Monica e Sant’Agostino a Ostia: davanti hanno solo il mare e il cielo e nel silenzio “toccano il cuore di Dio”. Mostrano così che nel cammino verso la Verità dobbiamo anche saper tacere e in quel silenzio “Dio può parlare”:

“Questo è vero sempre anche nel nostro tempo: a volte si ha una sorta di timore del silenzio, del raccoglimento, del pensare alle proprie azioni, al senso profondo della propria vita, spesso si preferisce vivere solo l’attimo fuggente, illudendosi che porti felicità duratura; si preferisce vivere, perché sembra più facile, con superficialità, senza pensare; si ha paura di cercare la Verità o forse si ha paura che la Verità ci trovi, ci afferri e cambi la vita, come è avvenuto per Sant’Agostino”. (Udienza generale, 25 agosto 2010)

Le reliquie di Santa Monica sono custodite a Roma, nella Basilica di Sant’Agostino. Sono state traslate da Ostia nel XV secolo, come spiega al microfono di Tiziana Campisi, padre Gianfranco Casagrande:

R. - Dopo la conversione di Sant’Agostino, madre e figlio da Milano vanno ad Ostia Tiberina per imbarcarsi per l’Africa; proprio durante l’attesa per l’imbarco Monica si ammala e muore. Il figlio Agostino chiede che sia sepolta in loco, come aveva chiesto anche la madre, accanto alla chiesa di Sant’Aurea di Ostia Antica. Poi, si deve passare subito al 1430 quando, per iniziativa di Papa Martino V, queste reliquie vengono prelevate dal sepolcro di Ostia Antica e, attraverso una processione fluviale lungo il Tevere, vengono portate a Roma nella chiesa dei Padri Agostiniani, che anticamente era quella di San Trifone in Posterula. Cinquant’anni dopo il cardinale Guillaume d'Estouteville, per onorare i meriti dell’ordine agostiniano, volle costruire una nuova grande chiesa dedicandola a Sant’Agostino, che inglobò la piccola chiesa di San Trifone. Il Vanvitelli successivamente - negli anni 1750/1760 - volle ulteriormente onorare le reliquie di Santa Monica collocandole in un sarcofago di marmo verde, prezioso, sotto l’altare che fu dedicato proprio a lei, oggi la cappella che si può visitare nella Basilica di Sant’Agostino.

D. - Quant’è vivo oggi il culto a Santa Monica nella Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio?

R. - Monica è invocata dalle mamme cristiane, a lei è dedicata anche un’associazione - Associazione delle Madri Cristiane - diffusa nel mondo ed in particolare in America, negli Stati Uniti ed in Canada. Ogni anno vengono inviate dall’America migliaia di lettere e tutte queste richieste vengono collocate accanto alla tomba: sono richieste che toccano fondamentalmente problemi che riguardano la famiglia, in fondo Santa Monica era una madre di famiglia. Quindi, si chiede a lei un’intercessione particolare presso Dio per l’unità della famiglia, la conversione dei figli, la liberazione della schiavitù della droga, del sesso, dell’alcolismo. Si richiede a Santa Monica anche la conversione del cuore, il ritorno ad una vita cristiana più dignitosa, la pace e la concordia tra le famiglie.

D. - Monica è stata circondata nel corso della sua vita da figure di uomini, possiamo dire, difficili: il marito anzitutto e poi il figlio Agostino; eppure è sempre riuscita a rapportarsi a queste persone in maniera singolare. Qual era il suo segreto?

R. - Lo svela proprio Sant’Agostino nelle Confessioni, dicendo che la madre, Monica, era una donna mite, dolce di carattere ma fortissima nella fede. C’è un’espressione molto bella, sintetica di Sant’Agostino, che noi quest’anno abbiamo messo sull’altare di Santa Monica, un’iscrizione fatta in ricamo antico del 700: “In omnibus caritas”, cioè “In ogni situazione prevalga sempre la carità, l’amore”. Monica ha fatto proprio questo e lo ha espresso anche con Sant’Agostino, e credo che questa sia stata la forza trainante della fede di Monica, che assomiglia tantissimo alla fede di tante e tante donne cristiane che in silenzio soffrono, portano il peso anche del matrimonio, il peso alle volte di mariti che tradiscono o di figli che scelgono la strada sbagliata, ma non desistono dalla preghiera, dall’intercessione, dall’offerta del sacrificio quotidiano. Credo che Dio ascolti subito, anche se la sua risposta non è immediata, ma Dio risponde quando vede una donna che soffre, che piange e che intercede per la salvezza eterna dei propri familiari.

D. - Dunque, Monica è ancora un esempio per le donne di oggi?

R. - Io credo di sì. Tantissime donne vedono ancora questa donna come una madre a cui parlare e con cui dialogare, con cui sfogarsi e a cui svelare anche certi segreti.


Radio Vaticana


lunedì 27 agosto 2012

Benedetto XVI: la falsità il male del mondo


La «falsità» è «il marchio del diavolo», e fu questa la «colpa più grave» di Giuda. Lui, inoltre, voleva «vendicarsi» di Gesù, da cui si sentiva «tradito», perchè essendo uno zelota «voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani».

All’Angelus Benedetto XVI si è soffermato sulla figura di Giuda, l’apostolo che tradì Gesù, commentando i brani del vangelo sui discepoli che abbandonarono il Cristo non credendo alle sue parole sul suo essere «il pane vivo disceso dal cielo».

«Gesù - ha detto il Papa ai fedeli riuniti nel cortile interno della residenza di Castel Gandolfo - sapeva che anche tra i dodici Apostoli c’era uno che non credeva: Giuda. Anche Giuda avrebbe potuto andarsene, come fecero molti discepoli, anzi, avrebbe dovuto andarsene, se fosse stato onesto».

«Invece rimase con Gesù - ha proseguito -. Rimase non per fede, non per amore, ma con il segreto proposito di vendicarsi del Maestro». «Perchè? - si è chiesto papa Ratzinger - Perchè Giuda si sentiva tradito da Gesù, e decise che a sua volta lo avrebbe tradito. Giuda era uno zelota, e voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani. Ma Gesù aveva deluso queste attese».

Secondo il Pontefice, «il problema è che Giuda non se ne andò, e la sua colpa più grave fu la falsità, che è il marchio del diavolo. Per questo Gesù disse ai Dodici: Uno di voi è il diavolo!». Il Papa ha quindi invitato a pregare perchè si possa «credere in Gesù» ed «essere sempre sinceri con Lui e con tutti».

Angelus del 26 agosto 2012 
Fonte: VATICAN INSIDER 



domenica 26 agosto 2012

26 agosto 1978 elezione di Giovanni Paolo I


Oggi, 26 agosto, ricordiamo l'elezione di Albino Luciani a Pontefice. Scelse un doppio nome, Giovanni Paolo, il primo nella storia della Chiesa, ed eliminò molti titoli attribuiti al Papa e la sedia gestatoria. Perchè, come affermò, "il centro della Chiesa e della vita dei cristiani non è il Papa ma Cristo".




http://www.ilsussidiario.net/News/Cinema-Televisione-e-Media/2012/8/26/PAPA-LUCIANI-IL-SORRISO-DI-DIO-Neri-Marcore-e-Giovanni-Paolo-I-la-storia-del-suo-pontificato-brevissimo-Rai-1-La-trama-/314237/

Pregate per le anime del Purgatorio - San Pio da Pietrelcina

Una sera Padre Pio stava riposando in una stanza, al pianterreno del convento, adibita a foresteria. Era solo e si era da poco disteso sulla branda quando, improvvisamente, ecco comparirgli un uomo avvolto in un nero mantello a ruota. Padre  Pio, sorpreso, alzandosi, chiese all'uomo chi fosse e che cosa volesse. Lo sconosciuto rispose di essere un 'anima del Purgatorio. "Sono Pietro Di Mauro. Sono morto in un incendio, il 18 settembre 1908, in questo convento adibito, dopo l'espropriazione dei beni ecclesiastici, ad un ospizio per vecchi. Morii fra le fiamme, nel mio pagliericcio, sorpreso nel sonno, proprio in questa stanza. Vengo dal Purgatorio: il Signore mi ha concesso di venirvi a chiedere di applicare a me la vostra Santa Messa di domattina. Grazie a questa Messa potrò entrare in Paradiso". Padre Pio assicurò che avrebbe applicato a lui la sua Messa...ma ecco le parole di Padre Pio: "Io, volli accompagnarlo alla porta del convento. Mi resi pienamente conto di aver parlato con un defunto soltanto quando usciti nel sagrato, l'uomo che era al mio fianco, scomparve improvvisamente". Devo confessare che rientrai in convento alquanto spaventato. A padre Paolino da Casacalenda, Superiore del convento, al quale non era sfuggita la mia agitazione, chiesi il permesso di celebrare la Santa Messa in suffragio di quell'anima, dopo, naturalmente, avergli spiegato quanto accaduto". Qualche giorno dopo, Padre Paolino, incuriosito, volle fare qualche controllo. recatosi all'anagrafe del comune di San Giovanni Rotondo, richiese ed ottenne il permesso di consultare il registro dei deceduti nell'anno 1908. Il racconto di Padre Pio, corrispondeva a verità. Nel registro relativo ai decessi del mese di settembre, padre Paolino rintracciò il nome, il cognome e la causale della morte: "In data 18 settembre 1908, nell'incendio dell'ospizio è perito Pietro di Mauro, fu Nicola".

sabato 25 agosto 2012

17 AGOSTO 1923 Padre Pio protetto dai cittadini rimase a San Giovanni Rotondo

Una data fondamentale quella del 17 agosto 1923 per gli abitanti di San Giovanni Rotondo e per lo stesso Padre Pio. 
Infatti, in quello stesso anno accadevano delle cose incredibili per il povero Padre Pio, ostacolato e "torturato" sempre, sia dal maligno che dalla stessa Chiesa che non credeva fino in fondo alle Sue stimmate ed alla Sua buona fede. Infatti il 17 giugno 1923 giunse a San Giovanni Rotondo dal Sant' Ufficio, l' ordine che Padre Pio non celebrasse più la Santa Messa in pubblico e che non rispondesse più alle tantissime lettere che inviavano i fedeli al piccolo Convento dei Cappuccini. Così, il 25 giugno del 1923, come sempre, Padre Pio obbedì e celebrò la Santa Messa in privato. 
Il popolo di San Giovanni Rotondo e i fedeli accorsi per vedere il Santo, si ribellarono e si scaturì una vera e propria sommossa popolare. Il giorno dopo Padre Pio ritornò a celebrare la Santa Messa in pubblico ma un' altra croce lo attendeva. L' 8 agosto 1923 giunse a San Giovanni Rotondo una lettera direttamente dal Vaticano che invitava Padre Pio a lasciare il Convento dei Cappuccini di San Giovanni Rotondo per dedicarsi alla preghiera in quel di Ancona.
Il 17 agosto 1923, data della partenza di Padre Pio, l' intero paese di San Giovanni Rotondo con a capo il Sindaco Francesco Morcadi, amico di Padre Pio, si schierarono a mò di cordone intorno al Convento e non lasciarono partire il Frate che, commosso, tornò nella Sua celletta in attesa di nuove disposizioni. Padre Pio fu nuovamente salvo e il paese di San Giovanni Rotondo da quel giorno si è sempre prodigato in Suo favore ricevendo tanti insegnamenti e fortuna che ancora oggi si vedono.
A tale ricordo di quella presa di posizione dell' allora Sindaco Francesco Morcaldi, venne posta una targa per i postumi ricordando quanto bene ha voluto San Giovanni Rotondo a Padre Pio e viceversa e quanto bene ha fatto il Sindaco Francesco Morcaldi per il paese di San Giovanni Rotondo.

San Giovanni Rotondo (Foggia) - Di Massimo Pitti

venerdì 24 agosto 2012

Dal “Catechismo” di S. Giovanni Maria Vianney, patrono dei sacerdoti


‎"Fate bene attenzione, miei figlioli: il tesoro del cristiano non è sulla terra, ma in cielo. Il nostro pensiero perciò deve volgersi dov'è il nostro tesoro. Questo è il bel compito dell'uomo: pregare ed amare.
Se voi pregate ed amate, ecco, questa è la felicità dell'uomo sulla terra. La preghiera nient'altro è che l'unione con Dio.
Quando qualcuno ha il cuore puro e unito a Dio, preso da una certa soavità e dolcezza che inebria, è purificato da una luce che si diffonde attorno a lui misteriosamente. In questa unione intima, Dio e l'anima sono come due pezzi di cera fusi insieme che nessuno può più separare. Come è bella questa unione di Dio con la sua piccola creatura! È una felicità questa che non si può comprendere. Noi eravamo diventati indegni di pregare. Dio però, nella sua bontà, ci ha permesso di parlare con lui. La nostra preghiera è incenso a lui quanto mai gradito. Figlioli miei, il vostro cuore è piccolo, ma la preghiera lo dilata e lo rende capace di amare Dio.
La preghiera ci fa pregustare il cielo, come qualcosa che discende a noi dal paradiso. Non ci lascia mai senza dolcezza. Infatti è miele che stilla nell'anima e fa che tutto sia dolce.
Nella preghiera ben fatta i dolori si sciolgono come neve al sole. Anche questo ci dà la preghiera: che il tempo scorra con tanta velocità e tanta felicità dell'uomo che non si avverte più la sua lunghezza.
Ascoltate: quando ero parroco di Bresse dovendo per un certo tempo sostituire i miei confratelli, quasi tutti malati, mi trovavo spesso a percorrere lunghi tratti di strada; allora pregavo il buon Dio, e il tempo, siatene certi, non mi pareva mai lungo."

(Dal “Catechismo” di S. Giovanni Maria Vianney, patrono dei sacerdoti)
 

giovedì 23 agosto 2012

Cattolico, senza orazione?... È come un soldato senza armi. (Solco, 453).

Ti consiglio nella tua orazione, di intervenire negli episodi del Vangelo come un personaggio tra gli altri. Cerca anzitutto di raffigurarti la scena o il mistero che ti deve servire per raccoglierti e meditare. Poi applica ad essa la mente, prendendo in considerazione uno o l'altro dei lineamenti della vita del Maestro: la tenerezza del suo Cuore, la sua umiltà, la sua purezza, il suo modo di compiere la Volontà del Padre. Quindi raccontagli tutto quello che in queste cose ti suole capitare, quello che senti, i fatti della tua vita. E presta attenzione, perché forse Egli vorrà indicarti qualche cosa: è il momento delle mozioni interiori, di renderti conto, di lasciarti convincere.
(…) Vi ripeto che vi sono tantissimi modi di pregare. I figli di Dio non hanno bisogno di un metodo rigido e convenzionale per rivolgersi al loro Padre. L'amore è creativo, industrioso; se amiamo, sapremo scoprire vie personali ed intime, che ci condurranno a questo dialogo incessante con il Signore. (…)

Se ci sentiamo venir meno, ricorriamo all'amore di Maria Santissima, Maestra di orazione, e a san Giuseppe, nostro Padre e Signore, che tanto veneriamo, perché è colui che più intimamente ha frequentato in questo mondo la Madre di Dio e — dopo Maria Santissima — il suo Figlio divino. Essi presenteranno la nostra debolezza a Gesù, perché la trasformi in fortezza.
(Amici di Dio, nn. 253. 255)

(San Josemaria Escrivà)

Lodovico Carracci,
Thomas Aquinas considered the Transfiguration - the greatest miracle -  in that it complemented baptism and showed the perfection of life in Heaven.



mercoledì 22 agosto 2012

Il martirio di San Massimiliano M. Kolbe

«Chiedo di andare a morire al suo posto»
Una notizia terribile, agghiacciante arriva nel blocco 14, al quale apparteneva anche san Massimiliano Kolbe: è fuggito uno dei prigionieri del blocco 14. Se il prigioniero non tornerà, il giorno seguente sicuramente dieci prigionieri del blocco 14 verranno scelti e condannati a una morte atroce: la morte di fame e sete in un orrido e tenebroso sotterraneo, chiamato “bunker della morte”.
Il prigioniero non tornò. Verso il tramonto, il comandante Fritsch si presentò a scegliere i dieci da condannare nel blocco schierato davanti a lui.
La seguente testimonianza è quella di colui che è stato salvato dalla morte, Francesco Gajowniczek, il quale così descrive quello che lui ha potuto vedere e sentire:
«Eravamo allineati in dieci file, durante l’appello della sera. Mi trovavo nella stessa fila di Padre Kolbe; ci separavano tre o quattro prigionieri. Il Lagerführer Fritsch, circondato dalle guardie, si avvicinò, e cominciò a scegliere nelle file dieci prigionieri per mandarli a morire. Indicò col dito anche me. Uscii dalla fila e mi sfuggì un grido: avrei desiderato vedere ancora i miei figli! Dopo un istante uscì dalla fila un prigioniero, offrendo se stesso in mia vece. Si avvicinò, perciò, al Lagerführer e cominciò a dirgli qualcosa. Allora una guardia lo condusse nel gruppo dei condannati a morte; io ebbi l’ordine di rientrare nella fila».
Un altro testimone presente alla drammatica scena fu il medico Niceto Francesco Wlodarski, che si trovava lì presente.
«Dopo la scelta dei dieci prigionieri – egli racconta – Padre Massimiliano uscì dalla fila e, togliendosi il berretto, si mise sull’attenti dinanzi al comandante. Questi, sorpreso, rivolgendosi a lui, disse: “Che cosa vuole questo porco polacco?”. Padre Massimiliano, puntando la mano verso Francesco Gajowniczek, già prescelto per la morte, rispose: “Sono un sacerdote cattolico polacco; sono anziano, voglio prendere il suo posto, perché egli ha moglie e figli...”. Il colonnello Fritsch, meravigliato, sembrava non riuscisse a trovare la forza per parlare. Dopo un po’, però, con un cenno della mano, pronunciando la sola parola: “Fuori!”, ordinò a Gajowniczek di ritornare nella fila lasciata prima. In tal modo, Padre Massimiliano prese il posto del condannato...».


L’eroico gesto con il quale san Massimiliano Kolbe salvò la vita a Gajowniczek, suo compagno di prigionia nel campo di Auschwitz, è oggetto di un interessante studio che sottolinea la liceità e l’elevatissimo valore morale di tale martirio: il più simile a quello di Cristo che «volontariamente si consegnò alla morte».
Ricorre il 70° anniversario del martirio di san Massimiliano (14 agosto 1941). È passato il tempo del nazismo hitleriano, ma i cristiani continuano a morire sotto i colpi di una maligna, subdola, persecuzione: «Ogni cinque minuti un cristiano viene ucciso a causa della sua fede. Nel 2011 si stima che saranno 105 mila le vittime della persecuzione contro i cristiani. Tra il 2000 e il 2010 le vittime sono state 160 mila all’anno, mentre nel XX secolo sono stati 45 milioni i cristiani uccisi a motivo della loro religione» (M. Introvigne, in www.vaticaninsider.com).
Tra i 45 milioni di martiri del XX secolo c’è anche san Massimiliano. Eppure il suo martirio si distingue per il carattere spiccatamente eroico, sovranamente libero, dell’offrirsi nelle mani del persecutore. Questo gesto inusitato ricorda da vicino l’eroismo dei proto martiri francescani del 1220 e, in ultima analisi, il Re dei Martiri, Cristo, che «volontariamente si consegnò alla morte» (cf Messale Romano, Preghiera eucaristica IV). [...]
Il suo gesto, tuttavia, rimane incomprensibile al di fuori di una logica di amore serafico. Esce dallo schema classico di martirio: né la ragione da sola, né la fede da sola, bastano a darne adeguata spiegazione. Non irrazionale, ma sopra-razionale; teologicamente lecito, ma non necessario. Mentre nella dinamica del martirio normalmente vi è il dilemma che costringe ad una scelta: o la fedeltà a Cristo o la vita, qui vi è l’assoluta gratuità. Se san Massimiliano non si fosse offerto, non avrebbe commesso, per sé, alcuna colpa. Non era in gioco la fedeltà a Cristo, simpliciter, ma la fedeltà all’amore serafico, che è “l’amore più grande”, quello di Gesù Redentore e di Maria Corredentrice. […]
Gli psicologi si sbizzarriscono a spiegare il martirio di san Massimiliano con le loro teorie1. Queste, quando sono chiuse alla trascendenza, hanno un minimo comun denominatore: la negazione che si tratti di un atto assolutamente libero. Ed invece la spiegazione del martirio in genere, ed in particolare quello di san Massimiliano, sta nell’uso perfetto, anzi sopranaturalmente perfetto, della libertà. Questa, con sant’Agostino, consiste nel pieno possesso del proprio atto, al di sopra di ogni istinto naturale o condizionamento socio-culturale, e trova la sua perfezione solo nell’obbedienza alla Verità, che è Dio. Ma in verità, nessuno è tenuto, né per ragione, né per fede, a sostituirsi volontariamente ad un altro uomo condannato a morte, sia pure ingiustamente. Sappiamo, infatti, dalla morale che: «Ognuno è tenuto a soccorrere il prossimo che si trova in un’estrema necessità spirituale, anche con pericolo certo della vita, solo nel caso in cui sia la speranza ugualmente certa di giovare a quel bisognoso, e che non ne venga un male più grave» (ivi, p. 319).
Applichiamo questo principio al gesto sacrificale di san Massimiliano. È vero che Gajowniczek era in grave pericolo spirituale. I segni esterni della sua disperazione erano evidenti. Ma non era altrettanto certo che sostituirsi a lui l’avrebbe salvaguardato da una situazione oggettivamente disperante, forse peggiore, visto che occasioni di disperarsi ad Auschwitz ce n’erano quotidianamente, e in abbondanza. [...]
San Massimiliano, da parte sua, non aveva doveri particolari verso l’incolumità fisica di nessuno in quel lager. Aveva invece un dovere generale, in quanto sacerdote, di provvedere alla salute della loro anima. Ma proprio per questo, a vedute umane, sarebbe stato più utile da vivo che da morto, per tutte le assoluzioni in articulo mortis che avrebbe potuto impartire, per tutte le parole di fede che avrebbe potuto rivolgere a quella gente esulcerata dalla ferocia belluina degli aguzzini.
Qualcuno, inoltre, potrebbe invocare il principio secondo cui «senza la divina autorità non è lecito a nessuno uccidersi direttamente con l’intenzione di uccidersi. Sarebbe contro la carità verso se stessi, e sarebbe un’ingiuria al bene comune e a Dio, che è il solo diretto e assoluto Signore della vita umana» (ivi, p. 622).
E allora rispondiamo che è stato l’impulso della carità divina a spingere padre Massimiliano a compiere quel gesto, in ossequio al suo carattere sacerdotale, alla sua appartenenza all’Ordine dell’amore serafico e alla corona rossa promessagli dalla Madonna sin dalla sua infanzia. In verità, san Massimiliano non si è ucciso, né si è consegnato con l’intenzione di uccidersi. L’hanno ucciso i nazisti che odiavano la fede cattolica; l’oggetto immediato della sua offerta era di salvare la vita di un fratello, ma la sua intenzione più vera era di conformarsi nel modo più perfetto a Cristo, che si è sacrificato per amore dell’intera umanità. [...] La morte è semplicemente tollerata come effetto secondo, previsto, accettato, ma non voluto per sé. [...]
D’altra parte la sua liceità è fuori discussione.
Sant’Alfonso2 indica questo ordine della carità verso il prossimo: 1) Desiderare per se stessi i beni spirituali (salvezza e santità). 2) Desiderare per gli altri i beni spirituali. 3) Desiderare per se stessi i beni corporali (in primis la vita fisica). 4) Desiderare per gli altri i beni corporali.
Da quest’ordine assiologico si conclude che è lecito sacrificare la propria vita fisica (3° livello) per il bene spirituale del prossimo (2° livello) che, in ultima analisi, è anche il proprio bene spirituale (1° livello), visto che tale sacrificio attinge in se stessi in grado massimo la carità, nella quale consiste la perfezione della persona: «consegnare se stessi alla morte per salvare un amico è il più perfetto atto di virtù; perciò il virtuoso più desidera questo atto che la propria vita» (cf San Tommaso, In III Sent., dist. 29, art. 5, ad 3).
Il martirio di san Massimiliano rientra perfettamente in questo caso, da cui la sua liceità ed il suo elevatissimo valore morale. Ma, lo ripetiamo, tra il potuit e il fecit, qui c’è di mezzo il decuit, non l’opus est. La valutazione della convenienza (decuit), nelle circostanze concrete, e la conseguente deliberazione ad agire, poteva venire a san Massimiliano solo da un impulso soprannaturale, attuale ed imponderabile, della divina Carità. Analogo all’impulso che ha spinto il Signore a consegnarsi nelle mani dei nemici, nonostante la ripugnanza sensibile totale della sua natura umana, e nonostante che più volte fosse già sfuggito dalle mani dei suoi persecutori. Avrebbe avuto tutto l’agio di farlo anche in quella notte, quando lo vennero a prendere nell’orto degli ulivi: «Appena disse “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6). Ma Egli non se ne avvantaggiò. Non passò in mezzo a loro lasciandoli a stringere l’aria, come aveva fatto nella sinagoga di Nazareth (cf Lc 4,30) e nel tempio di Gerusalemme (cf Gv 10,39). E come per il Signore, anche per san Massimiliano il momento della sua passione coincideva col momento della sua più perfetta “transustanziazione” nell’Immacolata. Come sulla Croce la Corredentrice è con il Redentore misticamente “una sola carne”, dalla quale è generata la Chiesa, così nel bunker della fame san Massimiliano è con l’Immacolata misticamente “una sola carne”, dalla quale è nato il principio vitale del rinnovamento dell’Ordine serafico. [...]

La difficoltà di individuare distintamente nel sacrificio di san Massimiliano i tratti essenziali del martirio era avvertita anche dal postulatore della sua causa di beatificazione. Tant’è vero che è stato beatificato da Paolo VI con il titolo di Confessore, mentre è stato canonizzato dal beato Giovanni Paolo II col titolo di Martire della Carità. La differenza tra il martirio per la fede e il martirio per la carità sta, come abbiamo cercato di spiegare prima, nella necessità del primo, e nella libertà del secondo, secondo i due modi di esser principio dell’intelletto e della volontà: necessario il primo, libero il secondo. Con ciò non si vuol dire che il martire per la fede non agisca per carità e non eserciti in grado eroico il suo libero arbitrio. Solo che in questo caso la carità riceve la sua rettitudine da un giudizio ultimo pratico assolutamente obbligante; nel martirio della carità, invece, il giudizio ultimo pratico si ferma alla convenienza, in modo che l’impulso ad agire viene dalla perfezione della carità più che nel primo caso, ed è quindi più libero, quindi più perfetto, che nel primo caso. Nella misura in cui la carità supera la fede (cf Col 3,14; 1Cor 13,13) così, per sé, il martirio di carità è più eccellente rispetto al martirio per la fede.
Osserviamo, infine, le condizioni canoniche che definiscono l’essenza del martirio, e non avremo difficoltà a riconoscerle nel nostro caso: «Un persecutore che infligge 2) per odio contro la fede o altra virtù cristiana 3) la morte 4) ad un cristiano, il quale 5) accetta volontariamente la morte 6) e sopporta pazientemente la stessa morte 7) per amore di Gesù e per essergli fedele, 8) con il riconoscimento della Chiesa, che accetta in foro esterno l’evento martiriale (la canonizzazione avvenuta il 10 ottobre 1982)»3.

Nel martirio di san Massimiliano, però, a queste condizioni va aggiunto il “fattore Immacolata”, per il quale l’«accettazione volontaria della morte» si trasforma nell’“offrirsi spontaneamente alla morte”, perché in questo consiste “l’amore più grande” (Gv 15,13), l’amore dell’Ordine serafico.

Note

1 Cf Suor M. Pia della Regina della Pace, Il Martirio di san Massimiliano M. Kolbe, secondo la psicologia della religione, Casa Mariana Editrice, Benevento 1993.

2 Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Theologia Moralis, vol. I, Ed. Nova, Roma 1905, p. 318.

3 Cf E. Piacentini, Al di là di ogni frontiera, LEV, Città del Vaticano 1982, p. 192.


martedì 21 agosto 2012

Anno della Fede. La sfida di credere in Gran Bretagna, non solo per la Chiesa cattolica. Relativismo inglese: guai a dirsi cristiani.


Sessant’anni fa alla sua incoronazione la regina Elisabetta II, al pari degli altri sovrani britannici prima di lei, promise di custodire "le leggi di Dio e la vera professione del Vangelo". Ma oggi, ci dice George Hargreaves del Christian Party, "la Gran Bretagna pare scesa in guerra contro il Vangelo, e contro se stessa". I cristiani britannici che mostrano la loro fede sul posto di lavoro rischiano di essere degradati o licenziati. Il governo, prosegue Hargreaves, "continua imperterrito a promuovere l’agenda dei 'nuovi diritti civili' finendo per criminalizzare l’espressione pubblica della fede cristiana. Io stesso ho rischiato la sospensione per aver attaccato nel mio ufficio un poster che diceva 'La Gran Bretagna è un Paese cristiano'. Mi hanno detto di toglierlo perché era offensivo verso gli atei e gli esponenti di altre fedi, e che incitava all’odio religioso. Un’assurdità!".
A poche settimane dall’Anno della fede, le sfide che la Chiesa in Gran Bretagna (e non solo quella cattolica) si trova ad affrontare sono decisamente impegnative. "Se i cristiani non fanno qualcosa subito – spiega Andrea Minichiello-Williams, direttore del Centro legale Christian Concern for Our Nation – il Paese imboccherà presto la strada della demonizzazione della pratica religiosa".
Negli ultimi anni i casi di discriminazione sul posto di lavoro sono cresciuti a vista d’occhio, con episodi di licenziamento o sospensione tra medici, infermieri e impiegati solo perché indossavano una catenina con la croce, o perché avevano osato pregare in pubblico.
Sono più di dieci anni ormai, spiega Paul Diamond, avvocato, che "ai cristiani viene chiesto di non menzionare Dio sul posto di lavoro perché questo potrebbe offendere non solo i musulmani ma anche gli atei e persino i gay. L’islam ha acquisito una sorta di status di 'religione protetta' mentre quella che da sempre è la religione di Stato oggi è sostanzialmente perseguitata".
Lo stesso premier David Cameron (nella foto con Benedetto XVI) ha dovuto riconoscere alcuni eccessi e ha esortato i cristiani a "lottare contro la secolarizzazione della Gran Bretagna". In un recente discorso ai leader della Chiesa ha detto di credere che "l’insegnamento cristiano può aiutarci ad avere i forti valori di cui abbiamo bisogno" e che "dovremmo celebrare la nostra fede a voce alta". Un concetto che è stato rimarcato pochi giorni fa anche dal suo predecessore Tony Blair, che peraltro non aveva mai parlato di religione nei suoi anni a Downing Street.
Durante un dibattito a Westminster sulla fede nella vita pubblica, accanto al leader della Chiesa anglicana Rowan Williams, Blair ha detto di credere nella "salvezza attraverso Gesù Cristo" e ha incoraggiato gli altri cristiani a fare lo stesso. "Penso che le persone che stanno spingendo questo secolarismo aggressivo – ha aggiunto l’ex premier, già anglicano e oggi cattolico – abbiano qualcosa in comune con gli estremisti religiosi. Di fronte all’estremismo è facile per un secolarista dire 'sono tutti pazzi, non ascoltateli'". Anche l’ex primate della Chiesa cattolica d’Inghilterra e Galles, Cormac Murphy-O’Connor, ha messo recentemente in guardia contro i pericoli del relativismo affermando che esso «favorisce la violenza e ha aiutato i regimi totalitari che hanno ucciso milioni di persone nel XX secolo". "Nel nome della tolleranza – ha continuato portando come esempio la recente iniziativa del governo Cameron per introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso – mi sembra che la tolleranza sia stata abolita. Nessuno è obbligato a essere cristiano, ma nessuno dovrebbe essere obbligato a vivere secondo la nuova religione secolare". La velocità con cui si è imposto il relativismo, scriveva qualche tempo fa il Daily Telegraph citando una ricerca della House of Commons Library, significa che la Gran Bretagna tra soli vent’anni potrebbe non essere più un Paese cristiano.
Se il trend dovesse proseguire, entro il 2030 il numero dei non credenti potrebbe superare quello dei cristiani. Attualmente si stima che il cristianesimo nel Regno Unito perda mezzo milione di credenti l’anno, mentre aumentano quanti si dicono atei o agnostici, e altre religioni sono in ascesa: negli ultimi 6 anni i musulmani sono cresciuti del 37% fino a 2milioni 600mila. Ma "nonostante i numeri – ricorda George Hargreaves – la Gran Bretagna rimane un Paese cristiano. Dobbiamo solo riuscire ad alzare di più la voce e farci sentire".

Elisabetta Del Soldato, Avvenire
20 Agosto 2012


lunedì 20 agosto 2012

Memoria di San Bernardo. Il Papa: la verità nella carità, obiettivo di una sana discussione teologica


La teologia sia sempre alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione se non vuole trasformarsi in vano esercizio intellettuale: è quanto afferma Benedetto XVI parlando di San Bernardo di Chiaravalle, di cui oggi la Chiesa celebra la memoria liturgica. Il Papa ha dedicato tre catechesi a questo Santo abate cistercense vissuto nel XII secolo. 

Il dibattito teologico nella Chiesa esiste da sempre. Nel XII secolo uno dei contrasti più accesi fu quello tra San Bernardo e Abelardo. San Bernardo – ricorda Benedetto XVI – era uno dei massimi esponenti della cosiddetta teologia del cuore che mirava a “promuovere l’esperienza viva e intima di Dio”:

“Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi!” (Udienza generale, 21 ottobre 2009)

Abelardo, da parte sua, tendeva a risolvere le questioni fondamentali su Dio con le sole forze della ragione, mettendo in discussione, talora, le stesse verità della fede:

“San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità”. (Udienza generale, 21 ottobre 2009)

Il Papa ricorda che quel confronto teologico si concluse con una piena riconciliazione tra i due. Abelardo riconobbe i suoi errori. Una vicenda – spiega Benedetto XVI – che mostra “l’utilità e la necessità di una sana discussione teologica”, tenendo fermo il punto di riferimento del Magistero:

“In entrambi prevalse ciò che deve veramente stare a cuore quando nasce una controversia teologica, e cioè salvaguardare la fede della Chiesa e far trionfare la verità nella carità. Che questa sia anche oggi l’attitudine con cui ci si confronta nella Chiesa, avendo sempre come meta la ricerca della verità”. (Udienza generale, 4 novembre 2009)

Sergio Centofanti  
20 agosto 2012

Dalla «Lettera a Policarpo» di sant'Ignazio di Antiochia, vescovo e martire (Completa)

Dobbiamo sostenere ogni cosa per Dio, perché anch'egli a sua volta ci sostenga Ignazio, detto anche Teoforo, augura ogni bene a Policarpo, che è vescovo della chiesa i Smirne, o piuttosto ha egli stesso per vescovo Dio Padre e il Signore Gesù Cristo. Rendo omaggio alla tua pietà solidamente stabilita come su una roccia incrollabile e lodo e ringraziò il Signore che mi ha concesso di vedere il tuo volto di bontà. Possa io averne giovamento in Dio. 
Ti scongiuro, per la grazia di cui sei rivestito, di continuare il tuo cammino e di esortare tutti perché si salvino. Fa' sentire la tua presenza in ogni settore, tanto in quello che riguarda il bene dei corpi, come in quello dello spirito. 
Abbi cura di mantenere l'unità, perché nulla vi è di più prezioso. 
Porta il peso di tutti i fedeli, come il Signore porta a te. 
Abbi pazienza e carità con tutti, come già fai. 
Attendi di continuo alla preghiera. 
Chiedi una sapienza ancora maggiore di quella che già hai. Vigila con spirito insonne. 
Parla a ciascuno singolarmente, seguendo il modo di agire di Dio. 
Porta le infermità di tutti, come un valido atleta. Dove è maggiore la fatica, più grande sarà anche il premio. Se ami solo i buoni discepoli, non ne avrai alcun merito. Cerca piuttosto di cattivarti, con la dolcezza, i più riottosi. Non ogni ferita va curata con lo stesso medicamento. 
Calma i morsi più violenti con applicazioni di dolcezza. In ogni occasione sii prudente come il serpente e semplice come la colomba (cfr. Mt 10, 16). 
Essendo composto d'anima e di corpo, disponi di esperienze nel settore materiale e spirituale. Esercita dunque la tua saggezza nelle cose che cadono sotto gli occhi e chiedi di conoscere quelle invisibili, perché nulla ti manchi e ti sia concesso in abbondanza ogni dono spirituale. Come il nocchiero domanda venti propizi, e chi è sbattuto dalla tempesta desidera il porto, così il momento presente fa appello alla tua opera perché tu possa giungere con i tuoi a Dio. 
Sii sobrio come un atleta del Signore: il premio è l'immortalità e la vita eterna, come sai benissimo. Per te io offro in sacrificio la mia vita e queste catene che tu hai venerato. Non ti spaventino quelli che sembrano degni di fede, ma insegnano false dottrine. Sta' saldo come l'incudine sotto il martello. E' proprio di un valoroso atleta essere bersagliato di colpi e vincere. 
Dobbiamo sopportare ogni cosa per Dio, perché anch'egli a sua volta sopporta noi. Cresca sempre più il tuo zelo. Sappi cogliere il momento opportuno. Spera in colui che è al di là di ogni vicissitudine, fuori del tempo, invisibile, e che per noi si è fatto visibile. Poni la tua fiducia in colui che, impalpabile e impassibile, ha accettato per noi la sofferenza e per noi ha sofferto ogni genere di tormenti. Non siano trascurate le vedove. Dopo il Signore, sii tu il loro sostegno. 
Niente si faccia senza il tuo consenso, e non far nulla senza Dio come so che già non fai nulla senza di lui. Sii costante. Le riunioni dei fedeli siano più frequenti. Invita ciascuno personalmente. 
Non disprezzare gli schiavi e le schiave. Essi però dal canto loro non si ribellino e prestino anzi con maggiore dedizione il loro servizio a gloria di Dio, per ottenere da lui una libertà migliore. Né pretendano di essere riscattati a spese della comunità, per non finire poi schiavi delle loro passioni.
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domenica 19 agosto 2012

Tre libri per capire questo Papa semplice, umile e lavoratore. Che ha restituito ai cattolici il 'nocciolo della fede' e alla teologia la sua autorità


Ottantacinque ben portati. Nel senso di ben vissuti e ancora ben vivibili, per sua stessa ammissione. Con raffinata autoironia, Benedetto XVI, nel suo discorso al Bundestag di Berlino, nel settembre 2011, aveva fatto cenno al fatto che alla sua età il cervello è ancora in grado di funzionare bene: "Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di ottantaquattro anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a ottantaquattro anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole)". Con apparente nonchalance, il 28 marzo scorso, durante il colloquio con Fidel Castro, aveva lasciato cadere una considerazione sulla sua età e sulle energie che lo animano, sgonfiando così il gossip sulle sue imminenti dimissioni: "È vero, sono anziano, ma posso fare ancora il mio dovere al servizio della Chiesa". 
Il 16 aprile 2012 Joseph Ratzinger ha compiuto ottantacinque anni, il 19 aprile 2012 Benedetto XVI ha iniziato il suo ottavo anno di Pontificato. 
Le sue prime parole da Pontefice, nel 2005 furono: "Cari fratelli e sorelle, dopo il grande Papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti". 
In occasione degli ottantacinque anni di questo "semplice e umile lavoratore", diventato il Papa più longevo dall’inizio del Novecento, sono usciti tre libri: uno in omaggio alla sua “semplicità”, uno alla sua “umiltà”, il terzo contiene una testimonianza diretta del suo “lavoro”. I tre autori non si sono messi d’accordo, ma quando è naturale l’accordo suona meglio.
Il libro sul “lavoratore” è curato dall’uomo che è fisicamente più vicino al “Papa al lavoro”, il suo segretario personale mons. Georg Gänswein. È uscito in Germania, ne sono autori venti tedeschi famosi, nella politica, nella cultura, nell’economia e nello sport, cattolici e non, invitati a dire la loro sul connazionale che tutti li supera in fama e importanza. "Benedikt XVI. Prominente über den Papst" (Benedetto XVI. Personaggi famosi sul Papa) raccoglie i loro interventi, c’è anche quello di Franz Beckenbauer, mons. Gänswein ne ha curato l’edizione, scritto l’introduzione e, soprattutto, il suo personale itratto di Papa Ratzinger. Don Georg, così ancora lo chiamano nonostante il titolo di monsignore, il dottorato in teologia e la docenza in diritto canonico, ne parla come di un "modesto dono di compleanno" e ci tiene a "sottolineare espressamente che quest’opera non è un lavoro compiacente commissionato 'dall’alto'. Gli autori non hanno ricevuto nessuna indicazione, tutti hanno avuto piena libertà di dire la loro". L’unica indicazione, scrive nell’introduzione, riflette una richiesta pubblica che il Papa ha fatto già per un suo libro, il "Gesù di Nazaret", "quell’anticipo di simpatia, senza il quale non c’è alcuna comprensione". "Il Papa delle parole" che riflette e fa riflettere, il "Papa teologo più che uomo dei grandi gesti" che ha a cuore "il rapporto tra fede e ragione, tra religione e rinuncia alla violenza», ha, secondo don Georg, un unico programma: "Riaffermare con forza e chiarezza il nocciolo delle fede cattolica: l’amore di Dio per l’uomo che trova nella morte in croce di Gesù e nella sua resurrezione l’espressione insuperabile".
Su questa semplicità ultima, posta al centro della politica ecclesiale di Benedetto XVI, si sofferma l’autore del secondo libro, il cardinale svizzero Kurt Koch, già vescovo di Basilea e presidente della Conferenza Episcopale del suo paese, e ora del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e della Commissione per le relazioni religiose con gli ebrei. Come altri cardinali legati a Benedetto XVI, anche Koch è allievo di Hans Urs von Balthasar, il gigante della teologia del Novecento, di cui Joseph Ratzinger fu studioso e amico. Ne "Il mistero del granello di senape" (Lindau), Koch introduce alla conoscenza del pensiero teologico di Joseph Ratzinger a partire da una sua affermazione: "Il semplice è il vero ed il vero è semplice". Per Benedetto XVI, ha detto il cardinale presentando il suo libro lo scorso 16 aprile al Centro internazionale di Comunione e Liberazione, "la teologia cristiana proprio oggi deve tornare alle basi elementari della fede. Teologia e annuncio non possono avere nessun altro obiettivo se non quello di condurre continuamente proprio a questa elementarità". Per spiegare come la teologia sia un pensiero "che viene dopo" (il pensatore fa precedere il pensiero alla parola, per il teologo è il contrario, la parola precede il pensiero), Koch fa parlare ancora Papa Ratzinger: "La teologia presuppone un nuovo inizio nel pensiero, che non è il prodotto della nostra riflessione, ma che proviene dall’incontro con una Parola che sempre ci precede". Questo perché la teologia antepone a se stessa l’autorità, l’evento della rivelazione, la vita della fede. È sempre Joseph Ratzinger a spiegare che "una Chiesa senza teologia s’impoverisce e diventa cieca; ma una teologia senza Chiesa si dissolve nel possibilismo". Per Koch, quindi, non è la teologia il criterio dell’annuncio, ma l’annuncio il criterio della teologia, perché "il bene principale di cui è responsabile la Chiesa è la fede delle persone semplici", ammonisce citando ancora il Papa, e i teologi farebbero bene a ricordarlo. In questa logica, e con qualche sorpresa per chi è fermo all’immagine del “Panzer Kardinal”, la teologia di Benedetto XVI riserva un posto preminente e particolare ai Santi e all’arte: strettamente imparentati tra loro nella profondità della fede, sono i due argomenti a cui potrebbe limitarsi "l’unica vera apologia del cristianesimo".
Il terzo libro segnala la virtù fondamentale della teologia e della personalità del Papa. "Benedetta umiltà" (anch’esso pubblicato da Lindau) di Andrea Monda non è l’opera di un teologo, ma di un laureato in Giurisprudenza che ha lasciato il posto da funzionario di banca per studiare alla Gregoriana e insegnare religione in un liceo classico di Roma. A questa passione unisce quella di scrivere saggi, brevi per i giornali e più corposi per le librerie. Monda ha avuto la fortuna di incontrare personalmente Benedetto XVI quando era ancora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e di discutere con lui di letteratura inglese, in specie di Lewis e Chesterton, scoprendo come il futuro Papa li conoscesse meglio di lui che se ne considera uno specialista. "Il card. Ratzinger – ricorda Monda – condusse il dialogo con l’umiltà di chi non vuole mettere a disagio il suo interlocutore né apparire a lui superiore". Nel suo libro Monda scava nei gesti e nelle parole del Papa alla ricerca di questa virtù misteriosa e indicibile, ché appena dici di averla la perdi, e ne evidenzia la parentela con l’umorismo, dote anche questa insospettabile, celata, ma non aliena a Benedetto XVI. Dopo aver fatto notare al lettore che umiltà, umorismo e umanità hanno radice etimologica nel latino “humus” (terra), Monda osa parlare della “leggerezza” del Papa. Se lo può permettere perché autorizzato, in qualche modo dal Papa stesso, il quale, intervistato da una televisione tedesca, alla domanda su quale ruolo abbiano nella vita di un Pontefice "lo humor e la leggerezza dell’essere", rispose: "Io non sono uno a cui vengano in mente continuamente barzellette. (…) Saper vedere anche l’aspetto divertente della vita e la sua dimensione gioiosa e non prendere tutto così tragicamente, questo lo considero molto importante e direi che è anche necessario per il mio ministero. Un qualche scrittore aveva detto che gli angeli possono volare perché non si prendono troppo sul serio. E noi forse potremmo anche volare un po’ di più se non ci dessimo tanta importanza". 
Il “qualche scrittore” era Gilbert Keith Chesterton, che diceva: "Gli angeli possono volare perché portano se stessi leggermente", e aggiungeva: "Satana è caduto per la forza di gravità".
17 agosto 2012 
Ubaldo Casotto, Tempi



sabato 18 agosto 2012

“Moriamo volentieri per non rinnegare la Fede in Lui”


"Nell’estate del 1480 una flotta turca, inviata da Maometto II e comandata da Acmet Pascià, si affacciò sul mare di Otranto con l’intento di occupare la città e di aprire così la strada alle truppe ottomane per la conquista del regno di Napoli. L’assedio di Otranto durò 15 giorni, precisamente dal 28 luglio all’11 agosto. Acmet Pascià tento tutti i mezzi per indurre gli Otrantini ad arrendersi. Ma alle lusinghe e minacce del capitano turco, i cittadini di Otranto risposero con la sfida: «Se il Pascià vuole Otranto, venga a prenderla con le armi, perché dietro le mura ci sono i petti dei cittadini». Ladislao De Marco, uno degli Otrantini, gettò in mare le chiavi delle due porte della città; Acmet rispose con una serie di bombardamenti che ridussero le mura e gli edifici ad un cumulo di macerie sotto l’immane urto delle palle di pietra viva (alcune del peso di sei quintali e mezzo). Apertosi il varco tra i ruderi, i turchi irruppero in città. Le case vennero occupate sistematicamente, una per una, saccheggiate e poi date alle fiamme. I cittadini, terrorizzati e senza difesa, fuggirono a piccoli gruppi verso il centro della città. I malcapitati raggiunti per le strade o nelle case vennero massacrati senza pietà; i più fortunati trovarono rifugio in Cattedrale. Ma neanche questo luogo fu risparmiato dalla violenza: i turchi irruppero nella casa di Dio, uccidendo i sacerdoti e lo stesso arcivescovo, l’ottantaquattrenne Stefano Pendinelli, proprio mentre celebravano la S. Messa e distribuivano l’Eucaristia al popolo sgomento.

IL MARTIRIO

Dopo l'assedio e l'eccidio della città di Otranto, Acmet Pascià ordinò che tutti gli uomini validi, da quindici anni in su, fossero condotti alla sua presenza. Erano 813. Servendosi di un interprete, Acmet intimò loro di rinnegare la fede cristiana ed abbracciare il maomettanesimo: se avessero fatto ciò, avrebbe accordato loro vita, sostanze e ogni bene; in caso contrario li avrebbe fatti trucidare. Uno degli Otrantini, un cimatore di panni, Antonio Pezzulla, chiamato Primaldo o Grimaldo, rispose per tutti: «Noi crediamo in Gesù Cristo, Figlio di Dio; e per Gesù Cristo siamo pronti a morire». E, rivolta ai suoi concittadini, gridò: «Fratelli miei fino ad oggi abbiamo combattuto per defensione della patria e salvare la vita e per li signori nostri temporali; ora è tempo che combattiamo per salvare l’anime nostre, per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella fede» (dalla Historia di Giovanni Michele Lagetto). «E si sentì un mormorio tra di loro, per lo spazio di circa un’ora, mentre si esortavano a vicenda e dicevano: moriamo per Cristo, moriamo volentieri per non rinnegare la Fede in Lui» (dalla descrizione di Pietro Colonna, detto il Galatino, testimone oculare). Acmet concesse altro tempo per farli riflettere meglio sulla loro decisione. Ma il tempo valse a rafforzare il proposito di quei magnanimi confessori della fede.

Tre giorni dopo l’occupazione della città, il 14 Agosto, gli «Ottocento» furono incatenati con le braccia legate dietro la schiena, suddivisi in gruppi da cinquanta, denudati e, dietro ordine di Acmet, condotti per la via ora chiamata della «Madonna del Passio», sul colle della Minerva. «essi andavano – dice il Lagetto – allegramente confortandosi a pigliar pazientemente il martirio». Su quel colle, Acmet rinnovò agli Otrantini il dilemma: rinnegare Cristo o perdere la vita. Ma essi vedevano già «il cielo aperto e quelli spiriti aspettando con grande allegrezza riceverli» . Vollero tutti morire e Acmet non risparmiò nessuno.

Il primo ad essere decapitato fu Antonio Primaldo. Il cimatore di panni piegò il capo sul sasso. Seguì un colpo, secco: la testa rotolò per terra, ma il resto del corpo, prodigiosamente, si levò in piedi e restò immobile ( nonostante gli sforzi dei Turchi di piegarlo), ritto, sino alla fine della strage. Quel miracolo giovò ad uno dei carnefici: Berlabei. Come attestano quattro testimoni oculari nel Processo di beatificazione dei martiri di Otranto, Berlabei gettò via la scimitarra, si confessò cristiano e sostenne, impavido, l’orribile supplizio del palo".

(Tratto liberamente da Otranto 1480: secondo centenario della beatificazione dei martiri idruntini. Otranto 21-24 ottobre 1971)


venerdì 17 agosto 2012

Consacrazione del mondo alla Divina Misericordia


Oggi è il X anniversario della "Consacrazione del mondo alla Divina Misericordia" fatta da Giovanni Paolo II fra le mura dove visse santa Faustina Kowalska.

Mai come oggi è urgente rinnovare questa consacrazione.

Ecco la sua preghiera:

Dio, Padre misericordioso,
che hai rivelato il Tuo amore nel Figlio tuo Gesù Cristo,
e l'hai riversato su di noi nello Spirito Santo, Consolatore,
Ti affidiamo oggi i destini del mondo e di ogni uomo.

ChinaTi su di noi peccatori,
risana la nostra debolezza,
sconfiggi ogni male,
fà che tutti gli abitanti della terra sperimentino la tua misericordia,
affinché in Te, Dio Uno e Trino,
trovino sempre la fonte della speranza.
Eterno Padre,
per la dolorosa Passione e la Resurrezione del tuo Figlio,
abbi misericordia di noi e del mondo intero!
Amen

Giovanni Paolo II


Cracovia 17 Agosto 2002




Benedetto XVI: Perdonare non è ignorare ma trasformare


Il perdono è la notizia quotidiana di cui avrebbe bisogno il mondo: ce lo ricorda il Vangelo odierno in cui Gesù invita Pietro a perdonare il fratello che commette colpe contro di lui fino a settanta volte sette, cioè sempre. Ma cosa è il perdono? Ripercorriamo la catechesi di Benedetto XVI sull’argomento in questo servizio di Sergio Centofanti. 
“Nulla può migliorare nel mondo – afferma Benedetto XVI - se il male non è superato. E il male può essere superato solo con il perdono. Certamente, deve essere un perdono efficace. Ma questo perdono può darcelo solo il Signore. Un perdono che non allontana il male solo a parole, ma realmente lo trasforma”:

“Perdonare non é ignorare ma trasformare: cioè Dio deve entrare in questo mondo e opporre all’oceano dell’ingiustizia un oceano più grande del bene e dell’amore”. (Vespri ad Aosta, 24 luglio 2005)

“Non c’è giustizia senza perdono” – ricorda il Papa – ma nello stesso tempo “il perdono non sostituisce la giustizia” e non significa “negazione del male” né deve far venire meno la “denuncia della verità del peccato”. Il concetto di perdono nel cristianesimo fa nascere “una nuova idea di giustizia” che non si limita a punire ma riconcilia e guarisce di fronte ai contrasti nelle relazioni umane, spesso anche familiari, dove “siamo portati a non perseverare nell’amore gratuito, che costa impegno e sacrificio”:

“Invece, Dio non si stanca con noi, non si stanca mai di avere pazienza con noi e con la sua immensa misericordia ci precede sempre, ci viene incontro per primo”. (Udienza generale, 30 maggio 2012)

Perdonare settanta volte sette – dice Gesù – perché anche noi abbiamo bisogno di essere perdonati sempre, anche se non lo percepiamo:

“Gesù ci invita al difficile gesto di pregare anche per coloro che ci fanno torto, ci hanno danneggiato, sapendo perdonare sempre, affinché la luce di Dio possa illuminare il loro cuore; e ci invita a vivere, nella nostra preghiera, lo stesso atteggiamento di misericordia e di amore che Dio ha nei nostri confronti: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», diciamo quotidianamente nel «Padre nostro»”. (Udienza generale, 15 febbraio 2012)

Sergio Centofanti by Radio Vaticana
16 agosto 2012
‎''Cari amici! La fede e la preghiera non risolvono i problemi, ma permettono di affrontarli con una luce e una forza nuova, in modo degno dell’uomo, e anche in modo più sereno ed efficace'' (Benedetto XVI - discorso 4 luglio 2010)