domenica 30 settembre 2012

Il dono della vista

Và, la tua fede ti ha salvato

Essere ciechi nel linguaggio biblico non ha solo una dimensione fisica, ma prevalentemente spirituale:

riguarda sia l'anima sia gli occhi.

Esempi di cecità spirituali abbondano nella scrittura sacra,
abbondano nella nostra vita:

"Sordi, ascoltate, ciechi, volgete lo sguardo per vedere.

Chi è cieco, se non il mio servo?
Chi è sordo come colui al quale io mandavo araldi?
Chi è cieco come il mio privilegiato?
Chi è sordo come il servo del Signore?

Hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione,
hai aperto gli orecchi, ma senza sentire".
Così si esprime un un brano il profeta Isaia.
Gli scribi e i farisei sono definiti ciechi da Gesù:
«Sono ciechi e guide di ciechi.

E quando un cieco guida un altro cieco,
tutti e due cadranno in un fosso!».
Gli stessi apostoli stentavano spesso
a credere alle parole del Signore
perché il loro spirito era accecato
e orientato dalle logiche umane.

Ricordiamo i due discepoli di Èmmaus,
che non riconoscono Gesù lungo la via
perché i loro occhi erano accecati per mancanza di fede nel risorto: Riconosceranno Gesù quando proclama e spiega la parola e nello spezzare il pane.

Gesù si proclama luce del mondo e afferma:
«Ancora per poco tempo la luce è con voi.
Camminate mentre avete la luce,
perché non vi sorprendano le tenebre;
chi cammina nelle tenebre non sa dove va.

Mentre avete la luce credete nella luce,
per diventare figli della luce».

La luce di Cristo viene infusa in noi mediante la fede.
Questa è la virtù fondamentale che ci apre la vista dell'anima
per accogliere la persona Cristo e le verità che egli ci ha rivelate.

«Io sono la luce del mondo; chi segue me,
non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

Dopo aver ripetutamente affermato
l'importanza della fede Gesù interviene,
compiendo miracoli a favore dei ciechi
per riaprire loro occhi e anima.

Molti di loro inizialmente implorano
solo la guarigione dalla loro cecità fisica.

Alla richiesta di Gesù, «Che cosa vuoi che io faccia per te?»,
anche nel vangelo odierno, il cieco implora:

«Rabbunì, che io veda di nuovo!».

Egli però intende dargli più di quanto osa sperare.
«Và, la tua fede ti ha salvato».

E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada».
La fede del cieco nato aveva già riconosciuto Gesù
e nella sua preghiera gridata umilmente implorava:
«Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».

Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte:
«Figlio di Davide, abbi pietà di me!».

Da cieco e mendicante lo ritroviamo,
dopo l'intervento prodigioso di Cristo,
illuminato nel corpo e nello spirito:
«Và, la tua fede ti ha salvato».
E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada».

estratto da un commento dei Monaci Benedettini Silvestrini


 

venerdì 28 settembre 2012

28 settembre † Nagasaki, 1633-37 - Santi Lorenzo Ruiz di Manila e 15 compagni

Nella prima metà del secolo XVII (1633-1637) sedici martiri, Lorenzo Ruiz e i suoi compagni, versarono il loro sangue per amore di Cristo nella città di Nagasaki in Giappone. Questa gloriosa schiera di appartenenti o associati all'Ordine di san Domenico, conta nove presbiteri, due religiosi fratelli, due vergini consacrate e tre laici fra cui il filippino Lorenzo Ruiz, padre di famiglia (m. 29 settembre 1637). Invitti missionari del Vangelo tutti quanti, pur di diversa età e condizione, contribuirono a diffondere la fede di Cristo nelle Isole Filippine, a Formosa e nell'Arcipelago Giapponese. Testimoniando mirabilmente la universalità della religione cristiana e confermando con la vita e con la morte l'annunzio del Vangelo, essi sparsero abbondantemente il seme della futura comunità ecclesiale. Giovanni Paolo II ha beatificato questi gloriosi martiri il 18 febbraio 1981 a Manila (Filippine) e li ha iscritti nel catalogo dei santi il 18 ottobre 1987. (Mess. Rom.)

Santi Martiri Domenicani in Giappone
Si tratta di uno stuolo di 16 martiri per la fede, uccisi a Nagasaki in Giappone negli anni 1633-37; facendo seguito al numeroso gruppo di 205 martiri che donarono la loro vita, sempre a Nagasaki-Omura, negli anni 1617-32.
Essi furono vittime della persecuzione scatenata il 28 febbraio 1633, dallo “shogun” (supremo capo militare della nazione), Tokagawa Yemitsu; che con il suo (Editto n. 7), colpiva gli stranieri che “predicano la legge cristiana e i complici in questa perversità, che devono essere detenuti nel carcere di Omura”.
I sedici missionari contavano nove padri Domenicani, tre Fratelli religiosi domenicani, due Terziarie domenicane, di cui una anche Terziaria Agostiniana, due laici, di cui uno padre di famiglia.
Avevano svolto apostolato attivo nel diffondere la fede cristiana nelle Isole Filippine, a Formosa e in Giappone; e appartenevano in diverso grado alla Provincia Domenicana del Santo Rosario, allora detta anche delle Filippine, la cui fondazione risaliva alle Missioni in Cina del 1587 e che al principio del 1600, aveva istituito una Vicaria in Giappone.
Essi furono catturati a gruppi o singolarmente, e rinchiusi nel carcere di Nagasaki e in quel quinquennio, in vari tempi ricevettero il martirio.
Dal 1633 era stata introdotta una nuova tecnica crudele di supplizio, a cui venivano sottoposti i condannati e così lasciati morire e si chiamava “ana-tsurushi”, cioè della forca e della fossa: si sospendeva il condannato ad una trave di legno con il corpo e il capo all’ingiù, e rinchiuso in una buca sottostante fino alla cintola, riempita di rifiuti; lasciandolo agonizzare e soffocare man mano per giorni.
Ma dal 1634 i cristiani prima di subire questo martirio, venivano sottoposti ad atroci tormenti come l’acqua fatta ingurgitare in abbondanza e poi espulsa con violenza e poi con la trafittura di punte acuminate tra le unghie ed i polpastrelli delle mani.
Certo la malvagità umana, quando si sfrena nell’inventare forme crudeli da infliggere ai suoi simili, supera ogni paragone con la ferocia delle bestie, che perlomeno agiscono per istinto e per procacciarsi il cibo.
I sedici martiri erano di varie nazionalità: 1 filippino, 9 giapponesi, 4 spagnoli, 1 francese, 1 italiano.
Nel 1633 furono uccisi padre Domenico Ibáñez de Equicia, nato nel 1589 a Régil (Guipuzcoa) in Spagna e il catechista fratello cooperatore giapponese Francesco Shoyemon, ambedue morti il 14 agosto.
Il 17 agosto furono uccisi padre Giacomo Kyushei Gorobioye Tomonaga, giapponese e Michele Kurabioye, catechista cooperatore giapponese.
Il 19 ottobre morirono padre Luca Alonso Gorda, spagnolo nato nel 1594 a Carracedo (Zamora) e Matteo Kohioye, fratello cooperatore catechista giapponese, nato ad Arima nel 1615.
Nell’anno 1634 furono uccise le due Terziarie Domenicane, l’11 novembre Marina di Omura giapponese, ospite dei missionari, bruciata viva a fuoco lento e Maddalena di Nagasaki giapponese, nata nel 1610 (già Terziaria Agostiniana) morta il 15 ottobre.
Il 17 novembre perirono padre Giordano Giacinto Ansalone, italiano della Sicilia, nato nel 1589; padre Tommaso Hioji Rokuzayemon Nishi giapponese, nato a Hirado nel 1590; e padre Guglielmo Courtet, francese.
Nell’anno 1637 furono martirizzati padre Antonio González spagnolo, nato a León, morto il 24 settembre; poi padre Michele de Aozaraza, nato nel 1598 a Oñata (Guipuzcoa) in Spagna e padre Vincenzo Shiwozuka giapponese, morti il 29 settembre; insieme a loro anche i due laici Lorenzo Rúiz, filippino di Manila, padre di famiglia, sacrestano dei Domenicani e Lazzaro di Kyoto, giapponese.
Sul martirio del gruppo si tennero negli anni 1637 e 1638 due processi diocesani, i cui ‘Atti’ ritrovati solo all’inizio del XX secolo, resero possibile la ripresa della Causa presso la Santa Sede.
Essi furono beatificati da papa Giovanni Paolo II il 18 febbraio 1981 a Manila nelle Filippine, essendo Lorenzo Rúiz il protomartire di quella Nazione e canonizzati a Roma dallo stesso pontefice il 18 ottobre 1987.

Il Martyrologium Romanum comemmora questi 16 santi martiri nei rispettivi anniversari della loro morte:

 Domenico Ibanez de Erquicia Pérez de Lete, Sacerdote domenicano, 14 agosto
 Francesco Shoyemon, Novizio domenicano, 14 agosto
 Giacomo Kyuhei Gorobioye Tomonaga, Sacerdote domenicano, 17 agosto
 Michele Kurobioye, Laico, 17 agosto
 Luca Alonso Gorda, Sacerdote domenicano, 19 ottobre
 Matteo Kohioye, Novizio domenicano, 19 ottobre
 Maddalena da Nagasaki, Terziaria domenicana ed agostiniana, 15 ottobre
 Marina di Omura, Terziaria domenicana, 11 novembre
 Giacinto Ansalone (Giordano di Santo Stefano) , Sacerdote domenicano, 17 novembre
 Tommaso Hioji Kokuzayemon Nishi, Sacerdote domenicano, 17 novembre
 Antonio Gonzalez, Sacerdote domenicano, 24 settembre
 Guglielmo Courtet (Tommaso di San Domenico) , Sacerdote domenicano, 29 settembre
 Michele di Aozaraza, Sacerdote domenicano, 29 settembre
 Vincenzo Shiwozuka (Vincenzo della Croce) , Sacerdote domenicano, 29 settembre
 Lorenzo Ruiz di Manila, Laico, 29 settembre
 Lazzaro di Kyoto, Laico, 29 settembre


 






 

E se i cattolici non fossero del "contenitore" politico giusto? - Card. A. Scola


Nelle settimane centrali di settembre la vicenda del registro milanese delle coppie di fatto ha subito un’accelerazione impressionante.

·         Il 18 settembre, giorno in cui la Chiesa ricorda S. Giuseppe da Copertino (1603-63), testimone eccezionale di purezza, il registro delle unioni civili è entrato formalmente in vigore e si è assistito ad un capannello gay-vip, compiaciuto, inneggiante al vero e proprio matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il corteo trionfale di Dan Lerner (fratello di Gad) e “compagni” ha inaugurato una fase di “recrudescenza”, durante la quale, nel PD e nella società italiana, il corifeo favorevole alle istanze gay ha raggiunto un’intensità quasi quotidiana. Infine, il 23 settembre, alla festa di Vasto il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha auspicato con Nichi Vendola che anche i gay possano un giorno adottare dei figli, attaccando il Magistero della Chiesa.

·         Sabato 22 settembre il Papa, infatti, aveva appena ribadito, davanti a decine di politici cattolici, l’esigenza di tutelare la vita e il matrimonio naturale a livello civile. “Il rispetto della vita in tutte le sue fasi (...) è un impegno che si intreccia infatti con quello del rispetto del matrimonio, come unione indissolubile tra un uomo e una donna e come fondamento a sua volta della comunità”.

·         Come non bastasse, quello stesso sabato l’arcivescovo di Milano ha tenuto la lezione inaugurale della Scuola di formazione sociale e politica per i giovani, Date a Cesare ciò che è di Cesare, organizzata ogni anno dalla Curia ambrosiana. Interpellato in maniera diretta sul come i membri cattolici della giunta Pisapia debbano rapportarsi col registro delle convivenze, il card. Scola non ha esitato a dire: “In questo caso bisogna che il politico, l’assessore, si confronti con serietà e col senso del valore della sua appartenenza (cattolica). In secondo luogo è necessario trovi il modo di esprimere in maniera evidente e forte, in termini pubblici, il suo dissenso: che faccia di tutto perché il provvedimento non venga approvato e, al limite, se questa cosa si ripete, deve porsi il problema se si trova nel “contenitore” giusto”. In poche parole, se un politico cattolico vuole rimanere coerente col suo Credo, deve prendere seriamente in esame la necessità di abbandonare i partiti che proclamano e mettono in atto provvedimenti contrari ai valori non negoziabili.

Si può ben capire come un intervento così chiaro dell’arcivescovo abbia gettato nello scompiglio i politici cattolici eletti nelle liste favorevoli a Pisapia. Essi non hanno finora preso una posizione netta sui valori non negoziabili, esasperando invece i temi sociali in polemica con la precedente amministrazione. Molti sospettano che tale difficoltà nel calarsi in determinate tematiche derivi dall’assimilazione di derive dottrinali, che rischiano di saltare fuori ora che, in un certo qual modo, “il gioco è scoperto” e trova molti meno appoggi altolocati.

 
Fonte:
 
 

giovedì 27 settembre 2012

La difficoltà a perdonare - Mons. Antonio Riboldi


Proviamo a pensare a quante volte, nel sacramento della Penitenza, ci accade lo stesso, come al figlio prodigo. A noi, che ritorniamo a Lui, pentiti, il sacerdote si fa “padre” e rimette ogni colpa.
Questo è Dio. E se Dio è così nei nostri riguardi, chiede a noi di essere come Lui verso i nostri fratelli.
Non più dunque il sentimento di “me la pagherà” o il togliere il saluto, come se chi ci ha offeso non fosse più nostro fratello!

Sono sentimenti e atteggiamenti inconcepibili per noi, che in Dio siamo fratelli e che dovremmo imitarLo, perché quello che Lui ci perdona è mille volte più grave, di quanto noi dobbiamo perdonare…
Non resta che meditare ed affidarsi alla Parola del profeta Ezechiele.

" Così dice il Signore: Figlio dell’uomo, io ti ho costituito sentinella per gli Israeliti: ascolterai una parola dalla mia bocca e tu li avvertirai da parte mia. Se io dico all’empio: Empio tu morirai e tu non parli per distogliere l’empio dalla sua condotta, egli, l’empio, morirà, per la sua iniquità, ma della sua morte chiederò conto a te. Ma se tu avrai ammonito l’empio della sua condotta, perché egli si converta ed egli non si converte, egli morirà per la sua iniquità, tu invece sarai salvo. (Ez. 33, 7-9)"

Non ci resta che pregare per ottenere quella generosità di cuore, non solo per non recare offesa al prossimo, ma ancor più per donare amore a chi ci fa del male.

In altre parole, mettere in pratica la Parola del Padre nostro: “…RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI, COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI”. 

- di Mons. Antonio Riboldi -



 

mercoledì 26 settembre 2012

Lucifero


Lucifero era angelo, il più bello degli angeli. Spirito perfetto inferiore a Dio soltanto. Eppure nel suo essere luminoso nacque un vapore di superbia che esso non disperse. Ma anzi condensò covandolo. E da questa incubazione è nato il Male. Esso era prima che l’uomo fosse. Dio l’aveva precipitato fuor dal Paradiso, l’Incubatore maledetto del Male, questo insozzatore del Paradiso. Ma esso è rimasto l’eterno Incubatore del Male, e non potendo più insozzare il Paradiso ha insozzato la Terra.
Il nome primitivo era Lucifero; nella mente di Dio voleva dire: ”alfiere o portatore della luce” ossia di Dio, perché Dio è Luce. Secondo in bellezza fra tutto quanto è, era specchio puro che rifletteva l’insostenibile Bellezza. Nelle missioni agli uomini egli sarebbe stato l’esecutore del volere di Dio, il messaggero dei decreti di bontà che il Creatore avrebbe trasmesso ai suoi beati figli senza colpa, per portarli sempre più in alto nella sua somiglianza. Il portatore della luce, con i raggi di questa luce divina che portava, avrebbe parlato agli uomini ed essi, essendo privi di colpe, avrebbero compreso questi balenii di armoniche parole tutte amore e gaudio.
Vedendosi in Dio, vedendosi in se stesso, vedendosi nei compagni, perché Dio lo avvolgeva della sua luce e si beava nello splendore del suo arcangelo e perché gli angeli lo veneravano come il più perfetto specchio di Dio, si ammirò. Doveva ammirare Dio solo, ma nell’essere di tutto quanto è creato, sono presenti tutte le forze buone e malvagie e si agitano, finché una delle due parti vince per dare bene o male, come nell’atmosfera sono tutti gli elementi gassosi perché necessari. Lucifero attrasse a sé la superbia, la coltivò, l’estese. se ne fece arma e seduzione. Volle più che non avesse, volle il tutto, lui che era già tanto. Sedusse i meno attenti fra i compagni, li distrasse dal contemplare Dio come suprema Bellezza. Conoscendo le future meraviglie di Dio, volle essere lui al posto di Dio. Si vide, col pensiero turbato, capo degli uomini futuri, adorato come potenza suprema. Pensò: “Conosco il segreto di Dio. So le parole, mi è noto il disegno. Posso tutto ciò che Lui vuole. Come ho presieduto le prime operazioni creative, posso procedere. “Io sono”. La parola che solo Dio può dire, fu il grido di rovina del superbo: E fu Satana.
Fu “Satan”. In verità ti dico che il nome di Satan non venne messo dall’uomo, che pure, per ordine e volere di Dio, mise un nome a tutto ciò che conobbe essere, e che tuttora battezza con un nome da lui creato le sue scoperte, in verità ti dico, che il nome di Satan viene direttamente da Dio ed è una delle prima rivelazioni che Dio fece allo spirito di un suo povero figlio vagante sulla terra.
Come il mio nome S.S. ha il significato che ti ho detto una volta, ora ascolta il significato di questo nome orrendo. Scrivi come ti dico:
S = Sacrilegio – Superbo
A = Ateismo – Avverso
T = Turpitudine – Tentatore - Traditore
A = Anticarità – Avido
N = Negazione – Nemico
Questo è Satan e questo sono coloro che sono malati di satanismo. E ancora è: seduzione, astuzia, tenebra, agilità, nequizia. Le cinque maledette lettere che formano il suo nome, scritte col fuoco sulla sua fronte fulminata. Le cinque maledette caratteristiche del Corruttore, contro le quali fiammeggiano le cinque benedette mie Piaghe, che col loro dolore salvano chi vuole essere salvato da ciò che Satana continuamente inocula.
Il nome di “demonio, diavolo, belzebù” può essere di tutti gli spiriti tenebrosi ma questo è solo il ‘suo’ nome. In Cielo è nominato con quello, perché là si parla il linguaggio di Dio, in fedeltà d’amore anche per indicare ciò che si vuole, secondo come lo ha pensato Iddio.
Egli è il “Contrario”, quello che è il contrario di Dio e ogni sua azione è l’antitesi delle azioni di Dio e ogni suo studio è portare gli uomini ad essere contrari a Dio. Ecco ciò che è Satana, è il mettersi contro di “Me” in azione. Alle mie tre virtù teologali, oppone la triplice concupiscenza; alle quattro cardinali e a tutte le altre che da Me scaturiscono, il vivaio serpentino dei suoi vizi orrendi.
Ma come si dice che di tutte le virtù la più grande è la carità, così dico che delle sue antivirtù, la più grande e a Me repulsiva, è la superbia, perché per essa tutto il male è venuto. Per questo dico che, mentre ancora compatisco la debolezza della carne che cede al fomite della lussuria, non posso compatire l’orgoglio che vuole, da nuovo Satana, competere con Dio. Ti sembro ingiusto? No. Considera che la lussuria, in fondo, è vizio della parte inferiore, che in alcuni ha appetiti tanto voraci, soddisfatti in momenti di abbruttimento che inebetisce, ma la superbia è vizio della parte superiore, consumato con acuta e lucida intelligenza, premeditato, duraturo. Lede la parte che più somiglia a Dio, calpesta la gemma data da Dio, comunica somiglianza con Lucifero. Semina il dolore più della carne perché la carne potrà far soffrire una sposa, una donna, ma la superbia può fare vittime in interi continenti, in ogni classe di persone. Per la superbia è stato rovinato l’uomo e perirà il mondo. Per la superbia langue la fede. La superbia: la più diretta emanazione di Satana.
Dio come aveva voluto al suo fianco nelle prime operazioni creative, l’arcangelo sublime, e lo volle cognito del futuro della creazione d’amore, così lo volle cognito dell’adorabile e dolorosa necessità che il suo peccato avrebbe imposto a Dio: l’Incarnazione e Morte di un Dio per controbilanciare la rovina del Peccato che si sarebbe creato se Lucifero non avesse vinto la superbia in se stesso. L’amore non poteva che parlare questo linguaggio. Il primo annichilimento di Dio in questo atto di voler piegare dolcemente il superbo, supplicandolo quasi, con la visione di ciò che la sua superbia avrebbe imposto a Dio, a non peccare, per portare altri a peccare.
Era atto d’amore, Lucifero, già insatanassato, lo prese per paura, debolezza e affronto, per dichiarazione di guerra; e guerra mosse contro il Perfettissimo dicendo: “Tu sei? Io pure sono. Ciò che Tu hai fatto, per me l’hai fatto. Non c’è Dio e se un Dio c’è, io sono. Io mi adoro. Io ti aborro. Io mi rifiuto di riconoscere per mio Signore chi non mi sa vincere. Non mi dovevi creare così perfetto se non volevi rivali. Ora io sono e ti sono contro. Vincimi, se puoi, ma non ti temo. Io pure creerò e per me tremerà il tuo Creato perché io lo scrollerò come brandello di nuvola presa dai venti, perché ti odio e voglio distruggere ciò che è tuo per creare sulle rovine ciò che sarà mio. Non conosco e non riconosco nessun’altra potenza all’infuori di me e non adoro più, non adoro più, non adoro più altro che me stesso.
Veramente allora nel Creato, in tutto il Creato, dall’imo al profondo, fu una convulsione orrenda per l’orrore delle sacrileghe parole. Una convulsione quale non sarà alla fine del Creato. Da essa nacque l’Inferno, il regno dell’Odio.



lunedì 24 settembre 2012

Papa Benedetto XVI - Discorso all'Internazionale Democratico-Cristiana


Signor Presidente,
onorevoli Parlamentari,
distinti Signore e Signori!

Sono lieto di ricevervi durante i lavori del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Democratico-Cristiana, e desidero, anzitutto, rivolgere un cordiale saluto alle numerose Delegazioni, provenienti da tante nazioni del mondo. Saluto in particolare il Presidente, On. Pier Ferdinando Casini, che ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto a vostro nome. È trascorso un lustro dal nostro precedente incontro ed in questo tempo l’impegno dei cristiani nella società non ha cessato di essere vivace fermento per un miglioramento delle relazioni umane e delle condizioni di vita. Questo impegno non deve conoscere flessioni o ripiegamenti, ma al contrario va profuso con rinnovata vitalità, in considerazione del persistere e, per alcuni versi, dell’aggravarsi delle problematiche che abbiamo dinanzi.
Un rilievo crescente assume l’attuale situazione economica, la cui complessità e gravità giustamente preoccupa, ma dinanzi alla quale il cristiano è chiamato ad agire e ad esprimersi con spirito profetico, capace cioè di cogliere nelle trasformazioni in atto l’incessante quanto misteriosa presenza di Dio nella storia, assumendo così con realismo, fiducia e speranza le nuove emergenti responsabilità. «La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, diventando così occasione di discernimento e di nuova progettualità» (Enc. Caritas in veritate, 21). E’ in questa chiave, fiduciosa e non rassegnata, che l’impegno civile e politico può ricevere nuovo stimolo ed impulso nella ricerca di un solido fondamento etico, la cui assenza in campo economico ha contribuito a creare l’attuale crisi finanziaria globale (Discorso alla Westminster Hall, Londra, 17 settembre 2010). Il contributo politico ed istituzionale di cui voi siete portatori non potrà quindi limitarsi a rispondere alle urgenze di una logica di mercato, ma dovrà continuare ad assumere come centrale ed imprescindibile la ricerca del bene comune, rettamente inteso, come pure la promozione e la tutela della inalienabile dignità della persona umana. Oggi risuona quanto mai attuale l’insegnamento conciliare secondo cui «nell’ordinare le cose ci si deve adeguare all’ordine delle persone e non il contrario» (Gaudium et spes, 26). Un ordine, questo della persona, che «ha come fondamento la verità, si edifica nella giustizia» ed «è vivificato dall’amore» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1912) ed il cui discernimento non può procedere senza una costante attenzione alla Parola di Dio ed al Magistero della Chiesa, particolarmente da parte di coloro che, come voi, ispirano la propria attività ai principi ed ai valori cristiani. Sono purtroppo molte e rumorose le offerte di risposte sbrigative, superficiali e di breve respiro ai bisogni più fondamentali e profondi della persona. Ciò fa considerare tristemente attuale il monito dell’Apostolo, quando mette in guardia il discepolo Timoteo dal giorno «in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2 Tm 4,3). Gli ambiti nei quali si esercita questo decisivo discernimento sono proprio quelli concernenti gli interessi più vitali e delicati della persona, lì dove hanno luogo le scelte fondamentali inerenti il senso della vita e la ricerca della felicità. Tali ambiti peraltro non sono separati, ma profondamente collegati, sussistendo tra di essi un evidente continuum costituito dal rispetto della dignità trascendente della persona umana (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1929), radicata nel suo essere immagine del Creatore e fine ultimo di ogni giustizia sociale autenticamente umana.
Il rispetto della vita in tutte le sue fasi, dal concepimento fino al suo esito naturale - con conseguente rifiuto dell’aborto procurato, dell’eutanasia e di ogni pratica eugenetica - è un impegno che si intreccia infatti con quello del rispetto del matrimonio, come unione indissolubile tra un uomo e una donna e come fondamento a sua volta della comunità di vita familiare.
E’ nella famiglia, «fondata sul matrimonio e aperta alla vita» (Discorso alle Autorità, Milano, 2 giugno 2012), che la persona sperimenta la condivisione, il rispetto e l’amore gratuito, ricevendo al tempo stesso – dal bambino al malato, all’anziano – la solidarietà che gli occorre. Ed è ancora la famiglia a costituire il principale e più incisivo luogo educativo della persona, attraverso i genitori che si mettono al servizio dei figli per aiutarli a trarre fuori («e-ducere») il meglio di sé. La famiglia, cellula originaria della società, è pertanto radice che alimenta non solo la singola persona, ma anche le stesse basi della convivenza sociale. Correttamente quindi il Beato Giovanni Paolo II aveva incluso tra i diritti umani il «diritto a vivere in una famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità» (Enc. Centesimus annus, 44).
Un autentico progresso della società umana non potrà dunque prescindere da politiche di tutela e promozione del matrimonio e della comunità che ne deriva, politiche che spetterà non solo agli Stati ma alla stessa Comunità internazionale adottare, al fine di invertire la tendenza di un crescente isolamento dell’individuo, fonte di sofferenza e di inaridimento sia per il singolo sia per la stessa comunità.
Onorevoli Signore e Signori, se è vero che della difesa e della promozione della dignità della persona umana «sono rigorosamente e responsabilmente debitori gli uomini e le donne in ogni congiuntura della storia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1929), è altrettanto vero che tale responsabilità concerne in modo particolare quanti sono chiamati a ricoprire un ruolo di rappresentanza. Essi, specialmente se animati dalla fede, devono essere «capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Gaudium et Spes, 31). Utilmente risuona in questo senso il monito del libro della Sapienza, secondo cui «il giudizio è severo contro coloro che stanno in alto» (Sap 6,5); monito dato però non per spaventare, ma per spronare e incoraggiare i governanti, ad ogni livello, a realizzare tutte le possibilità di bene di cui sono capaci, secondo la misura e la missione che il Signore affida a ciascuno. Auguro quindi ad ognuno di voi di proseguire con entusiasmo e decisione nell’impegno personale e pubblico, e assicuro il ricordo nella preghiera affinché Dio benedica voi e i vostri familiari.
 
22 settembre 2012
SUA SANTITA' PAPA BENEDETTO XVI 
 
 

 

Litanie per la santificazione dei sacerdoti


Concedeteci, o Signore, dei sacerdoti.
Concedeteci, o Signore, dei santi sacerdoti.
Concedeteci, o Signore, molti santi sacerdoti.

Santa Maria, Regina del Clero, concedeteci dei santi sacerdoti.
San Giuseppe, Patrono della santa Chiesa, concedeteci dei santi sacerdoti.
Santi Angeli ed Arcangeli, concedeteci dei santi sacerdoti.
Santi Patriarchi e Profeti, concedeteci dei santi sacerdoti.
Santi Martiri e sante Vergini, concedeteci dei santi sacerdoti.
Santi Vescovi e Confessori, concedeteci dei santi sacerdoti.
Santi Fondatori di Ordini religiosi, concedeteci dei santi sacerdoti.
Sant'Antonio da Padova, difensore dell'Eucaristia, concedeteci dei santi sacerdoti.
San Pasquale Baylón, concedeteci dei santi sacerdoti.
San Giovanni Maria Vianney, modello di santità sacerdotale, concedeteci dei santi sacerdoti.
San Francesco Saverio, patrono dei preti missionari, concedeteci dei santi sacerdoti.
Santa Teresa del Bambin Gesù, vittima per la santificazione sacerdotale, concedeteci dei santi sacerdoti.
Santi e Beati del Cielo, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per celebrare degnamente il Santo Sacrificio, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per offrire quotidianamente la Santa Messa, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per nutrire i fedeli col Pane di Vita, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per favorire gli splendori del culto divino, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per rigenerare le anime col Battesimo, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per istruire i fanciulli nella santa religione, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per crescere la gioventù nel santo timore di Dio, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per annunciare a tutti la Parola di Dio, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per convertire tutti gli infedeli e gli eretici, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per smascherare e combattere le false dottrine, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per confermare nella Fede coloro che dubitano, concedeteci dei santi sacer­doti.
Per sostenere ed incoraggiare coloro che esitano, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per rialzare coloro che cadono e riconciliarli con Dio, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per ricondurre a Dio tutti coloro che se ne sono allontanati, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per salvaguardare la morale cristiana, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per lottare vigorosamente contro la corruzione dei costumi, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per benedire delle sante unioni, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per difendere l'onore e la santità del Matrimonio, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per consolidare la gioia delle nostre famiglie cristiane, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per fortificare e consolare i nostri ammalati ed i tribolati, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per assistere i nostri moribondi, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per condurre i nostri cari al luogo dell'eterno riposo, concedeteci dei santi sacerdoti.
Per pregare ed offrire per i nostri defunti, concedetèci dei santi sacerdoti.
Per dare Gloria a Dio e pace alle anime di buona volontà, concedeteci dei santi sacerdoti.

Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, perdonaci, o Signore.
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, esaudiscici, o Signore.
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.

Preghiamo: Suscita, o Signore, in seno alla tua Chiesa lo spirito di pietà e di fortezza: esso renda degni i ministri del tuo Altare e ne faccia strenui assertori della Tua Parola. Per Cristo Nostro Signore. Amen.



domenica 23 settembre 2012

È tornato alla Casa del Signore, Padre Giancarlo Bossi, Missionario del Pime, già rapito nelle Filippine.


Padre Bossi era nato ad Abbiategrasso (Milano), il 19 febbraio 1950. Aveva 62 anni. Era entrato nel PIME a Genova nel 1973 come vocazione adulta. Ha emesso il giuramento perpetuo il 3 febbraio 1978 ed è stato ordinato sacerdote il 18 marzo 1978 da mons. Aristide. Pirovano. Destinato alle Filippine, vi ha trascorso - con qualche intermezzo in Italia - circa 32 anni. Dal 10 giugno al 19 luglio 2007 è stato sequestrato da un gruppo di guerriglieri musulmani fuoriusciti dal Milf. Ha vissuto come missionario nelle Filippine per circa 32 anni. La sua testimonianza davanti ai 300mila giovani a Loreto.

Roma (AsiaNews) - P. Giancarlo Bossi, il missionario del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) che nel 2007 era stato rapito a Mindanao, è morto stanotte alle 3 nella clinica Humanitas di Rozzano sul Naviglio (Milano).

Da oltre un anno aveva sviluppato un tumore ai polmoni e la sua salute si era debilitata sempre più.

P. Bossi, chiamato dagli amici col nomignolo di "gigante buono" per la sua statura atletica e corpulenta, era divenuto noto in tutta l'Italia e nel mondo quando è stato rapito da un gruppo di miliziani musulmani nelle Filippine, il 10 giugno del 2007. In tutta Italia e nel mondo si sono diffusi momenti di preghiera, digiuni, interrogazioni ai governi per la sua liberazione. Anche Benedetto XVI ha fatto un appello ai rapitori e ha pregato per lui. Il 19 luglio viene liberato, grazie anche alla collaborazione del governo italiano e di quello filippino.

Tornato in Italia dopo il suo sequestro, ha la possibilità di incontrare Benedetto XVI durante un raduno del pontefice con i giovani italiani a Loreto. Qui egli dà la sua testimonianza sul modo in cui ha vissuto i quasi 40 giorni insieme ai suoi rapitori, dei musulmani fuoriusciti dal Milf (Moro Islamic Liberation Front), che egli ha sempre difeso, dicendo che lo "hanno trattato bene e ho pregato per loro": "Durante i 40 giorni del mio deserto nella foresta - egli dice davanti a 300mila giovani - mi sono sentito rinnovare. La mia preghiera è diventata più essenziale e forte. La mia disponibilità a Dio più incisiva. Nelle difficoltà con forza si sperimenta la tenerezza di Dio" (cfr 01/09/2007 P. Bossi: Nei giorni del rapimento, la tenerezza di Dio). Ricordando il suo incontro col Papa, egli parla della "emozione di un figlio che ritrova il padre".

Nel gennaio 2008 ritorna nelle Filippine e vorrebbe ritornare a Payao (Mindanao), dove era stato rapito, ma i vescovi lo frenano e lui si stabilisce a Paranaque (Metro Manila) per un anno; poi si sposta nella missione di Mindoro Occidentale.

 Nella foto Il suo incontro con Benedetto XVI

23/09/2012 09:03

Santa Elisabetta Madre di Giovanni Battista - 23 settembre

I nomi di Santa Elisabetta e San Zaccaria non compaiono nel Calendario della Chiesa, ma per lunga tradizione questo giorno è sacro alla memoria dei genitori del Battista, cioè di Santa Elisabetta e di San Zaccaria, suo sposo.
Troviamo la loro storia nelle prime, mirabili pagine dell'Evangelo di San Luca, nelle quali è tracciato il prologo del più incredibile avvenimento della storia dell'umanità: l'Incarnazione di Dio tra gli uomini.
" Al tempo di Erode, re della Giudea - si legge - c'era un sacerdote di nome Zaccaria, la cui moglie era delle figlie di Aronne e si chiamava Elisabetta. Ambedue erano giusti davanti a Dio e camminavano in modo irreprensibile in tutti i comandamenti e precetti del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile, e tutti e due erano molto avanti con gli anni ".
La mancanza di una discendenza era considerata quasi un'onta, e formava il segreto tormento dell'anziana coppia di Israeliti. Ma un giorno, mentre Zaccaria offriva l'incenso nel Santuario, un Angiolo gli apparve alla destra dell'altare, per annunziargli che le preghiere sue e di Elisabetta erano state finalmente esaudite.
" Tua moglie ti darà un figlio - disse l'Angiolo - al quale metterai nome Giovanni. Egli sarà per te motivo di gioia e di contentezza, e molti gioiranno per la nascita di lui, perché sarà grande nel cospetto del Signore... ".
Così il vecchio sacerdote e la sua sterile moglie vengono a partecipare al sublime evento dell'Incarnazione. Nascerà da loro Giovanni, " profeta dell'Altissimo ", il primo e più grande testimone di Cristo nel mondo.  Per aver dubitato delle parole dell'Angiolo, Zaccaria resterà muto per tutto il tempo della trepidante maternità di Elisabetta. E fu in quel periodo, trascorsi sei mesi, che Elisabetta ricevette la visita di una lontana parente, Maria di Nazaret, sposa del falegname Giuseppe.
" Entrata in casa di Zaccaria - narra ancora San Luca - Maria salutò Elisabetta. Ed avvenne che, appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino le balzò nel seno, ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo e ad alta voce esclamò: "Benedetta tu sei tra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno... Te beata, che hai creduto, perché si compiranno le cose dette a te dal Signore" ".
Sant'Elisabetta fu così la prima donna a salutare in Maria la Madre del Redentore non ancora nato. Si può dire che sia la prima credente nella storia del Cristianesimo. Maria le risponderà con il meraviglioso cantico di ringraziamento, non a lei, ma alla potenza di Dio, il Magnificat.
Dopo la nascita di Giovanni, la lingua di Zaccaria si scioglierà per poter pronunziare il nome di Giovanni, imposto dall'Angiolo al figlio, " profeta dell'Altissimo ". E anche Zaccaria pieno di Spirito Santo, alzerà il suo inno di gioia e di benedizione:
" Benedetto sia il Signore, Dio d'Israele, -perché ha visitato e redento il suo popolo; -ha suscitato per
noi un potente salvatore - nella casa di David suo servo - come aveva annunziato per bocca dei suoi santi e dei suoi profeti - fin dall'inizio dei tempi ". Con la Natività, Elisabetta e Zaccaria spariscono dalle pagine del Vangelo, spariscono dalla storia, scivolano nella penombra  che circonda la luce folgorante della Redenzione. Non si sa altro, ma non c'è bisogno di sapere altro per vedere nei due vecchi sposi l'immagine dell'umanità nuova, ideali progenitori di tutti coloro che lodano la misericordia di Dio, benedicono la prescelta tra tutte le donne, e gioiscono nell'amore del suo divino Figliuolo. 


Martirologio Romano: Commemorazione dei santi Zaccaria ed Elisabetta, genitori di san Giovanni Battista, Precursore del Signore. Elisabetta, accogliendo in casa sua Maria, sua parente, piena di Spirito Santo, salutò la Madre del Signore benedetta tra le donne; Zaccaria, sacerdote, pieno di spirito profetico, alla nascita del figlio, lodò Dio redentore e predisse il prossimo avvento di Cristo, che verrà dall’alto come sole che sorge.

   




 

sabato 22 settembre 2012

"Chiamati da Dio alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo” – Frate Raniero Cantalamessa

Per rimanere fedeli al metodo della lectio divina, tanto raccomandata dal recente sinodo dei vescovi, ascoltiamo anzitutto le parole di san Paolo sulle quali vogliamo riflettere in questa meditazione:

“Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3, 7-12).

1. “Perché io possa conoscere Lui…”

La volta scorsa abbiamo meditato sulla conversione di Paolo come una metanoia, un cambiamento di mente, nel modo di concepire la salvezza. Paolo però non si è convertito a una dottrina, fosse pure la dottrina della giustificazione mediante la fede; si è convertito a una persona! Prima che un cambiamento di pensiero, il suo è stato un cambiamento di cuore, l’incontro con una persona viva. Si usa spesso l’espressione “colpo di fulmine” per indicare un amore a prima vista che travolge ogni ostacolo; in nessun caso questa metafora è più appropriata che per san Paolo.

Vediamo come questo cambiamento di cuore traspare dal testo appena ascoltato. Egli parla del “bene supremo” (hyperechon) di conoscere Cristo e si sa che in questo caso, come in tutta la Bibbia, conoscere non indica una scoperta solo intellettuale, un farsi un’idea di qualcosa, ma un legame vitale intimo, un entrare in rapporto con l’oggetto conosciuto. Lo stesso vale per l’espressione “…perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze”. “Conoscere la partecipazione alle sofferenze” non significa, evidentemente, averne un’idea, ma sperimentarle.

Mi è capitato di leggere questo brano in un momento particolare della mia vita in cui mi trovavo anch’io davanti a una scelta. Mi ero occupato di cristologia, avevo scritto e letto tanto su questo argomento, ma quando lessi “perché io possa conoscere Lui”, capii di colpo che quel semplice pronome personale “lui” (autòn) conteneva più verità su Gesù Cristo che tutti i libri scritti o letti su di lui. Capii che per l’Apostolo Cristo non era un insieme di dottrine, di eresie, di dogmi; era una persona viva, presente e realissima che si poteva designare con un semplice pronome, come si fa, quando si parla di qualcuno che è presente, indicandolo con il dito.

L’effetto dell’innamoramento è duplice. Da una parte opera una drastica riduzione ad uno, una concentrazione sulla persona amata che fa passare in secondo piano tutto il resto del mondo; dall’altra rende capaci di soffrire qualsiasi cosa per la persona amata, di accettare la perdita di tutto. Vediamo entrambi questi effetti realizzati alla perfezione nel momento in cui l’Apostolo scopre Cristo: “per lui, dice, ho accettato la perdita di tutte queste cose e le considero come spazzatura”.

Ha accettato la perdita dei suoi privilegi di “ebreo da ebrei”, la stima e l’amicizia dei suoi maestri e connazionali, l’odio e la commiserazione di quanti non comprendevano come un uomo come lui avesse potuto farsi sedurre da una setta di fanatici senza arte né parte. Nella seconda Lettera ai Corinzi c’è l’elenco impressionante di tutte le cose sofferte per Cristo (cf. 2 Cor 11, 24-28).

L’Apostolo ha trovato lui stesso la parola che da sola racchiude tutto: “conquistato da Cristo”. Si potrebbe tradurre anche afferrato, affascinato, o con una espressione di Geremia, “sedotto” da Cristo. Gli innamorati non si trattengono; lo hanno fatto tanti mistici al colmo del loro ardore. Francesco d’Assisi andava per i boschi della Verna gridando: “L’amore non è amato!” Io non ho difficoltà, perciò, a immaginare un Paolo che in un impeto di gioia, dopo la sua conversione, grida da solo agli alberi o in riva al mare quello che più tardi scriverà ai Filippesi: “Sono stato conquistato da Cristo! Sono stato conquistato da Cristo!”

Conosciamo bene le frasi lapidarie e pregnanti dell’Apostolo che ognuno di noi amerebbe poter ripetere nella propria vita: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21), e “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Paolo ci insegna a considerare l’amore per Cristo il bene supremo e tutto il resto, al confronto, spazzatura. Il suo insegnamento è riassunto nella massima della Regola di san benedetto: “Nulla assolutamente anteporre all’amore per Cristo”.

2. “In Cristo”

Ora, tenendo fede a quanto annunciato nel programma di queste prediche, vorrei mettere in luce quello che, su questo punto, il pensiero di Paolo può significare, prima per la teologia di oggi e poi per la vita spirituale dei credenti.

L’esperienza personale ha condotto Paolo a una visione globale della vita cristiana che egli indica con l’espressione “in Cristo” (en Christō). La formula ricorre 83 volte nel corpus paolino, senza contare l’espressione affine “con Cristo” (syn Christō) e le espressioni pronominali equivalenti “in lui” o “in colui che”.

È quasi impossibile tradurre con parole il contenuto pregnante di queste frasi. La preposizione “in” ha un significato ora locale, ora temporale (al momento in cui Cristo muore e risorge), ora strumentale (per mezzo di Cristo). Delinea l’atmosfera spirituale in cui il cristiano vive e agisce. Paolo applica a Cristo quello che nel discorso all’Areopago di Atene dice di Dio, citando un autore pagano: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28). Più tardi l’evangelista Giovanni esprimerà la stessa visione con l’immagine del “rimanere in Cristo” (Gv 15, 4-7).

Su queste espressioni fanno leva quelli che parlano di mistica paolina. Frasi come “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo” (2 Cor 5,19) sono totalizzanti, non lasciano fuori di Cristo nulla e nessuno. Dire che i credenti sono “chiamati a essere santi” (Rom 1,7) equivale per l’Apostolo a dire che sono “chiamati da Dio alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo” (1 Cor 1,9).

Giustamente, anche in seno al mondo protestante, oggi si comincia a considerare la visione sintetizzata nell’espressione “in Cristo” o “nello Spirito” come più centrale e rappresentativa del pensiero di Paolo che la stessa dottrina della giustificazione mediante la fede.

L’anno paolino potrebbe rivelarsi l’occasione provvidenziale per chiudere tutto un periodo di discussioni e contrasti legati più al passato che al presente e aprire un nuovo capitolo nell’utilizzo del pensiero dell’Apostolo. Tornare a utilizzare le sue lettere, e in primo luogo la Lettera ai Romani, per lo scopo per cui furono scritte che non era, certo, quello di fornire alle generazioni future una palestra in cui esercitare il loro acume teologico, ma quello di edificare la fede della comunità, formata per lo più da gente semplice e illetterata. “Ho un vivo desiderio, scrive ai Romani, di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io” (Rom 1, 11-12).

3. Oltre la Riforma e la Controriforma
È tempo, credo, di andare oltre la Riforma e oltre la Controriforma. La posta in gioco all’inizio del terzo millennio, non è più la stessa dell’inizio del secondo millennio, quando si produsse la separazione tra oriente e occidente, e neppure è quella a metà del millennio, quando si produsse, in seno alla cristianità occidentale, la separazione tra cattolici e protestanti.

Per fare un solo esempio, il problema non è più quello di Lutero di come liberare l’uomo dal senso di colpa che l’opprime, ma come ridare all’uomo il vero senso del peccato che ha smarrito del tutto. Che senso ha continuare a discutere su “come avviene la giustificazione dell’empio”, quando l’uomo è convinto di non aver bisogno di alcuna giustificazione e dichiara con orgoglio: “Io stesso oggi mi accuso e solo io posso assolvermi, io l’uomo”? [1]
Io credo che tutte le secolari discussioni tra cattolici e protestanti intorno alla fede e alle opere hanno finito per farci perdere di vista il punto principale del messaggio paolino, spostando spesso l’attenzione da Cristo alle dottrine su Cristo, in pratica, da Cristo agli uomini. Quello che all’Apostolo preme anzitutto affermare in Romani 3 non è che siamo giustificati per la fede, ma che siamo giustificati per la fede in Cristo; non è tanto che siamo giustificati per la grazia, quanto che siamo giustificati per la grazia di Cristo. L’accento è su Cristo, più ancora che sulla fede e sulla grazia.

Dopo avere nei due precedenti capitoli della Lettera presentato l’umanità nel suo universale stato di peccato e di perdizione, l’Apostolo ha l’incredibile coraggio di proclamare che questa situazione è ora radicalmente cambiata “in virtù della redenzione realizzata da Cristo”, “per l’obbedienza di un solo uomo” (Rom 3, 24; 5, 19). L’affermazione che questa salvezza si riceve per fede, e non per le opere, è importantissima, ma essa viene in secondo luogo, non in primo. Si è commesso l’errore di ridurre a un problema di scuole, interno al cristianesimo, quella che era per l’Apostolo una affermazione di portata più vasta, cosmica e universale.

Questo messaggio dell’Apostolo sulla centralità di Cristo è di grande attualità. Molti fattori portano infatti a mettere tra parentesi oggi la sua persona. Cristo non entra in questione in nessuno dei tre dialoghi più vivaci in atto oggi tra la chiesa e il mondo. Non nel dialogo tra fede e filosofia, perché la filosofia si occupa di concetti metafisici, non di realtà storiche come è la persona di Gesù di Nazareth; non nel dialogo con la scienza, con la quale si può unicamente discutere dell’esistenza o meno di un Dio creatore, di un progetto al di sotto dell’evoluzione; non, infine, nel dialogo interreligioso, dove ci si occupa di quello che le religioni possono fare insieme, nel nome di Dio, per il bene dell’umanità.

Pochi anche tra i credenti, interrogati in che cosa credono, risponderebbero: credo che Cristo è morto per i miei peccati ed è risorto per la mia giustificazione. I più risponderebbero: credo nell’esistenza di Dio, in una vita dopo la morte. Eppure per Paolo, come per tutto il NT, la fede che salva è solo quella nella morte e risurrezione di Cristo: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rom 10,9).

Nel mese scorso, si è tenuto qui in Vaticano, nella Casina Pio IV, un simposio promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze, dal titolo “Vedute scientifiche intorno all’evoluzione dell’universo e della vita”, cui hanno partecipato i massimi scienziati di tutto il mondo. Ho voluto intervistare, per il programma che conduco ogni sabato sera in TV sul vangelo, uno dei partecipanti, il Prof. Francis Collins, direttore del gruppo di ricerca che portò nel 2000 alla completa decifrazione del genoma umano. Sapendolo un credente, gli ho posto, tra le altre, la domanda: “Lei ha creduto prima in Dio o in Gesù Cristo?” Ha risposto:

“Sino all’età di circa 25 anni ero ateo, non avevo una preparazione religiosa, ero uno scienziato che riduceva quasi tutto ad equazioni e leggi di fisica. Ma come medico ho cominciato a vedere la gente che doveva affrontare il problema della vita e della morte, e questo mi ha fatto pensare che il mio ateismo non era un’idea radicata. Ho cominciato a leggere testi sulle argomentazioni razionali della fede che io non conoscevo. Per prima cosa sono arrivato alla convinzione che l’ateismo era l’alternativa meno accettabile. A poco a poco sono giunto alla conclusione che deve esistere un Dio che ha creato tutto questo, ma non sapevo com’era questo Dio”.

È istruttivo leggere, nel suo libro “Il linguaggio di Dio”, come superò questa impasse:

“Trovavo difficile gettare un ponte verso questo Dio. Più imparavo a conoscerlo, più la sua purezza e santità mi apparivano inavvicinabili. In questa amara consapevolezza arrivò la persona di Gesù Cristo. Era passato più di un anno da quando avevo deciso di credere in qualche specie di Dio, ed ora ero arrivato alla resa dei conti. In un bel mattino di autunno, mentre per la prima volta passeggiando sulle montagne mi spingevo all’ovest del Mississippi, la maestà e bellezza della creazione vinsero la mia resistenza. Capii che la ricerca era arrivata al termine. Il mattino seguente, al sorgere del sole, mi inginocchiai sull’erba bagnata e mi arresi a Gesù Cristo” [2].

Viene da pensare alla parola di Cristo: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. È solo in lui che Dio diventa accessibile e credibile. Grazie a questa fede ritrovata, il momento della scoperta del genoma umano fu, nello stesso tempo, dice lui, un’esperienza di esaltazione scientifica e di adorazione religiosa.

La conversione di questo scienziato dimostra che l’evento di Damasco si rinnova nella storia; Cristo è lo stesso, oggi come allora. Non è facile per uno scienziato, specie per un biologo, dichiarasi oggi pubblicamente credente, come non lo fu per Saulo: si rischia di essere immediatamente “cacciati dalla sinagoga”. E di fatti è quello che è successo al Prof. Collins che per la sua professione di fede ha dovuto subire gli strali di molti laicisti.

4. Dalla presenza di Dio alla presenza di Cristo

Mi resta da dire qualcosa sull’altro punto: cosa l’esempio di Paolo ha da dire per la vita spirituale dei credenti. Uno dei temi più trattati nella spiritualità cattolica è quello del pensiero della presenza di Dio [3]. Non si contano i trattati su questo argomento dal secolo XVI ad oggi. In uno di essi si legge:

“Il buon cristiano deve abituarsi a questo santo esercizio in ogni tempo e in ogni luogo. Al risveglio rivolga subito lo sguardo dell’anima su Dio, parli e conversi con lui come il suo padre amato. Quando cammina per le strade tenga gli occhi del corpo bassi e modesti elevando quelli dell’anima a Dio”[4].

Si distingue il “pensiero della presenza di Dio” dal “sentimento della sua presenza”: il primo dipende da noi, il secondo è invece dono di grazia che non dipende da noi. (Si sa che per san Gregorio Nisseno “il sentimento della presenza” di Dio, la aisthesis parousia, è quasi un sinonimo di esperienza mistica).

Si tratta di una visione rigidamente teocentrica che in alcuni autori si spinge fino al consiglio di “lasciare da parte la santa umanità di Cristo”. Santa Teresa d’Avila reagirà energicamente contro questa idea che riappare periodicamente da Origene in poi in seno al cristianesimo sia orientale che occidentale. Ma la spiritualità della presenza di Dio, anche dopo di lei, continuerà a essere rigidamente teocentrica, con tutti i problemi e le aporie che ne derivano, messe in luce dagli stessi autori che ne trattano[5]. È una spiritualità “etsi Cristus non daretur”, come se Cristo non eistesse.

Su questo punto il pensiero di san Paolo ci può aiutare a superare la difficoltà che ha portato al declino della spiritualità del presenza di Dio. Egli parla sempre di una presenza di Dio “in Cristo”. Una presenza irreversibile e insuperabile. Non c’è uno stadio della vita spirituale in cui si possa fare a meno di Cristo, o andare “oltre Cristo”. La vita cristiana è una “vita nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3). Questo cristocentrismo paolino non attenua l’orizzonte trinitario della fede ma lo esalta, perché per Paolo tutto il movimento parte dal Padre e ritorna al Padre, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. L’espressione “in Cristo” è intercambiabile, nei suoi scritti, con l’espressione “nello Spirito”.

Il bisogno di superare l’umanità di Cristo, per accedere direttamente al Logos eterno e alla divinità, nasceva da una scarsa considerazione della risurrezione di Cristo. Questa veniva vista nel suo significato apologetico, come prova della divinità di Gesù, e non abbastanza nel suo significato misterico, come inaugurazione della sua vita “secondo lo Spirito”, grazie alla quale l’umanità di Cristo appare ormai nella sua condizione spirituale e dunque onnipresente e attuale.

Cosa ne deriva sul piano pratico? Che noi possiamo fare ogni cosa “in Cristo” e “con Cristo”, sia che mangiamo, sia che dormiamo, sia che facciamo qualsiasi altra cosa: “Tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (Col 3,17; 1 Cor 10,31).

Il Risorto non è presente solo perché lo pensiamo, ma è realmente accanto a noi; non siamo noi che dobbiamo, con il pensiero e la fantasia, riportarci alla sua vita terrena e rappresentarci gli episodi della sua vita (come ci si sforzava di fare nella meditazione dei “misteri della vita di Cristo”); è lui, il risorto, che viene verso di noi. Non siamo noi che, con l’immaginazione, dobbiamo diventare contemporanei di Cristo; è Cristo che si fa realmente nostro contemporaneo. “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. (A proposito, perché non fare subito un atto di fede? Egli è qui, in questa cappella, più presente di quanto lo sia ciascuno di noi; cerca lo sguardo del nostro cuore e gioisce quando lo trova).

Una testo che riflette meravigliosamente questa visione della vita cristiana è la preghiera attribuita a san Patrizio: “Cristo con me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, Cristo in me! Cristo sotto di me, Cristo sopra di me, Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra!”[6]

Quale nuovo e più alto significato acquistano le parole di san Luigi Grignon de Montfort, se applichiamo allo “Spirito di Cristo” ciò che egli dice dello “spirito di Maria”:

“Dobbiamo abbandonarci allo Spirito di Cristo per essere mossi e guidati secondo il suo volere. Dobbiamo metterci e restare fra le sue mani come uno strumento tra le mani di un operaio, come un liuto tra le mani di un abile suonatore. Dobbiamo perderci e abbandonarci in lui come pietra che si getta in mare. È possibile fare tutto ciò semplicemente e in un istante, con una sola occhiata interiore o un lieve movimento della volontà, o anche con qualche breve parola” [7].

5. Dimentico del passato

Concludiamo tornando al testo di Filippesi 3. San Paolo termina le sue “confessioni” con una dichiarazione:

“Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3, 13-14).

“Dimentico del passato”. Quale passato? Quello di fariseo, di cui ha parlato prima? No, il passato di apostolo, nella Chiesa! Ora il guadagno da considerare perdita è un altro: è proprio l’aver già una volta considerato tutto una perdita per Cristo. Era naturale pensare: “Che coraggio, quel Paolo: abbandonare una carriera di rabbino così ben avviata per una oscura setta di galilei! E che lettere ha scritto! Quanti viaggi ha intrapreso, quante chiese fondato!”

L’Apostolo ha avvertito confusamente il pericolo mortale di rimettere tra sé e il Cristo una “propria giustizia” derivante dalle opere - questa volta le opere compiute per Cristo -, e ha reagito energicamente. “Io non ritengo -dice- di essere arrivato alla perfezione”. San Francesco d’Assisi, verso la fine della vita, tagliava corto a ogni tentazione di autocompiacenza, dicendo: “Cominciamo, fratelli, a servire il Signore, perché finora abbiamo fatto poco o niente”[8].

Questa è la conversione più necessaria per noi che abbiamo già seguito Cristo e siamo vissuti al suo servizio nella Chiesa. Una conversione tutta speciale, che non consiste nell’abbandonare il male, ma, in certo senso, nell’abbandonare il bene! Cioè nel distaccarsi da tutto ciò che si è fatto, ripetendo a se stessi, secondo il suggerimento di Cristo: “Siamo servi inutili; abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10).

Questo svuotarci le mani e le tasche di ogni pretesa, in spirito di povertà e umiltà, è il modo migliore per prepararci al Natale. Ce lo ricorda una simpatica leggenda natalizia che mi piace citare di nuovo. Narra che tra i pastori che accorsero la notte di Natale ad adorare il Bambino ce n’era uno tanto poverello che non aveva proprio nulla da offrire e si vergognava molto. Giunti alla grotta, tutti facevano a gara a offrire i loro doni. Maria non sapeva come fare per riceverli tutti, dovendo tenere in braccio il Bambino. Allora, vedendo il pastorello con le mani libere, prende e affida a lui Gesù. Avere le mani vuote fu la sua fortuna e, su un altro piano, sarà anche la nostra.


venerdì 21 settembre 2012

Benedetto XVI, l’uomo che non si tira indietro.

In Libano, la sola presenza del Papa ha avuto un forte impatto psicologico. Proviamo ad esaminare questo coraggio fisico, intellettuale e spirituale.

All’indomani della visita di Benedetto XVI a Beirut, in Libano, dove mi trovavo per La Vie, ricorreva una frase, come un Leitmotiv, sulla bocca di coloro ai quali avevo chiesto un bilancio, dal diplomatico ai vertici della Chiesa, passando per la madre di famiglia venuta ad assistere alla messa papale sotto un sole cocente: “Lui è venuto, senza paura e senza tirarsi indietro.”

Fino alla vigilia del viaggio persistevano i timori sulla sua fattibilità. La determinazione di Benedetto XVI era nota, ma la questione cruciale era quella della sicurezza. Con la guerra civile in Siria e le sue ripercussioni sul Libano, alcuni non vi hanno veramente creduto che nel vederlo apparire sulla passerella dell’aereo.

L’impatto psicologico di questo viaggio, in un contesto di così grande tensione, è immenso. Il fatto che il Papa sia venuto in carne e ossa è una fonte di speranza difficile da immaginare in Francia. Laggiù è stato vissuto come un evento nazionale, una vera festa in questo paese dove la gente di solito vive in apnea, temendo una ripresa del conflitti tra diverse comunità. Ma il benessere psicologico si era esteso anche ai poveri che erano tra i primi ad affluire. Penso ad Editha, una cattolica filippina di Mindanao incontrata a Messa. “Faccio la governante dai libanesi. Sono qui per sostenere la mia famiglia, da sei anni non vedo i miei quattro figli. Il mio figlio più giovane aveva un anno quando sono partita. La partecipazione alla Messa del Papa è stata un balsamo per il mio cuore “.

Joseph Ratzinger non è uomo da tirarsi indietro. Verso la fine degli anni ’50, quando la sua tesi viene “ritoccata” da un professore “maldestro” e la sua carriera da intellettuale è in pericolo, lui, semplicemente, aggira l’ostacolo riprendendo il suo lavoro da una prospettiva diversa, rendendolo inattaccabile. Dal 1982, in qualità di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, i media lo hanno trasformato in una figura negativa dell’istituzione. Altri ne avrebbero risentito pesantemente… Ma lui, modesto, continua a compiere la sua mansione, senza preoccuparsi della sua immagine.

A partire dall’anno 2000, Ratzinger è ben consapevole della mole di lavoro che lo attende in qualità di “rassettatore” dei disordini dei teologi ribelli, in quanto sulla sua scrivania si sono accumulati i dossier sui crimini di pedofilia di un certo numero di sacerdoti. Se, in quel momento, è l’ora dell’omertà (l’entourage di Papa Giovanni Paolo II, non vuole esporre pubblicamente alcune figure, tra cui Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo), il Cardinale Prefetto è cosciente della bomba ad effetto ritardato. Verso la fine della vita di Giovanni Paolo II, approfitta di un’occasione per lanciare pubblicamente un allarme sulla sporcizia dei preti, il Venerdì Santo durante la Via Crucis. Mai un Cardinale della Curia era arrivato al punto di rompere un tabù rivelando davanti all’istituzione il suo lato oscuro.

Non si tirerà indietro quando sarà eletto papa a 78 anni. Il messaggio generale è chiaro: “Joseph, apparentemente sei l’unico a conoscere l’entità del disastro. Ebbene, fai le pulizie per noi, per favore.” Mica scemi questi cardinali….E Joseph lo farà con tutto se stesso.

Non si tirerà indietro sulla questione orientale. Avviare un sinodo sul Medio Oriente non è mai stato un compito facile, data la complessità delle Chiese cattoliche profondamente divise fra di loro, e il contesto dell’area. In realtà, l’Oriente non è veramente il campo di competenza del teologo Ratzinger. Ma che importa… Il Papa avvierà la dinamica del Sinodo 2010, che ha raggiunto il suo culmine a Beirut la scorsa settimana.

Il coraggio fisico. Il suo programma, concentrato in 60 ore, è stato molto denso. Durante le sue apparizioni in pubblico, Benedetto XVI ha patito un calore infernale sotto l’occhio permanente delle telecamere… Ha rivolto il suo sguardo e la sua attenzione a centinaia di laici o di prelati orientali in fila per salutarlo, si è concentrato sui “politici” (laici o ecclesiastici) durante le interviste private, dove la minima parola sbagliata può avere conseguenze nefaste. A 85 anni, è una grande prestazione. L’uomo è diventato fragile, a volte si muove con un bastone per tenersi in equilibrio, ma chi recentemente ha potuto avvicinarlo deve ammettere che la sua memoria e il suo umorismo sono folgoranti.

In Libano, il Papa ha pubblicato il testo della sua esortazione post-sinodale Ecclesia in Medio Oriente, vera tabella di marcia per il futuro. Non ha affatto esitato a esortare i cristiani orientali a non prendere delle strade sbagliate in alcuni campi. Ad esempio, il testo si dilunga molto sull’origine ebraica del cristianesimo. Ora, in Medio Oriente il conflitto israelo-palestinese è nella mente di tutti.

Sottolineare quindi l’importanza del giudaismo è un atto coraggioso. Questa è la prova che Roma, attraverso il Papa, è apportatrice di alterità e riapre le ferite per meglio sanarle. Senza dubbio qui si trova l’essenza del ministero petrino.

L’altro elemento “anti-demagogia” dell’Esortazione sta nel discorso di Benedetto XVI sulla laicità. In effetti dal punto di vista orientale la laicità è una mostruosità, la malattia di origine francese che contaminato l’Occidente conducendolo a spezzare i legami con Dio (e ciò spiega il fatto che le potenze occidentali ormai si disinteressano della sorte dei cristiani d’Oriente). Ma Benedetto XVI spiega il concetto. “La sana laicità, al contrario, significa liberare la religione dal peso della politica e arricchire la politica con gli apporti della religione, mantenendo la necessaria distanza, la chiara distinzione e l’indispensabile collaborazione tra le due. […] Una tale laicità sana garantisce alla politica di operare senza strumentalizzare la religione, e alla religione di vivere liberamente senza appesantirsi con la politica dettata dall’interesse, e qualche volta poco conforme, o addirittura contraria, alle credenze religiose.” Un discorso che percuote, in Oriente, le molteplici confusioni tra religione e politica.

A Beirut, il Papa ha impiegato parole provocanti per richiamare alla pace, evocando l’urgenza del perdono e della conversione del cuore, di fronte alle autorità politiche e religiose: “Dobbiamo essere ben coscienti che il male non è una forza anonima che agisce nel mondo in modo impersonale o deterministico. Il male, il demonio, passa attraverso la libertà umana, attraverso l’uso della nostra libertà. Cerca un alleato, l’uomo. Il male ha bisogno di lui per diffondersi. […] Ma è possibile non lasciarsi vincere dal male e vincere il male con il bene. È a questa conversione del cuore che siamo chiamati. […] Questa conversione richiesta è esaltante perché apre delle possibilità facendo appello alle innumerevoli risorse che abitano il cuore di tanti uomini e donne desiderosi di vivere in pace e pronti ad impegnarsi per la pace. Ora essa è particolarmente esigente: si tratta di dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di accettare le scuse senza cercarle, e infine di perdonare. Perché solo il perdono dato e ricevuto pone le fondamenta durevoli della riconciliazione e della pace per tutti”.

Tante parole che possono scivolare come l’acqua su una tela cerata nelle nostre società europee dove non abbiamo conosciuto la guerra civile, le famiglie decimate dai bombardamenti, la paura di essere rapiti e di sparire (e che oggi è ancora una paura reale)… Ma laggiù? “Parlare di perdono non è così evidente per libanesi o siriani. È molto duro accettare il fatto che l’uccisore di un membro della propria famiglia sia un fratello da amare” mi spiegava, il giorno successivo alla partenza del papa, il padre gesuita Samir Khalil Samir. Il perdono delle offese e la conversione del cuore rappresentano per ciascuno una sfida tanto più grande quanto la cultura mediterranea è segnata dalla forza della soggezione al clan religioso o famigliare, dalla logica della vendetta, dal codice d’onore. I libanesi, in particolare, restano prigionieri di una paura fondamentale, ancorata nei loro corpi.

Una “conversione particolarmente esigente”? L’invito non si limita al Medio Oriente, echeggia tutto quello che il papa dice da sette anni e si collocherà al centro dell’anno della fede, che comincia tra alcune settimane. Profeta in Libano con la sua parola e il suo corpo, Benedetto XVI è sempre più il papa della libertà interiore.

Fonte: Jean Mercier – La Vie


 

giovedì 20 settembre 2012

O il catechismo, o la cosa bianca – Lorenzo Bertocchi

Per caso mi sono imbattuto in un documento della Conferenza Episcopale Italiana del 1981, sembra ieri e, invece, sono già trascorsi 31 anni: una vita. Un passaggio del testo assomiglia molto ad alcuni interventi recenti della CEI targata Bagnasco. Il tema è presto detto: la presenza dei laici cattolici nella vita pubblica, mentre il titolo del documento è “La Chiesa italiana e le prospettive del paese”; riporto di seguito la citazione:
“…il compito è diventato più ampio e grave [1981! NdA], sì da chiamarci ad abilitare sposi, famiglie, lavoratori, studenti, educatori, intellettuali, sindacalisti, operatori sociali, uomini politici, con un itinerario pedagogico che li renda capaci di impegnare la fede nella realtà temporale. Tale itinerario ha la sua base permanente e il suo luogo di costante confronto in un più severo tirocinio di vita ecclesiale. Soprattutto in una catechesi più sistematica per i giovani e per gli adulti: troppi giovani e troppi adulti sono cresciuti senza catechesi, accontentandosi di una fede infantile, o di esperienze bibliche e liturgiche piuttosto emotive, o di saggistiche teologiche di moda, a volte consumandosi in imprese sociali e politiche senza più un serio confronto con il Vangelo e con la fede della Chiesa”.
Ottima analisi che, purtroppo, dopo 31 anni rimane ancora di una certa attualità.
Intanto la politica dei cattolici oggi sembra attraversata dalle prospettive di una “cosa bianca”, un oggetto misterioso nato in una ridente cittadina umbra, pare con la benedizione del quotidiano di via Solferino. Insomma, sembra che la diagnosi del 1981 non abbia sortito grandi effetti.
Il problema sollevato più volte da Benedetto XVI, invece, è quello di una nuova generazione di laici impegnati in politica, ma radicati nella fede cattolica nel modo più autentico possibile. Di fronte a questa urgenza sembra necessario che ognuno faccia la sua parte: i laici cattolici si propongano con coraggio e umiltà, i movimenti e le associazioni stiano fuori dalla politica politicante, mentre i pastori si chiedano se hanno saputo risolvere i problemi sollevati nel 1981.
L’ormai prossimo Anno della Fede è un occasione per tutti, se permetterà, innanzitutto, di far conoscere la bellezza della dottrina della fede così come è contenuta nella Sacra Scrittura e nella Tradizione bimillenaria della Chiesa.
La conclusione è che per i cattolici impegnati nella realtà temporale dovrebbe venir prima il Catechismo, poi la politica, altrimenti il nostro destino è la “cosa bianca”.

mercoledì 19 settembre 2012

Pei giorni delle Tempora


Mercoledì 19 Settembre - Quattro Tempora d'Autunno: offriamo a Dio orazioni e digiuno per la nostra ed altrui salute, e per l'Ordinazione di santi Sacerdoti fedeli alla Vera Fede.

Pei giorni delle Tempora

O Dio sapientissimo, Dio santissimo, che ci avete insegnato per bocca del vostro arcangelo Raffaele, che l’orazione accompagnata dal digiuno e dalla limosina è un sacrificio assai grato alla vostra divina Maestà, e ci avete dichiarato di vostra propria bocca esservi una specie di demoni che non si vince se non coll’orazione e col digiuno; siate benedetto d’avere inspirato alla vostra Chiesa di consacrare al digiuno ed all’orazione tre giorni in ogni stagione dell’anno; degnatevi, di grazia, di accettare a gloria vostra, ad esaltazione della vostra Chiesa, ed a santificazione delle anime nostre, il sacrificio del nostro spirito per mezzo dell’orazione, e del nostro corpo per mezzo del digiuno che vi offriamo in queste Tempora. Accettatelo, o Signore, in ringraziamento di tanti benefici che abbiamo da voi ricevuti, e dei quali ci riconosciamo immeritevoli: accettatelo in penitenza delle nostre colpe passate, delle quali vi chiediamo umilmente perdono. Con questo santo digiuno che indebolisce la carne, indebolite, vi prego, gli sforzi del demonio contro di noi, e fortificateci nel vostro santo servizio; elevateci ed uniteci tutti inseparabilmente a Voi per mezzo dell’orazione, moltiplicando sopra di noi le vostre grazie e le vostre benedizioni.
E perché spetta principalmente a’ vostri Ministri l’ottenerci queste grazie e benedizioni in questi giorni che la Santa Chiesa ha destinato all’Ordinazione de’ Sacerdoti, dateci per vostra bontà uomini secondo il cuor vostro, che s’applichino unicamente a conoscere ed adempiere la vostra santa volontà. Inspirate ai Pastori di eleggere all’augusto e santo sacerdozio persone piene di scienza, di virtù e di zelo, che possano elevar al cielo le mani pure ed offerirvi degnamente il sacrificio del vostro popolo. Imprimete nel loro spirito le vostre sante verità; animate il loro cuore all’osservanza dei vostri precetti; riempiteli di zelo per la salute delle anime, acciò essendo essi lucerne ardenti e luminose avanti a Voi e avanti agli uomini, possano colla voce e coll’esempio servire di guida a’ fedeli, e condurli con essi al possedimento dei gaudi eterni del paradiso. Veni Creator.



Trasmettere la “Parola della Fede” in tutto il suo rigore – Beato Giovanni Paolo II, Udienza del 9 gennaio 1985.


1. Abbiamo ricordato come la catechesi è opera della Chiesa che diffonde la buona novella nel mondo, e cerca di approfondire la sua vita sacramentale con una migliore conoscenza del mistero di Cristo.
Con la catechesi, come con l’insieme dell’opera di evangelizzazione, la Chiesa è consapevole di rispondere ai problemi più essenziali dell’uomo, a quelli che ciascuno già si pone o che prima o poi si porrà nel corso della sua esistenza. Da dove viene l’uomo? Perché esiste? Quali sono i suoi rapporti con Dio e con il mondo invisibile? Come deve comportarsi per raggiungere lo scopo della sua vita? Perché è sottomesso alla sofferenza e alla morte, e qual è la sua speranza?
A questi problemi la catechesi porta la risposta di Dio. Essa vuol far comprendere una dottrina che non è semplicemente il prodotto di certe ricerche personali, ma la verità comunicata all’umanità mediante la rivelazione divina. Perciò, nel comunicare la verità della salvezza, la catechesi si preoccupa di rendere manifeste le domande fondamentali suscitate nel cuore umano e di mostrare come Dio vi ha risposto nella sua rivelazione con un dono di verità e di vita che supera le più profonde attese dell’uomo (cf. 1 Cor 2, 6-9). Il suo compito è di dare delle certezze, fondate sull’autorità della rivelazione.
2. Lungi dal suscitare dubbi o confusione con i problemi da essa considerati, la catechesi tende dunque a illuminare l’intelligenza e a rafforzarla con solide convinzioni. Certo, con le risposte che fornisce, essa introduce più profondamente lo spirito umano nel mistero della rivelazione; ma questo mistero dà luce alla mente anche se, finché siamo nella vita terrena, non dissipa tutte le oscurità. Non si può capire tutto, ma ciò che si comprende basta a indicare le verità fondamentali e il senso della vita.
Spesso, le formule dei catechismi, con una serie di domande e di risposte hanno espresso, in modo concreto e pratico, la struttura fondamentale della catechesi, che si può definire come il confronto della domanda dell’uomo e della risposta di Dio. È vero che la domanda dell’uomo è ispirata e già illuminata dalla grazia divina, e che, d’altra parte, la risposta di Dio è formulata nei limiti e nelle imperfezioni del linguaggio umano. Ma si tratta veramente di interrogativi propri dell’uomo, interrogativi ai quali la catechesi porta la luce divina.
Ciò significa che, pur essendo attenta al lato umano dei problemi, la catechesi non si limita a riflessioni di carattere umano, né a indagini d’ordine filosofico, psicologico e sociologico, né allo sforzo di enunciare semplicemente dei preamboli alla rivelazione. Essa è consapevole di dover esporre e di far cogliere la verità rivelata, che non è in suo potere di ridurre o di attenuare. Essa cerca di adattare il suo insegnamento alla capacità di coloro che lo ricevono, ma non si attribuisce il diritto di velare o di sopprimere una parte della verità che Dio stesso ha voluto comunicare agli uomini.
3. Mette conto di ricordare qui quanto ho sottolineato nell’esortazione apostolica «Catechesi tradendae», riguardo all’integrità del contenuto della catechesi: “Affinché l’offerta della propria fede sia perfetta, colui che diventa discepolo di Cristo ha il diritto di ricevere la “parola della fede” non mutilata, non falsificata, non diminuita, ma completa e integrale, in tutto il suo rigore e in tutto il suo vigore. Tradire in qualche cosa l’integrità del messaggio significa svuotare pericolosamente la catechesi stessa e compromettere i frutti che il Cristo e la comunità ecclesiale hanno il diritto di aspettarsi” (Giovanni Paolo II, Catechesi tradendae, 30).
Può verificarsi che il messaggio sembri difficile da far comprendere e accettare. Nel mondo circolano molte idee contrarie alla dottrina evangelica e, anzi, alcuni tengono un atteggiamento d’opposizione a tutto ciò che viene insegnato a nome della Chiesa. Di fronte alle resistenze che incontra, colui che si dedica alla catechesi potrebbe essere tentato di indietreggiare, di non esporre il messaggio cristiano in tutta la sua verità e in tutte le sue esigenze di vita, e di limitarsi ad alcuni punti più facilmente ammissibili. È allora che egli deve ricordarsi che è stato incaricato di un insegnamento che lo supera: egli deve sforzarsi di proporlo come l’ha ricevuto; deve soprattutto essere consapevole che nel suo lavoro di catechesi dispone d’una forza divina che lo rende capace di trasmettere la sua fede, e che nel cuore dei suoi ascoltatori lo Spirito Santo fa penetrare la parola nella misura in cui essa è fedele alla verità che deve esprimere.
4. Il problema della catechesi è un problema di fede. All’origine della Chiesa, chi avrebbe pensato che un piccolo numero di discepoli di Gesù potesse intraprendere l’opera di evangelizzazione e di catechizzazione dell’umanità intera? Ma è proprio quello che si è realizzato: il messaggio cristiano fin da principio riuscì a penetrare nella mentalità di un grande numero di uomini. Ciò che la grazia effettuò allora e poi sempre nei secoli, essa continua a compiere anche oggi.
La catechesi conta pertanto sulla potenza della grazia per trasmettere ai fanciulli e agli adulti il dono integrale della fede. Ogni catechista ha l’incarico di comunicare tutto il messaggio cristiano e riceve da Cristo stesso la capacità di adempiere pienamente questa sua missione.