mercoledì 22 agosto 2012

Il martirio di San Massimiliano M. Kolbe

«Chiedo di andare a morire al suo posto»
Una notizia terribile, agghiacciante arriva nel blocco 14, al quale apparteneva anche san Massimiliano Kolbe: è fuggito uno dei prigionieri del blocco 14. Se il prigioniero non tornerà, il giorno seguente sicuramente dieci prigionieri del blocco 14 verranno scelti e condannati a una morte atroce: la morte di fame e sete in un orrido e tenebroso sotterraneo, chiamato “bunker della morte”.
Il prigioniero non tornò. Verso il tramonto, il comandante Fritsch si presentò a scegliere i dieci da condannare nel blocco schierato davanti a lui.
La seguente testimonianza è quella di colui che è stato salvato dalla morte, Francesco Gajowniczek, il quale così descrive quello che lui ha potuto vedere e sentire:
«Eravamo allineati in dieci file, durante l’appello della sera. Mi trovavo nella stessa fila di Padre Kolbe; ci separavano tre o quattro prigionieri. Il Lagerführer Fritsch, circondato dalle guardie, si avvicinò, e cominciò a scegliere nelle file dieci prigionieri per mandarli a morire. Indicò col dito anche me. Uscii dalla fila e mi sfuggì un grido: avrei desiderato vedere ancora i miei figli! Dopo un istante uscì dalla fila un prigioniero, offrendo se stesso in mia vece. Si avvicinò, perciò, al Lagerführer e cominciò a dirgli qualcosa. Allora una guardia lo condusse nel gruppo dei condannati a morte; io ebbi l’ordine di rientrare nella fila».
Un altro testimone presente alla drammatica scena fu il medico Niceto Francesco Wlodarski, che si trovava lì presente.
«Dopo la scelta dei dieci prigionieri – egli racconta – Padre Massimiliano uscì dalla fila e, togliendosi il berretto, si mise sull’attenti dinanzi al comandante. Questi, sorpreso, rivolgendosi a lui, disse: “Che cosa vuole questo porco polacco?”. Padre Massimiliano, puntando la mano verso Francesco Gajowniczek, già prescelto per la morte, rispose: “Sono un sacerdote cattolico polacco; sono anziano, voglio prendere il suo posto, perché egli ha moglie e figli...”. Il colonnello Fritsch, meravigliato, sembrava non riuscisse a trovare la forza per parlare. Dopo un po’, però, con un cenno della mano, pronunciando la sola parola: “Fuori!”, ordinò a Gajowniczek di ritornare nella fila lasciata prima. In tal modo, Padre Massimiliano prese il posto del condannato...».


L’eroico gesto con il quale san Massimiliano Kolbe salvò la vita a Gajowniczek, suo compagno di prigionia nel campo di Auschwitz, è oggetto di un interessante studio che sottolinea la liceità e l’elevatissimo valore morale di tale martirio: il più simile a quello di Cristo che «volontariamente si consegnò alla morte».
Ricorre il 70° anniversario del martirio di san Massimiliano (14 agosto 1941). È passato il tempo del nazismo hitleriano, ma i cristiani continuano a morire sotto i colpi di una maligna, subdola, persecuzione: «Ogni cinque minuti un cristiano viene ucciso a causa della sua fede. Nel 2011 si stima che saranno 105 mila le vittime della persecuzione contro i cristiani. Tra il 2000 e il 2010 le vittime sono state 160 mila all’anno, mentre nel XX secolo sono stati 45 milioni i cristiani uccisi a motivo della loro religione» (M. Introvigne, in www.vaticaninsider.com).
Tra i 45 milioni di martiri del XX secolo c’è anche san Massimiliano. Eppure il suo martirio si distingue per il carattere spiccatamente eroico, sovranamente libero, dell’offrirsi nelle mani del persecutore. Questo gesto inusitato ricorda da vicino l’eroismo dei proto martiri francescani del 1220 e, in ultima analisi, il Re dei Martiri, Cristo, che «volontariamente si consegnò alla morte» (cf Messale Romano, Preghiera eucaristica IV). [...]
Il suo gesto, tuttavia, rimane incomprensibile al di fuori di una logica di amore serafico. Esce dallo schema classico di martirio: né la ragione da sola, né la fede da sola, bastano a darne adeguata spiegazione. Non irrazionale, ma sopra-razionale; teologicamente lecito, ma non necessario. Mentre nella dinamica del martirio normalmente vi è il dilemma che costringe ad una scelta: o la fedeltà a Cristo o la vita, qui vi è l’assoluta gratuità. Se san Massimiliano non si fosse offerto, non avrebbe commesso, per sé, alcuna colpa. Non era in gioco la fedeltà a Cristo, simpliciter, ma la fedeltà all’amore serafico, che è “l’amore più grande”, quello di Gesù Redentore e di Maria Corredentrice. […]
Gli psicologi si sbizzarriscono a spiegare il martirio di san Massimiliano con le loro teorie1. Queste, quando sono chiuse alla trascendenza, hanno un minimo comun denominatore: la negazione che si tratti di un atto assolutamente libero. Ed invece la spiegazione del martirio in genere, ed in particolare quello di san Massimiliano, sta nell’uso perfetto, anzi sopranaturalmente perfetto, della libertà. Questa, con sant’Agostino, consiste nel pieno possesso del proprio atto, al di sopra di ogni istinto naturale o condizionamento socio-culturale, e trova la sua perfezione solo nell’obbedienza alla Verità, che è Dio. Ma in verità, nessuno è tenuto, né per ragione, né per fede, a sostituirsi volontariamente ad un altro uomo condannato a morte, sia pure ingiustamente. Sappiamo, infatti, dalla morale che: «Ognuno è tenuto a soccorrere il prossimo che si trova in un’estrema necessità spirituale, anche con pericolo certo della vita, solo nel caso in cui sia la speranza ugualmente certa di giovare a quel bisognoso, e che non ne venga un male più grave» (ivi, p. 319).
Applichiamo questo principio al gesto sacrificale di san Massimiliano. È vero che Gajowniczek era in grave pericolo spirituale. I segni esterni della sua disperazione erano evidenti. Ma non era altrettanto certo che sostituirsi a lui l’avrebbe salvaguardato da una situazione oggettivamente disperante, forse peggiore, visto che occasioni di disperarsi ad Auschwitz ce n’erano quotidianamente, e in abbondanza. [...]
San Massimiliano, da parte sua, non aveva doveri particolari verso l’incolumità fisica di nessuno in quel lager. Aveva invece un dovere generale, in quanto sacerdote, di provvedere alla salute della loro anima. Ma proprio per questo, a vedute umane, sarebbe stato più utile da vivo che da morto, per tutte le assoluzioni in articulo mortis che avrebbe potuto impartire, per tutte le parole di fede che avrebbe potuto rivolgere a quella gente esulcerata dalla ferocia belluina degli aguzzini.
Qualcuno, inoltre, potrebbe invocare il principio secondo cui «senza la divina autorità non è lecito a nessuno uccidersi direttamente con l’intenzione di uccidersi. Sarebbe contro la carità verso se stessi, e sarebbe un’ingiuria al bene comune e a Dio, che è il solo diretto e assoluto Signore della vita umana» (ivi, p. 622).
E allora rispondiamo che è stato l’impulso della carità divina a spingere padre Massimiliano a compiere quel gesto, in ossequio al suo carattere sacerdotale, alla sua appartenenza all’Ordine dell’amore serafico e alla corona rossa promessagli dalla Madonna sin dalla sua infanzia. In verità, san Massimiliano non si è ucciso, né si è consegnato con l’intenzione di uccidersi. L’hanno ucciso i nazisti che odiavano la fede cattolica; l’oggetto immediato della sua offerta era di salvare la vita di un fratello, ma la sua intenzione più vera era di conformarsi nel modo più perfetto a Cristo, che si è sacrificato per amore dell’intera umanità. [...] La morte è semplicemente tollerata come effetto secondo, previsto, accettato, ma non voluto per sé. [...]
D’altra parte la sua liceità è fuori discussione.
Sant’Alfonso2 indica questo ordine della carità verso il prossimo: 1) Desiderare per se stessi i beni spirituali (salvezza e santità). 2) Desiderare per gli altri i beni spirituali. 3) Desiderare per se stessi i beni corporali (in primis la vita fisica). 4) Desiderare per gli altri i beni corporali.
Da quest’ordine assiologico si conclude che è lecito sacrificare la propria vita fisica (3° livello) per il bene spirituale del prossimo (2° livello) che, in ultima analisi, è anche il proprio bene spirituale (1° livello), visto che tale sacrificio attinge in se stessi in grado massimo la carità, nella quale consiste la perfezione della persona: «consegnare se stessi alla morte per salvare un amico è il più perfetto atto di virtù; perciò il virtuoso più desidera questo atto che la propria vita» (cf San Tommaso, In III Sent., dist. 29, art. 5, ad 3).
Il martirio di san Massimiliano rientra perfettamente in questo caso, da cui la sua liceità ed il suo elevatissimo valore morale. Ma, lo ripetiamo, tra il potuit e il fecit, qui c’è di mezzo il decuit, non l’opus est. La valutazione della convenienza (decuit), nelle circostanze concrete, e la conseguente deliberazione ad agire, poteva venire a san Massimiliano solo da un impulso soprannaturale, attuale ed imponderabile, della divina Carità. Analogo all’impulso che ha spinto il Signore a consegnarsi nelle mani dei nemici, nonostante la ripugnanza sensibile totale della sua natura umana, e nonostante che più volte fosse già sfuggito dalle mani dei suoi persecutori. Avrebbe avuto tutto l’agio di farlo anche in quella notte, quando lo vennero a prendere nell’orto degli ulivi: «Appena disse “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6). Ma Egli non se ne avvantaggiò. Non passò in mezzo a loro lasciandoli a stringere l’aria, come aveva fatto nella sinagoga di Nazareth (cf Lc 4,30) e nel tempio di Gerusalemme (cf Gv 10,39). E come per il Signore, anche per san Massimiliano il momento della sua passione coincideva col momento della sua più perfetta “transustanziazione” nell’Immacolata. Come sulla Croce la Corredentrice è con il Redentore misticamente “una sola carne”, dalla quale è generata la Chiesa, così nel bunker della fame san Massimiliano è con l’Immacolata misticamente “una sola carne”, dalla quale è nato il principio vitale del rinnovamento dell’Ordine serafico. [...]

La difficoltà di individuare distintamente nel sacrificio di san Massimiliano i tratti essenziali del martirio era avvertita anche dal postulatore della sua causa di beatificazione. Tant’è vero che è stato beatificato da Paolo VI con il titolo di Confessore, mentre è stato canonizzato dal beato Giovanni Paolo II col titolo di Martire della Carità. La differenza tra il martirio per la fede e il martirio per la carità sta, come abbiamo cercato di spiegare prima, nella necessità del primo, e nella libertà del secondo, secondo i due modi di esser principio dell’intelletto e della volontà: necessario il primo, libero il secondo. Con ciò non si vuol dire che il martire per la fede non agisca per carità e non eserciti in grado eroico il suo libero arbitrio. Solo che in questo caso la carità riceve la sua rettitudine da un giudizio ultimo pratico assolutamente obbligante; nel martirio della carità, invece, il giudizio ultimo pratico si ferma alla convenienza, in modo che l’impulso ad agire viene dalla perfezione della carità più che nel primo caso, ed è quindi più libero, quindi più perfetto, che nel primo caso. Nella misura in cui la carità supera la fede (cf Col 3,14; 1Cor 13,13) così, per sé, il martirio di carità è più eccellente rispetto al martirio per la fede.
Osserviamo, infine, le condizioni canoniche che definiscono l’essenza del martirio, e non avremo difficoltà a riconoscerle nel nostro caso: «Un persecutore che infligge 2) per odio contro la fede o altra virtù cristiana 3) la morte 4) ad un cristiano, il quale 5) accetta volontariamente la morte 6) e sopporta pazientemente la stessa morte 7) per amore di Gesù e per essergli fedele, 8) con il riconoscimento della Chiesa, che accetta in foro esterno l’evento martiriale (la canonizzazione avvenuta il 10 ottobre 1982)»3.

Nel martirio di san Massimiliano, però, a queste condizioni va aggiunto il “fattore Immacolata”, per il quale l’«accettazione volontaria della morte» si trasforma nell’“offrirsi spontaneamente alla morte”, perché in questo consiste “l’amore più grande” (Gv 15,13), l’amore dell’Ordine serafico.

Note

1 Cf Suor M. Pia della Regina della Pace, Il Martirio di san Massimiliano M. Kolbe, secondo la psicologia della religione, Casa Mariana Editrice, Benevento 1993.

2 Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Theologia Moralis, vol. I, Ed. Nova, Roma 1905, p. 318.

3 Cf E. Piacentini, Al di là di ogni frontiera, LEV, Città del Vaticano 1982, p. 192.


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