Il Papa fa fermare sul Lungotevere il corteo pontificio per benedire gli ebrei
che, di sabato, escono dalla Sinagoga. È il 1959 e quel pontefice è Giovanni
XXIII. Dopo 54 anni, quell'episodio non è mai stato dimenticato. Lo avevano già
ricordato Giovanni Paolo II e il rabbino Elio Toaff. «Il primo segnale rivoluzionario
verso gli ebrei prima ancora che il Concilio», così si espresse il Papa
polacco. «Un gesto che gli valse l'entusiasmo di tutti i presenti che
circondarono la sua vettura per applaudirlo e salutarlo», scrisse nella sua
autobiografia Toaff. «Fu un gesto di grande simbolismo», chiosa oggi il rabbino
capo di Roma Riccardo Di Segni.
Quale pensiero le suscita l'immagine del Papa fermo sull'auto che benedice gli ebrei davanti alla Sinagoga?
«Bisogna ricordare l'atmosfera di quei tempi, il muro di gelo fra cattolici ed ebrei. Si trattò di un gesto simbolico semplice, ma di grande significato. Un segnale che si voleva abbattere ogni barriera, mostrando un atteggiamento di simpatia che fino a quel momento non c'era stato. È stato vissuto come l'inizio di un cambiamento di clima. Anche se il gesto della benedizione non era un modo paritario di creare un rapporto fra i due mondi. Ma è stato un gesto di attenzione».
Attenzione che Roncalli ebbe verso gli ebrei anche negli anni trascorsi in Oriente e come Nunzio a Parigi…
«In effetti ho letto di alcuni episodi che lo hanno visto adoperarsi per aiutare gli ebrei. So anche di famiglie che vennero a ringraziarlo in Francia».
La Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg ha documentato l'aiuto offerto da mons. Roncalli agli ebrei perseguitati durante l'Olocausto e ha consegnato i dati della sua indagine allo Yad Vashem, con «ferma raccomandazione che questa prestigiosa entità conferisca il titolo di Giusto tra le Nazioni ad Angelo Giuseppe Roncalli». Lei cosa ne pensa?
«Ci sono regole e procedure particolari che devono essere seguite per attribuire il titolo di Giusto. Normalmente questo titolo viene dato a chi ha fornito aiuti a rischio della propria vita. Non so se questo sia accaduto nel caso di mons. Roncalli. Si badi bene, con questo non intendo in alcun modo sminuire l'aiuto del nunzio che è ampiamente documentato e del quale si parla in numerose pubblicazioni. L'intervento di Roncalli c'è stato. Piuttosto andrà studiato l'esatto ruolo del futuro Giovanni XXIII quand'era in Francia. Sappiamo pure che come nunzio doveva eseguire ordini di Roma e non erano ordini simpatici, a proposito dei bambini ebrei nascosti nei conventi francesi di cui le organizzazioni ebraiche chiedevano la restituzione».
Torniamo al pontificato di Roncalli. Con il Concilio si ebbero passi avanti nel rapporto con gli ebrei.
«Certamente Giovanni XXIII con la promulgazione del Concilio e con una commissione ad hoc diede una spinta propulsiva, ma va ricordato anche che fu Paolo VI a promulgare la Dichiarazione Nostra Aetate che deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo da chiunque, come si legge appunto nel decreto».
Da Roncalli a Ratzinger. Lei ha detto che i rapporti con Benedetto XVI sono quelli di buon vicinato…
«L'ultima volta l'ho incontrato durante la visita ufficiale alle Fosse Ardeatine. Dal suo punto di vista, secondo il suo temperamento e il suo carattere – quello sostanzialmente di studioso – Papa Ratzinger ha sempre mostrato estremo interesse rispetto alla ricchezza del patrimonio culturale e spirituale ebraico. Numerosi sono i suoi messaggi di attenzione. È un uomo dotto che apprezza la ricchezza della nostra tradizione».
Era stato così anche con Giovanni Paolo II?
«Ogni Papa ha avuto un suo ruolo. Wojtyla ha portato avanti le aperture di Roncalli».
Ratzinger definisce gli ebrei «Padri nella fede», Wojtyla i «nostri fratelli maggiori». Un'espressione quella del Papa polacco che non tutti gli ebrei condividono.
«Bisogna fare dei distinguo e non alimentare animosità. L'espressione "fratello maggiore", come ha detto anche Benedetto XVI nella tradizione ebraica è anche il fratello perdente. Tuttavia credo che come espressione comune, dell'uomo della strada sia positiva. Esprime qualcosa di importante. Del resto noi - posso ben dire - siamo più antichi».
Emanuele Roncalli
Quale pensiero le suscita l'immagine del Papa fermo sull'auto che benedice gli ebrei davanti alla Sinagoga?
«Bisogna ricordare l'atmosfera di quei tempi, il muro di gelo fra cattolici ed ebrei. Si trattò di un gesto simbolico semplice, ma di grande significato. Un segnale che si voleva abbattere ogni barriera, mostrando un atteggiamento di simpatia che fino a quel momento non c'era stato. È stato vissuto come l'inizio di un cambiamento di clima. Anche se il gesto della benedizione non era un modo paritario di creare un rapporto fra i due mondi. Ma è stato un gesto di attenzione».
Attenzione che Roncalli ebbe verso gli ebrei anche negli anni trascorsi in Oriente e come Nunzio a Parigi…
«In effetti ho letto di alcuni episodi che lo hanno visto adoperarsi per aiutare gli ebrei. So anche di famiglie che vennero a ringraziarlo in Francia».
La Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg ha documentato l'aiuto offerto da mons. Roncalli agli ebrei perseguitati durante l'Olocausto e ha consegnato i dati della sua indagine allo Yad Vashem, con «ferma raccomandazione che questa prestigiosa entità conferisca il titolo di Giusto tra le Nazioni ad Angelo Giuseppe Roncalli». Lei cosa ne pensa?
«Ci sono regole e procedure particolari che devono essere seguite per attribuire il titolo di Giusto. Normalmente questo titolo viene dato a chi ha fornito aiuti a rischio della propria vita. Non so se questo sia accaduto nel caso di mons. Roncalli. Si badi bene, con questo non intendo in alcun modo sminuire l'aiuto del nunzio che è ampiamente documentato e del quale si parla in numerose pubblicazioni. L'intervento di Roncalli c'è stato. Piuttosto andrà studiato l'esatto ruolo del futuro Giovanni XXIII quand'era in Francia. Sappiamo pure che come nunzio doveva eseguire ordini di Roma e non erano ordini simpatici, a proposito dei bambini ebrei nascosti nei conventi francesi di cui le organizzazioni ebraiche chiedevano la restituzione».
Torniamo al pontificato di Roncalli. Con il Concilio si ebbero passi avanti nel rapporto con gli ebrei.
«Certamente Giovanni XXIII con la promulgazione del Concilio e con una commissione ad hoc diede una spinta propulsiva, ma va ricordato anche che fu Paolo VI a promulgare la Dichiarazione Nostra Aetate che deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo da chiunque, come si legge appunto nel decreto».
Da Roncalli a Ratzinger. Lei ha detto che i rapporti con Benedetto XVI sono quelli di buon vicinato…
«L'ultima volta l'ho incontrato durante la visita ufficiale alle Fosse Ardeatine. Dal suo punto di vista, secondo il suo temperamento e il suo carattere – quello sostanzialmente di studioso – Papa Ratzinger ha sempre mostrato estremo interesse rispetto alla ricchezza del patrimonio culturale e spirituale ebraico. Numerosi sono i suoi messaggi di attenzione. È un uomo dotto che apprezza la ricchezza della nostra tradizione».
Era stato così anche con Giovanni Paolo II?
«Ogni Papa ha avuto un suo ruolo. Wojtyla ha portato avanti le aperture di Roncalli».
Ratzinger definisce gli ebrei «Padri nella fede», Wojtyla i «nostri fratelli maggiori». Un'espressione quella del Papa polacco che non tutti gli ebrei condividono.
«Bisogna fare dei distinguo e non alimentare animosità. L'espressione "fratello maggiore", come ha detto anche Benedetto XVI nella tradizione ebraica è anche il fratello perdente. Tuttavia credo che come espressione comune, dell'uomo della strada sia positiva. Esprime qualcosa di importante. Del resto noi - posso ben dire - siamo più antichi».
Emanuele Roncalli
Nessun commento:
Posta un commento