mercoledì 16 gennaio 2013

La crisi del sacramento della Penitenza - Padre Giovanni Cavalcoli

Uno degli aspetti preoccupanti della situazione ecclesiale da alcuni decenni a questa parte è, come lo sappiamo bene soprattutto noi sacerdoti, il calo impressionante dell’accesso dei fedeli al Sacramento della Penitenza.

Io che confesso da quasi quarant’anni, conosco bene questo fenomeno macroscopico. Ma il guaio è che quei pochi penitenti, che ancora si accostano al Sacramento, sono soprattutto anziani, i quali, benchè educati nella fede da fanciulli, hanno dimenticato il senso e il valore del Sacramento per una radicata cattiva abitudine o intorpidimento della coscienza, scambiando il confessionale per i luoghi più diversi e più strani, che poco o nulla hanno a che vedere con l’accusa e la remissione dei propri peccati: ora il confessionale sembra l’occasione per lamentarsi di torti subìti e peccati commessi dagli altri, o magari commessi in gioventù e da lungo tempo cancellati, ora un’occasione per esporre le proprie sofferenze e i propri problemi, ora scambiandolo per una specie di ufficio reclami o per lo studio di un avvocato, ora prendendo il confessore per uno psicologo al quale esporre le proprie angosce, i propri incubi, le proprie paure, i propri turbamenti, ora prendendo occasione dal confessionale per discussioni di tipo morale, politico, filosofico o teologico, o per elencare le proprie opere buone, quasi sperando di ottenere con ciò le lodi dal confessore, o per fare della maldicenza o per sfogare la propria aggressività o, bene che vada, per fare una chiacchieratina col prete o per raccontargli che cosa è capitato nel giorno prima o per dire semplicemente che non si è fatto nessun peccato, neppure veniale, e magari si tratta di persone che non vengono a confessarsi da un anno o poco meno o anche più.

Da che cosa dipende questa situazione disastrata, questo squallido spettacolo, questa disfatta pastorale, nonostante il continuo parlare di “pastorale” da tutte le parti? Certamente dalla poca o nessuna cura che certi confessori hanno per le anime. Le lasciano parlare, qualunque cosa dicano e alla fine danno una cosiddetta raffazonata “assoluzione” del tutto invalida, data la mancanza della materia del Sacramento, che è l’accusa umile e sincera dei propri peccati, non quelli degli altri, e quindi la mancanza delle giuste disposizioni del penitente, o del cosiddetto “penitente”, che in realtà non è pentito di nulla.

La confessione in molti casi è diventa un rito superstizioso, fatto di formule meccaniche abitudinarie prive di qualunque interiore sincerità e convinzione: un vero insulto alla sacralità del Sacramento e un vero pericolo per il penitente e ancora più per il confessore che lascia correre simili abusi.

Quello che purtroppo infatti certi confessori dimenticano e per colpa loro vengono ad ignorarlo i fedeli, è la sacralità del Sacramento della Penitenza. Manca cioè oggi il senso del sacro, come da tempo è stato notato dagli studiosi della religione. Anche in forza della semplice religione naturale, il sacro è qualcosa di istituito da Dio o di connesso col divino in modo tale che sia del tutto intangibile ed inviolabile.

Non può assolutamente esser manomesso, manipolato o modificato dall’uomo, neppure dal sacerdote, anzi costui deve dare l’esempio del rispetto per questo sommo valore. L’uomo può modificare l’umano ma non può modificare il divino. Semmai è questo che deve modificare e regolare l’azione umana. Così il Sacramento della Penitenza, come tutti i Sacramenti istituiti da Cristo. Tale Sacramento è quello che è e affinchè possa produrre i suoi frutti di grazia, va assolutamente rispettato nella sua identità e funzionalità essenziale, al di là di tutti i leciti od opportuni adattamenti che possono essere suggeriti al confessore prudente dal variare delle circostanze, come per esempio confessare un malato, un sordomuto o uno che parla una lingua straniera o un minorato mentale.

Il Sacramento può essere celebrato male, grossolanamente, in fretta, meccanicamente, sciattamente, superficialmente, negligentemente, ma, se mantiene gli elementi essenziali (accusa sincera dei peccati con cuore contrito, speranza del penitente nella divina misericordia e disponibilità alla riparazione), resta valido e fruttuoso; ma se manca qualcosa di essenziale (caso più frequente è la denuncia dei peccati), esso è nullo e quand’anche il sacerdote desse l’assoluzione, questa agisce sul vuoto: è come se uno parlasse ad una statua.

Intromissioni indebite di questo genere, dette “profanazioni” si avvertono oggi anche nella prassi di altri Sacramenti, come per esempio la S. Messa.
Molti fedeli e liturgisti, che hanno a cuore il giusto modo di celebrare o di partecipare alla S. Messa ed hanno rispetto per la sacralità di questo rito, lamentano opportunamente come anche qui con irresponsabile disinvoltura, per non dire empietà, alcuni celebranti, credendo forse di adattare o render più fruttuosa e interessante la celebrazione, in realtà le fanno perdere la sua sostanza spirituale, la sua efficacia soprannaturale e il suo influsso benefico sulle anime.

Per capire l’intangibilità del sacro possiamo fare un paragone con la composizione chimica di una farmaco: qual è quel paziente, profano di farmacologia, che si permetterebbe, ammesso che ci riesca, di modificare il dosaggio degli elementi chimici che compongono un dato farmaco?
Non diremmo che è uno stolto? E così similmente si deve dire che è stolto o empio chi di suo arbitrio si permette di trattare il Sacramento della Penitenza, sia il sacerdote che il fedele, come se si trattasse di una semplice faccenda umana, rimessa all’inventiva o alla fantasia o al buon umore di chi la pratica?

Per questo ormai da quasi quarant’anni, al fine di fare il mio dovere di confessore e servire veramente le anime, mi vedo costretto a dedicare moltissimo tempo, con pazienza e carità, a fare una catechesi della Confessione, approfittando di ogni occasione, correggendo idee storte ed insegnando o ricordando gli elementi essenziali e i presupposti del Sacramento: che cosa è il peccato (la materia, ossia l’azione cattiva e le condizioni soggettive: piena avvertenza e deliberato consenso), peccato veniale e peccato mortale, il dovere di essere precisi nell’accusa dei peccati, le attenuanti e le aggravanti del peccato, la distinzione tra coscienza della colpa (materia della confessione) e senso di colpa (competenza dello psicologo), la distinzione tra peccato e scrupolo, la distinzione tra rammarico per uno sbaglio e pentimento per una colpa, tra volontario (il peccato), che è materia della Confessione, e l’involontario (lo sbaglio o l’errore), che non è materia della Confessione, la necessità di esser pentiti dei propri peccati e di riparare, la preoccupazione da parte mia di dare utili indicazioni per la correzione del penitente, l’essenza e il fine dell’assoluzione sacramentale, che alcuni confondono con una “benedizione”, esortando alla speranza di correggersi e alla confidenza nella divina misericordia. A volte cerco di scuotere le coscienze mettendole davanti con forza alle loro responsabilità.

Davanti a questi miei richiami, magari dopo lunghe spiegazioni, in genere i penitenti mi ascoltano, alcuni un po’ meravigliati e quasi increduli o non del tutto convinti, come se sentissero cose nuove e strane, altri mi ringraziano e tornano, chiedendo magari la mia direzione spirituale, altri invece, male abituati da precedenti confessori, addirittura si offendono e, restando fermi nei loro inveterati pregiudizi, passano con arroganza al contrattacco e non c’è verso di convincerli.

A questi mi limito a dare una semplice benedizione. Costoro infatti – grazie a Dio casi rarissimi – sono talmente orgogliosi, quindi assolutamente privi delle condizioni per confessarsi, che intendono l’invito del confessore ad accusare i peccati come se il confessore volesse accusarli di peccati che non hanno fatto. Da qui il loro sentirsi offesi, sino al punto che, sdegnati, lasciano il confessionale. Con altri, che trovo impreparati, mi riesce di convincerli a fare un esame di coscienza e poi a tornare per la celebrazione del Sacramento.

Per converso, come sappiamo tutti, oggi, quei pochi fedeli che ancora frequentano la Messa, vanno tutti in massa alla S. Comunione. Noi sacerdoti che seguiamo evidentemente da vicino queste vicende, ci siamo ormai accorti da tempo che le gente si comunica, ma non si confessa, il che del resto non è sempre necessariamente un male, giacchè i peccati veniali possiamo toglierceli da soli con opportune pratiche penitenziali, anche senza far precedere la confessione alla comunione. Ma c’è da chiedersi quanti conoscono e fanno effettivamente queste pratiche, se quando vengono a confessarsi non sanno confessarsi.

Ci sono bensì alcuni anziani, legati ad un eccesso di rigore in uso cinquant’anni fa – il Concilio qui è venuto per niente – e mai corretti dai confessori, i quali anziani non osano avvicinarsi alla
S. Comunione a causa di soli peccati veniali persino dubbi non confessati. In tal caso dico ad essi che, secondo la prassi della Chiesa, il peccato veniale se lo possono togliere da soli senza confessarsi, naturalmente dopo aver compiuto una purificazione per conto proprio di simili leggeri peccati. Diverso è il caso del peccato mortale, che va prima confessato, altrimenti a far la Comunione senza essersi confessati si fa sacrilegio.

Questo disastro ha certamente una causa determinante nella diffusione non corretta dall’autorità ecclesiastica di una certa falsa teologia che ormai da quarant’anni sta rovinando le anime mettendole in serio pericolo di non salvarsi. Si tratta di quella teologia che ormai si conviene di chiamare “buonista” di origine luterana, ma di un luteranesimo annacquato e trasformato in una vera droga dello spirito, un vero “oppio dei popoli”, per usare la famosa formula di Karl Marx. La si potrebbe chiamare la fabbrica dell’irresponsabilità.

Lutero, come si sa, morbosamente oppresso in gioventù da scrupoli spropositati, pensò di liberarsene abbandonando qualunque cura penitenziale della propria coscienza e il Sacramento stesso della Penitenza con la convinzione che il peccato mortale, secondo lui inevitabile, erroneamente confuso con la tendenza al peccato (concupiscentia, fomes peccati), questa sì mai del tutto eliminabile nella vita presente, fosse “ignorato” o “non considerato” da Dio (“giustificazione forense”) in forza di una semplice atto di “fede” col quale bisognava credere di essere salvi senza merito. Lutero “rimediò” – si fa per dire – ad un estremismo rigorista con un estremismo opposto di tipo lassista.

I suoi seguaci, a cominciare da tempi recenti, mantennero questo metodo estremista o pendolare, passando dalla esagerata e tragica sensazione luterana del peccato alla perdita totale del senso del peccato, quale si verifica nei giorni nostri insinuandosi anche nei nostri ambienti cattolici. Da qui il disprezzo o il fraintendimento della pratica del confessionale.

Si tratta dell’idea, oggi ben nota, di grande successo, purtroppo diffusa da predicatori e scrittori impostori, che comunque vadano le cose o quali che siano i peccati che si commettono, ammesso che si dia il peccato cosciente e volontario, tutti si salvano. Infatti, in questa concezione, nessuno ha mai una cattiva intenzione, nessuno ha cattiva volontà, ma tutti, anche chi fa il male, non lo sa e non lo vuole, ma lo fa senza accorgersene o senza saperlo e involontariamente.

Molti si confessano di “peccati” intesi in questo modo. Da qui l’idea che in fondo non si fa mai nulla di male, salvo, però l’essere bravissimi nel denunciare senza dubbi ed esitazioni i peccati degli altri. Così Lutero era sicurissimo di essere stato perdonato e di andare in paradiso, mentre era altrettanto certo che il Papa e i Cardinali andavano all’inferno.

Oggi i nipoti di Lutero non credono più nell’inferno, ma la convinzione di Lutero che comunque Dio perdona è rimasta. Per Lutero ogni atto che compiamo, anche se ci sembra buono, è sempre peccato mortale, mentre ogni peccato, anche se ci sembra male, in realtà è perdonato. Basta credere che siamo perdonati per metterci il cuore in pace (se ci si riesce), anche se non siamo pentiti, se la coscienza ci rimprovera e continuiamo a peccare. Così la colpa è diventato il freudiano “senso di colpa”, che non si toglie con la confessione ma con la psicanalisi, la quale ti dimostra che in realtà non hai nessuna colpa o che la colpa è un’invenzione dei preti. O crudeli aguzzini della anime! Guai a sognarli di notte!

Oggi – oh, tempi luminosi della Chiesa postconciliare! – c’è l’idea che tutti siamo sempre in grazia sin dalla nascita, puri come la Madonna, viene negato il peccato originale che parla di una colpa che ereditiamo da Adamo e si pensa che il peccato, se c’è, è sempre perdonato, ed anche se resta, c’è comunque la grazia, e in ciò vien conservata la convinzione di Lutero: simul iustus et peccator.

Per la verità l’anima resta in grazia, come insegna il Concilio di Trento, solo con i peccati veniali, i quali effettivamente non tolgono la grazia. Senonchè però oggi i “penitenti” non si accusano neppure dei peccati veniali, i quali invece in realtà, come dice ancora il Concilio di Trento, sono frequenti, inevitabili e li fanno anche i santi, corrispondendo a nostri lati deboli che permangono anche per tutta la vita, per cui sono ripetitivi, perchè quando pecchiamo, l’occasione è data da quei lati deboli.

Per questo non dovrebbe essere difficile ricordarli, eppure ci sono “penitenti” che dopo un anno dalla confessione precedente non ricordano neppure quelli, persone magari di 70 o 80 anni che sono cristiani sin da bambini. Mi chiedo che effetto ha fatto o che risultati ha portato il Concilio su anime di questo tipo? Nessuno. Ma la domanda è ancora più seria, per non dire drammatica: e i confessori, che cosa hanno fatto in questi quarant’anni? Si sono aggiornati? Hanno educato i penitenti? Per nulla. Si vedono i risultati. Invece di studiare Rahner nei seminari, non sarebbe meglio tornare a S.Tommaso?

Bisogna dire tuttavia, ed anche questa è una esperienza di molti confessori e fedeli, che in alcuni luoghi privilegiati dalla grazia, le confessioni sono ancora numerose e ben fatte. E ciò si verifica soprattutto nei santuari mariani. Si vede che la Madonna ha uno speciale potere di convertire le anime e di attirarle a Cristo.

Certamente non mancano vescovi zelanti, non mancano ottimi e santi confessori e guide spirituali, non mancano i penitenti preparati, consapevoli, zelanti, desiderosi di purificazione, di salvezza, di santità, di progresso nelle virtù, che vogliono guarire dai loro vizi e peccati. Li noto soprattutto tra i giovani e in fanciulli: sono pochi ma buoni! E indubbiamente i religiosi e i sacerdoti continuano generalmente a confessarsi bene. A volte commuovono certi grandi peccatori fortissimamente pentiti, che magari non vengono da molti anni: come si rinnova il Vangelo! A volte mi capita di incontrare dei penitenti talmente sinceri, i quali si commuovono fino alle lacrime e parimenti mi fanno commuovere anche me.

Essi sentono veramente la Confessione come un ristoro per l’anima, un vero bagno spirituale, similmente al momento nel quale, stanchi e impolverati dopo un faticoso lavoro, facciamo la doccia. E difatti sappiamo bene cosa significhi il simbolo dell’acqua battesimale: acqua con la quale si lava il corpo, ma soprattutto l’anima.

Certo il confessionale è un severo esercizio di umiltà, che costa molto al nostro orgoglio: ma si può forse paragonare la pace che scaturisce da un’anima purificata alla torbida soddisfazione di chi orgogliosamente non riconoscendosi peccatore, si impegola sempre più nel fango e nella sporcizia?

Oppure c’è chi vede nel confessionale uno studio medico, dove Cristo medico ci accoglie con amore per guarirci dalle nostre malattie. Oppure c’è chi preferisce vedere nel confessionale il momento della giustizia: un piccolo tribunale di giustizia e di misericordia, nel quale siamo liberi dalle nostre colpe, nel momento in cui vogliamo scontarle e fare debita riparazione.

Notiamo infine che si deve accuratamente distinguere la celebrazione del Sacramento dall’esercizio della direzione o del colloquio spirituale. Questa confusione si verifica soprattutto nei casi di penitenti attenti ai valori spirituali, ma non sufficientemente diligenti del distinguere la natura di queste due pratiche. Soltanto il sacerdote può confessare. La guida spirituale può esercitarla chiunque, anche se ciò non esclude che l’una e l’altra cosa possano esser fatte insieme, ma devono esser fatte in successione e non essere mescolate. D’altra parte è normale che il confessore sia anche direttore spirituale: sta soprattutto a questi avere la cura di distinguere le due cose a tutto vantaggio della persona da lui guidata.

Beati quorum tecta sunt peccata! Come riporta Dante nella Divina Commedia riprendendo dal Salmo 31,1. Beati coloro che avvertono in questi termini il momento del confessionale! Come il pubblicano della famosa parabola evangelica, escono da esso liberi, felici e giustificati, mentre gli orgogliosi farisei che entrano per sciorinare le loro buone opere ed accusare i fratelli, ne escono più guasti e più in pericolo di prima.

9 gen 2013 - Padre Giovanni Cavalcoli

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