venerdì 25 gennaio 2013

Il ruolo della Scrittura nel dialogo tra ebrei e cristiani

Fondazione culturale San Fedele - Fondazione Maimonide

mercoledì 23 gennaio 2013
Milano, Aula Magna Università Cattolica del Sacro Cuore

nell’ambito dei “dialoghi a due Voci” tra ebrei e cristiani

"Il ruolo della Scrittura nel dialogo tra ebrei e cristiani"

Giuseppe LARAS – Angelo SCOLA
modera Gioachino Pistone

1. Anzitutto: Dio parla
La Bibbia (letteralmente “Scritture” [sacre]) è il documento scritto del dialogo che Dio rivolge in primis a Israele e, attraverso Gesù Cristo, estende alla Chiesa, per coinvolgere ogni uomo e l’umanità nella sua totalità. Papa Benedetto nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini sulla sacra Scrittura nella vita della Chiesa afferma: «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi. La Costituzione dogmatica Dei Verbum aveva esposto questa realtà riconoscendo che “Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé” (DV 2)» (Verbum Domini 6).
Come si manifesta questo desiderio, questo amore di Dio? La creazione nell’ottica della storia della salvezza risponde all’interrogativo. Dio mediante la Sua Parola sostiene il mondo perché dà esistenza e consistenza a tutti gli esseri e all’intero cosmo (cf. Eb 1,3)[1]. Ed il Suo amore creatore si manifesta nella storia di elezione e nell’alleanza con Israele, suo popolo: «La storia d'amore di Dio con Israele consiste, in profondità, nel fatto che Egli dona la Torah, apre cioè gli occhi a Israele sulla vera natura dell'uomo e gli indica la strada del vero umanesimo» (Deus caritas est, 9).
Si comprende meglio questo concetto alla luce del significato delle “Dieci parole” (cf. Es 34, 28; Dt 4, 13; 10, 4). Le Dieci parole non possono essere separate dall’elezione e dall’Alleanza. Vengono proferite e scritte in una circostanza storica ben definita e non possono in alcun modo essere stralciate dall’insieme dell’azione divina entro la quale sono state date. Non possono essere sradicate idealisticamente, moralisticamente o spiritualisticamente dalla storia santa. Senza il legame di appartenenza reciproca a Dio e alla famiglia umana non potrebbero efficacemente essere ripresentate quale canone morale universale. La sostanza delle “Dieci Parole” è l’Alleanza. Ognuna di esse possiede un significato storico e comunionale che ricomprende quello creazionale. La decisione del popolo «faremo» e «ascolteremo» (Es 24, 7) ha sempre come movente Dio che ha liberato, ha donato la libertà, ha posto il quadro di riferimento e conferisce la forza necessaria per il cammino. Il fine di ogni «fare» ed «ascoltare» è la relazione con Lui, è Lui stesso.

2. L’obbedienza della fede
La risposta dell’uomo al Dio che parla è la fede: «In ciò si evidenzia che “per accogliere la Rivelazione, l’uomo deve aprire la mente e il cuore all’azione dello Spirito Santo che gli fa capire la Parola di Dio presente nelle sacre Scritture”» (Verbum Domini 25). Si comprende allora perché, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, il peccato sia spesso descritto come un “non ascoltare” Dio che parla[2].
Il legame tra la precedenza di Dio e l’obbedienza della fede è fondamentale se vogliamo comprendere la gioia di Israele davanti al dono divino della Torah. Dice in proposito Joseph Ratzinger: «L’altro dono di Mosè… è la Torah – la parola di Dio che indica la via e conduce alla vita… Il grande Salmo 119 è tutta un’esplosione di gioia e di gratitudine per questo dono. Una visione unilaterale della Legge, derivata da un’esegesi unilaterale della teologia paolina, ci impedisce di vedere questa gioia di Israele: la gioia di conoscere la volontà di Dio e così essere in grado e avere il privilegio di vivere questa volontà»[3].
Proprio alla luce di queste considerazioni si può capire meglio il “novum” portato da Cristo. Lo stesso Ratzinger lo descrive affermando che Cristo ha aperto lo scrigno dell’universalità dei valori di Israele ai pagani, determinando l’universalizzazione della fede e della speranza di Israele, sempre però sul fondamento delle aspirazioni della Torà, dei Salmi e dei Profeti. Sappiamo quanto il Cardinal Lustiger tenesse simultaneamente al suo essere ebreo ed al suo essere cristiano[4].
Su queste premesse il Papa trae le conseguenze che «il giusto intreccio di Antico e Nuovo Testamento era ed è un elemento costitutivo per la Chiesa»[5] e che «per il credente le disposizioni della Torah restano decisamente un punto di riferimento»[6], per concludere che «in sintesi, alla cristianità farebbe bene guardare con rispetto a questa obbedienza di Israele e così cogliere meglio i grandi imperativi del Decalogo, che essa deve tradurre nell’ambito della famiglia universale di Dio e che Gesù, come il “nuovo Mosè” ci ha donato»[7].

3. Un rapporto paradossale
Sulla base degli spunti richiamati, che debbono ovviamente essere collocati nell’ambito delle approfondite riflessioni emerse da cinquant’anni di dialogo ebraico-cristiano, splende ancor più la celebre affermazione della dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II di «promuovere e raccomandare la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo» (Nostra Aetate 4). Possiamo ringraziare il Signore dei passi compiuti in questi ultimi cinquant’anni: essi sono senza dubbio dono inestimabile della misericordia di Dio[8]. Si tratta di un cammino che, da una parte, chiude la strada ad ogni opposizione tra cristianesimo ed ebraismo ma, nello stesso tempo, costringe a stare umilmente di fronte a tutta la portata della loro differenza e urge ad intraprendere ulteriori passi.
A questo proposito mi sia permesso citare un ricordo personale. In occasione dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1985 – convocata per commemorare il 20° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II – ebbi occasione di fare una lunga intervista, che è poi diventata una brochure, con Hans Urs von Balthasar. In essa il celebre teologo svizzero affermò: «Una delle questioni più difficili alla quale forse solo Dio è in grado di rispondere correttamente è quella dello “scisma” originario dell’unico popolo di Dio (poiché non si possono dare due popoli di Dio), provocato da Cristo stesso: Lui ne è responsabile, la Chiesa non dovrebbe far finta di conoscere la soluzione e di poterlo risolvere. Noi vediamo solo dei frammenti della verità intera dai quali non sappiamo ricostruire la totalità»[9].
L’incontro e il dialogo tra ebrei e cristiani non può non partire dalla coscienza di questa “singolare ferita” il cui mistero spinge la libertà di ciascuno a riflettere in profondità sul disegno di salvezza di Dio per tutti gli uomini. L’imperativo della reciproca conoscenza proviene da qui.
Mi sembra che tale mistero si rifletta con chiarezza nello specifico rapporto che ebrei e cristiani hanno con l’Antico Testamento.
Occorre assumere con ogni serietà la «formula giovannea “la salvezza viene dai giudei” (Gv 4, 22). Questa origine mantiene vivo il suo valore nel presente... In sintesi, possiamo dire che Antico e Nuovo Testamento, Gesù e sacra Scrittura di Israele appaiono inseparabili. La nuova dinamica della sua missione, la riunione di Israele e delle nazioni, corrisponde alla dinamica profetica dello stesso Antico Testamento»[10].
A questo proposito è opportuno ricordare il richiamo di Joseph Ratzinger: «Il Nuovo Testamento non è il libro di un’altra religione, che si è appropriata delle Sacre Scritture degli Ebrei, quasi si trattasse di una sorta di preliminare tutto sommato secondario (…) il giudaismo (…) e la fede cristiana, così come è descritta nel Nuovo Testamento, sono due modi di far proprie le Sacre Scritture di Israele, che in definitiva dipendono dalla posizione assunta nei confronti della figura di Gesù di Nazaret (…) L’interpretazione ebraica possiede una sua specifica missione teologica nel tempo “dopo Cristo”»[11].
Il ruolo della Scrittura nel dialogo tra ebrei e cristiani si svolge sulla via stretta di questo fecondo crinale. La quaestio legata al superamento della cosiddetta teologia sostitutiva, che chiede di essere affrontato con grande acribia ed equilibrio, ne è acuto segno rivelatore.

4. Una risposta comune per il mondo contemporaneo
L’importanza fondamentale per questo dialogo del riferimento alle sacre Scritture è stata ribadita in innumerevoli occasioni, basterà qui citare la II Dichiarazione comune della Commissione bilaterale tra la Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo e il Gran Rabbinato dello Stato d’Israele del 3 dicembre 2003. I delegati hanno sottolineato con forza «[…] l’insegnamento fondamentale delle sacre Scritture che noi condividiamo, le quali dichiarano la fede in un unico Dio, creatore e guida dell’universo, che ha formato tutti gli uomini secondo la sua divina immagine dotati di libera volontà. Il genere umano, quindi, è una sola famiglia con responsabilità morale reciproca tra i membri. La consapevolezza di questo fatto comporta come conseguenza i doveri religiosi ed etici, che possono servire come vero documento costitutivo per i diritti e la dignità umana nel nostro mondo moderno, e la proposta di una genuina visione per una società giusta, per una pace e un benessere universali»[12].
Da queste premesse, frutto del rinnovamento conciliare e del dialogo fraterno fiorito in questi ultimi 50 anni, mi sembra possibile trarre alcuni orientamenti comuni utili per noi cristiani ed ebrei oggi.
In primo luogo, le sacre Scritture che insieme veneriamo ci chiamano tutti a una risposta di fede e di santità di vita personale e comunitaria, in una reciproca sfida per servire il Signore unico Salvatore del suo popolo. Il giogo della Torà non può essere portato da soli. Nel libro del Profeta Sofonia si parla di un servizio del Signore «sotto lo stesso giogo» (3, 9), «con una sola spalla» (shechem echad, humero uno), cioè, spalla a spalla. Coloro che accolgono la Torà possono e devono collaborare.
Inoltre queste medesime sacre Scritture costituiscono un tesoro spirituale che insieme possiamo studiare, meditare, scrutare, rimanendo fedeli alla nostre rispettive tradizioni e comunità di fede, anzi arricchendo mediante il dialogo le nostre convinzioni e le nostre comunità.
In terzo luogo, in questo ampio orizzonte di dialogo e collaborazione, le sacre Scritture ci stimolano ad aprirci all’Islam. Anche per i musulmani l’obbedienza al Dio Unico è il pilastro fondamentale che regge tutta l’esistenza del credente e della comunità (Umma). Le nostre società plurali rendono questo compito ormai improrogabile.
In quarto luogo, le sacre Scritture che condividiamo racchiudono un prezioso patrimonio di fede che insieme possiamo offrire al mondo intero, coinvolgendolo nella scoperta del Dio Unico, che chiama tutti i popoli a stringere un Patto di alleanza e di salvezza, di amore e di gioia. In questo caso il grande lavoro che possiamo compiere insieme, «con una sola spalla», è quello di rendere presente la realtà e la potenza dell’Alleanza nella storia degli uomini[13]. Solo così si potrà far risplendere il Decalogo in tutta la sua luce. La modernità, invece, si è per larga parte affermata su due successive separazioni: quella delle Tavole dall’Alleanza (da Dio), quella della seconda tavola dalla prima. Si è così pervenuti alla riduzione delle ultime cinque Parole a pure prescrizioni morali e legali. Ma anche questa fase, almeno in Occidente, si è ormai conclusa. Si riapre la possibilità di una nuova proposta cui gli uomini di tutte le religioni sono chiamati a collaborare.
Infine, un’ultima dimensione implicita nella crescente passione al dialogo fondato sulle Scritture sacre è l’attenzione verso le altre culture.
In proposito voglio concludere con un altro ricordo personale. Sempre nel 1985, anno dell’Assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi a vent’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, feci anche una lunga intervista al Cardinale Henri de Lubac. Vi si può leggere questa importante affermazione: «Se si parla di inculturazione, per i cristiani è necessario ricordare che la loro radice profonda è la storia, la civiltà e la cultura del popolo ebraico»[14].
A queste parole fa eco l’invito del Cardinale Carlo Maria Martini, il cui decisivo contributo sul ruolo delle Scritture nel dialogo tra ebrei e cristiani sarà ulteriormente messo in luce dall’importante iniziativa promossa dal Rabbino Laras “Una foresta in Galilea per Carlo Maria Martini”: «Non dimentichiamo che la conoscenza e l’amore per le tradizioni storiche e letterarie, per le feste e le celebrazioni, per il senso della vita e dei valori che la tradizione ebraica porta con sé, fa parte della nostra cultura occidentale; anzi, ne è una delle gemme preziose e anche soltanto il non conoscerla è già un attentato alle nostre origini e alla nostra storia. Ciò che è conosciuto diviene poi oggetto di attenzione, di amore, di delicato rispetto, di colloquio, di scambio. (…) È pure necessario che gli ebrei ci aiutino in un tale lavoro di conoscenza, direi di riscoperta dei tesori della loro tradizione, che ci insegnino a riconoscerli e a stimarli e ce ne facciano gustar la profondità e la sapienza di vita»[15].


[1] Lo stesso Benedetto XVI afferma: «Dio è l'autore dell'intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui “fatta”», Deus caritas est, 9.
[2] «Il peccato… come chiusura nei confronti di Dio che chiama alla comunione con Lui. In effetti, la sacra Scrittura ci mostra come il peccato dell’uomo sia essenzialmente disobbedienza e “non ascolto”» (Verbum Domini 26).
[3] J. Ratzinger- Benedetto XVI, Gesù di Nazaret I, Rizzoli, Milano 2007, 310. Sullo stesso argomento cf.: ibid., 129-156, dove l’autore riprende le considerazioni di J. Neusner, Disputa immaginaria tra un Rabbino e Gesù. Quale maestro seguire?, Piemme, Casale Monferrato 1996.
[4] J-M. Lustiger, La promesse, Parole et silence, Paris 2002.
[5] Ratzinger, Gesù di Nazaret I, 149.
[6] Ibid., 147.
[7] Ibid., 150.
[8] Nel numero 43 dell’esortazione Verbum Domini, Benedetto XVI riespone e riassume sinteticamente tutto il cammino percorso in questi cinquanta anni di dialogo ebraico-cristiano e dà suggerimenti per un nuovo slancio nelle relazioni fraterne che possiamo ancora sviluppare.
[9] H. U. von Balthasar, Vagliate ogni cosa, trattenente ciò che è buono, Lateran University Press, Roma 2002, 27.
[10] J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 13.
[11] Id., La mia vita, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 54.
[12] N. Hofmann, Un segno di grande speranza. L’avvio del dialogo fra Santa Sede e Gran Rabbinato d’Israele, in Chiesa ed Ebraismo oggi. Percorsi fatti, questioni aperte, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 2005, p. 212.
[13] A questo proposito è significativo che Benedetto XVI abbia fatto riferimento ad un’opera del Rabbino di Francia, Gilles Bernheim per descrivere la gravità dell’attentato che soffre oggi l’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio. Cf. Benedetto XVI, Udienza alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2012.
[14] H. de Lubac, Entretien autour de Vatican II, France Catholique Cerf, Paris 1985.
[15] Cfr invito Programma “due voci” 2012-2013 Fondazione San Fedele-Fondazione Maimonide, I due Re. Per una lettura del Secondo Libro di Samuele. 

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