Fondazione culturale San Fedele - Fondazione Maimonide
mercoledì 23 gennaio 2013
Milano, Aula Magna Università Cattolica del Sacro Cuore
nell’ambito dei “dialoghi a due Voci” tra ebrei e
cristiani
"Il ruolo della Scrittura nel dialogo tra ebrei e
cristiani"
Giuseppe LARAS – Angelo SCOLA
modera Gioachino Pistone
1. Anzitutto: Dio parla
La Bibbia (letteralmente “Scritture” [sacre]) è il
documento scritto del dialogo che Dio rivolge in primis a Israele e, attraverso
Gesù Cristo, estende alla Chiesa, per coinvolgere ogni uomo e l’umanità nella
sua totalità. Papa Benedetto nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum
Domini sulla sacra Scrittura nella vita della Chiesa afferma: «La novità della
rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che
desidera avere con noi. La Costituzione dogmatica Dei
Verbum aveva esposto questa realtà riconoscendo che “Dio invisibile nel suo
grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per
invitarli e ammetterli alla comunione con Sé” (DV 2)» (Verbum Domini 6).
Come si manifesta questo desiderio, questo amore di Dio?
La creazione nell’ottica della storia della salvezza risponde all’interrogativo.
Dio mediante la Sua Parola
sostiene il mondo perché dà esistenza e consistenza a tutti gli esseri e all’intero
cosmo (cf. Eb 1,3)[1].
Ed il Suo amore creatore si manifesta nella storia di elezione e nell’alleanza con
Israele, suo popolo: «La storia d'amore di Dio con Israele consiste, in
profondità, nel fatto che Egli dona la Torah, apre cioè gli occhi a Israele
sulla vera natura dell'uomo e gli indica la strada del vero umanesimo» (Deus
caritas est, 9).
Si comprende meglio questo concetto alla luce del
significato delle “Dieci parole” (cf. Es 34, 28; Dt 4, 13; 10, 4). Le Dieci
parole non possono essere separate dall’elezione e dall’Alleanza. Vengono
proferite e scritte in una circostanza storica ben definita e non possono in
alcun modo essere stralciate dall’insieme dell’azione divina entro la quale
sono state date. Non possono essere sradicate idealisticamente,
moralisticamente o spiritualisticamente dalla storia santa. Senza il legame di
appartenenza reciproca a Dio e alla famiglia umana non potrebbero efficacemente
essere ripresentate quale canone morale universale. La sostanza delle “Dieci
Parole” è l’Alleanza. Ognuna di esse possiede un significato storico e
comunionale che ricomprende quello creazionale. La decisione del popolo «faremo»
e «ascolteremo» (Es 24, 7) ha sempre come movente Dio che ha liberato, ha
donato la libertà, ha posto il quadro di riferimento e conferisce la forza necessaria
per il cammino. Il fine di ogni «fare» ed «ascoltare» è la relazione con Lui, è
Lui stesso.
2. L’obbedienza della fede
La risposta dell’uomo al Dio che parla è la fede: «In ciò
si evidenzia che “per accogliere la Rivelazione, l’uomo deve aprire la mente e
il cuore all’azione dello Spirito Santo che gli fa capire la Parola di Dio
presente nelle sacre Scritture”» (Verbum Domini 25). Si comprende allora perché,
sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, il peccato sia spesso descritto come
un “non ascoltare” Dio che parla[2].
Il legame tra la precedenza di Dio e l’obbedienza della
fede è fondamentale se vogliamo comprendere la gioia di Israele davanti al dono
divino della Torah. Dice in proposito Joseph Ratzinger: «L’altro dono di Mosè… è
la Torah – la parola di Dio che indica la via e conduce alla vita… Il grande
Salmo 119 è tutta un’esplosione di gioia e di gratitudine per questo dono. Una
visione unilaterale della Legge, derivata da un’esegesi unilaterale della
teologia paolina, ci impedisce di vedere questa gioia di Israele: la gioia di
conoscere la volontà di Dio e così essere in grado e avere il privilegio di
vivere questa volontà»[3].
Proprio alla luce di queste considerazioni si può capire
meglio il “novum” portato da Cristo. Lo stesso Ratzinger lo descrive affermando
che Cristo ha aperto lo scrigno dell’universalità dei valori di Israele ai
pagani, determinando l’universalizzazione della fede e della speranza di
Israele, sempre però sul fondamento delle aspirazioni della Torà, dei Salmi e
dei Profeti. Sappiamo quanto il Cardinal Lustiger tenesse simultaneamente al
suo essere ebreo ed al suo essere cristiano[4].
Su queste premesse il Papa trae le conseguenze che «il
giusto intreccio di Antico e Nuovo Testamento era ed è un elemento costitutivo
per la Chiesa»[5]
e che «per il credente le disposizioni della Torah restano decisamente un punto
di riferimento»[6],
per concludere che «in sintesi, alla cristianità farebbe bene guardare con
rispetto a questa obbedienza di Israele e così cogliere meglio i grandi
imperativi del Decalogo, che essa deve tradurre nell’ambito della famiglia
universale di Dio e che Gesù, come il “nuovo Mosè” ci ha donato»[7].
3. Un rapporto paradossale
Sulla base degli spunti richiamati, che debbono
ovviamente essere collocati nell’ambito delle approfondite riflessioni emerse
da cinquant’anni di dialogo ebraico-cristiano, splende ancor più la celebre
affermazione della dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II di «promuovere
e raccomandare la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli
studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo» (Nostra Aetate 4). Possiamo
ringraziare il Signore dei passi compiuti in questi ultimi cinquant’anni: essi
sono senza dubbio dono inestimabile della misericordia di Dio[8]. Si tratta di un cammino
che, da una parte, chiude la strada ad ogni opposizione tra cristianesimo ed
ebraismo ma, nello stesso tempo, costringe a stare umilmente di fronte a tutta
la portata della loro differenza e urge ad intraprendere ulteriori passi.
A questo proposito mi sia permesso citare un ricordo
personale. In occasione dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi del
1985 – convocata per commemorare il 20° anniversario della chiusura del
Concilio Vaticano II – ebbi occasione di fare una lunga intervista, che è poi
diventata una brochure, con Hans Urs von Balthasar. In essa il celebre teologo
svizzero affermò: «Una delle questioni più difficili alla quale forse solo Dio
è in grado di rispondere correttamente è quella dello “scisma” originario
dell’unico popolo di Dio (poiché non si possono dare due popoli di Dio),
provocato da Cristo stesso: Lui ne è responsabile, la Chiesa non dovrebbe far
finta di conoscere la soluzione e di poterlo risolvere. Noi vediamo solo dei
frammenti della verità intera dai quali non sappiamo ricostruire la totalità»[9].
L’incontro e il dialogo tra ebrei e cristiani non può non
partire dalla coscienza di questa “singolare ferita” il cui mistero spinge la
libertà di ciascuno a riflettere in profondità sul disegno di salvezza di Dio
per tutti gli uomini. L’imperativo della reciproca conoscenza proviene da qui.
Mi sembra che tale mistero si rifletta con chiarezza nello
specifico rapporto che ebrei e cristiani hanno con l’Antico Testamento.
Occorre assumere con ogni serietà la «formula giovannea
“la salvezza viene dai giudei” (Gv 4, 22). Questa origine mantiene vivo il suo
valore nel presente... In sintesi, possiamo dire che Antico e Nuovo Testamento,
Gesù e sacra Scrittura di Israele appaiono inseparabili. La nuova dinamica
della sua missione, la riunione di Israele e delle nazioni, corrisponde alla
dinamica profetica dello stesso Antico Testamento»[10].
A questo proposito è opportuno ricordare il richiamo di
Joseph Ratzinger: «Il Nuovo Testamento non è il libro di un’altra religione,
che si è appropriata delle Sacre Scritture degli Ebrei, quasi si trattasse di
una sorta di preliminare tutto sommato secondario (…) il giudaismo (…) e la fede
cristiana, così come è descritta nel Nuovo Testamento, sono due modi di far
proprie le Sacre Scritture di Israele, che in definitiva dipendono dalla
posizione assunta nei confronti della figura di Gesù di Nazaret (…)
L’interpretazione ebraica possiede una sua specifica missione teologica nel
tempo “dopo Cristo”»[11].
Il ruolo della Scrittura nel dialogo tra ebrei e
cristiani si svolge sulla via stretta di questo fecondo crinale. La quaestio
legata al superamento della cosiddetta teologia sostitutiva, che chiede di
essere affrontato con grande acribia ed equilibrio, ne è acuto segno
rivelatore.
4. Una risposta comune per il mondo contemporaneo
L’importanza fondamentale per questo dialogo del riferimento
alle sacre Scritture è stata ribadita in innumerevoli occasioni, basterà qui citare
la II Dichiarazione
comune della Commissione bilaterale tra la Commissione della Santa Sede per i
rapporti religiosi con l’ebraismo e il Gran Rabbinato dello Stato d’Israele del
3 dicembre 2003. I delegati hanno sottolineato con forza «[…] l’insegnamento
fondamentale delle sacre Scritture che noi condividiamo, le quali dichiarano la
fede in un unico Dio, creatore e guida dell’universo, che ha formato tutti gli
uomini secondo la sua divina immagine dotati di libera volontà. Il genere
umano, quindi, è una sola famiglia con responsabilità morale reciproca tra i
membri. La consapevolezza di questo fatto comporta come conseguenza i doveri
religiosi ed etici, che possono servire come vero documento costitutivo per i
diritti e la dignità umana nel nostro mondo moderno, e la proposta di una
genuina visione per una società giusta, per una pace e un benessere universali»[12].
Da queste premesse, frutto del rinnovamento conciliare e
del dialogo fraterno fiorito in questi ultimi 50 anni, mi sembra possibile
trarre alcuni orientamenti comuni utili per noi cristiani ed ebrei oggi.
In primo luogo, le sacre Scritture che insieme veneriamo
ci chiamano tutti a una risposta di fede e di santità di vita personale e
comunitaria, in una reciproca sfida per servire il Signore unico Salvatore del
suo popolo. Il giogo della Torà non può essere portato da soli. Nel libro del
Profeta Sofonia si parla di un servizio del Signore «sotto lo stesso giogo» (3,
9), «con una sola spalla» (shechem echad, humero uno), cioè, spalla a spalla.
Coloro che accolgono la Torà possono e devono collaborare.
Inoltre queste medesime sacre Scritture costituiscono un
tesoro spirituale che insieme possiamo studiare, meditare, scrutare, rimanendo
fedeli alla nostre rispettive tradizioni e comunità di fede, anzi arricchendo
mediante il dialogo le nostre convinzioni e le nostre comunità.
In terzo luogo, in questo ampio orizzonte di dialogo e
collaborazione, le sacre Scritture ci stimolano ad aprirci all’Islam. Anche per
i musulmani l’obbedienza al Dio Unico è il pilastro fondamentale che regge
tutta l’esistenza del credente e della comunità (Umma). Le nostre società
plurali rendono questo compito ormai improrogabile.
In quarto luogo, le sacre Scritture che condividiamo racchiudono
un prezioso patrimonio di fede che insieme possiamo offrire al mondo intero, coinvolgendolo
nella scoperta del Dio Unico, che chiama tutti i popoli a stringere un Patto di
alleanza e di salvezza, di amore e di gioia. In questo caso il grande lavoro
che possiamo compiere insieme, «con una sola spalla», è quello di rendere presente
la realtà e la potenza dell’Alleanza nella storia degli uomini[13]. Solo così si potrà far
risplendere il Decalogo in tutta la sua luce. La modernità, invece, si è per
larga parte affermata su due successive separazioni: quella delle Tavole
dall’Alleanza (da Dio), quella della seconda tavola dalla prima. Si è così
pervenuti alla riduzione delle ultime cinque Parole a pure prescrizioni morali
e legali. Ma anche questa fase, almeno in Occidente, si è ormai conclusa. Si
riapre la possibilità di una nuova proposta cui gli uomini di tutte le
religioni sono chiamati a collaborare.
Infine, un’ultima dimensione implicita nella crescente
passione al dialogo fondato sulle Scritture sacre è l’attenzione verso le altre
culture.
In proposito voglio concludere con un altro ricordo
personale. Sempre nel 1985, anno dell’Assemblea straordinaria del Sinodo dei
Vescovi a vent’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, feci anche una
lunga intervista al Cardinale Henri de Lubac. Vi si può leggere questa
importante affermazione: «Se si parla di inculturazione, per i cristiani è
necessario ricordare che la loro radice profonda è la storia, la civiltà e la
cultura del popolo ebraico»[14].
A queste parole fa eco l’invito del Cardinale Carlo Maria Martini ,
il cui decisivo contributo sul ruolo delle Scritture nel dialogo tra ebrei e
cristiani sarà ulteriormente messo in luce dall’importante iniziativa promossa
dal Rabbino Laras “Una foresta in Galilea per Carlo Maria Martini ”:
«Non dimentichiamo che la conoscenza e l’amore per le tradizioni storiche e
letterarie, per le feste e le celebrazioni, per il senso della vita e dei
valori che la tradizione ebraica porta con sé, fa parte della nostra cultura
occidentale; anzi, ne è una delle gemme preziose e anche soltanto il non
conoscerla è già un attentato alle nostre origini e alla nostra storia. Ciò che
è conosciuto diviene poi oggetto di attenzione, di amore, di delicato rispetto,
di colloquio, di scambio. (…) È pure necessario che gli ebrei ci aiutino in un
tale lavoro di conoscenza, direi di riscoperta dei tesori della loro
tradizione, che ci insegnino a riconoscerli e a stimarli e ce ne facciano
gustar la profondità e la sapienza di vita»[15].
[1] Lo stesso
Benedetto XVI afferma: «Dio è l'autore
dell'intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò
significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è
stata voluta, da Lui “fatta”», Deus
caritas est, 9.
[2] «Il peccato… come chiusura nei confronti di
Dio che chiama alla comunione con Lui. In effetti, la sacra Scrittura ci
mostra come il peccato dell’uomo sia essenzialmente disobbedienza e “non
ascolto”» (Verbum Domini 26).
[3] J. Ratzinger- Benedetto XVI, Gesù di Nazaret I, Rizzoli, Milano 2007, 310. Sullo stesso
argomento cf.: ibid., 129-156, dove l’autore riprende le considerazioni di J. Neusner, Disputa immaginaria tra un
Rabbino e Gesù. Quale maestro seguire?, Piemme, Casale Monferrato 1996.
[4] J-M.
Lustiger, La promesse, Parole
et silence, Paris 2002.
[5] Ratzinger,
Gesù di Nazaret I, 149.
[6] Ibid., 147.
[7] Ibid., 150.
[8] Nel numero 43 dell’esortazione Verbum Domini, Benedetto XVI riespone e
riassume sinteticamente tutto il cammino percorso in questi cinquanta anni di
dialogo ebraico-cristiano e dà suggerimenti per un nuovo slancio nelle
relazioni fraterne che possiamo ancora sviluppare.
[9] H. U. von Balthasar, Vagliate ogni cosa, trattenente ciò che è
buono, Lateran University Press, Roma 2002, 27.
[10] J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo,
San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 13.
[11] Id.,
La mia vita, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 54.
[12] N.
Hofmann, Un segno di grande speranza. L’avvio del dialogo fra Santa
Sede e Gran Rabbinato d’Israele, in Chiesa ed Ebraismo oggi. Percorsi
fatti, questioni aperte, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 2005, p.
212.
[13] A questo proposito è
significativo che Benedetto XVI abbia fatto riferimento ad un’opera del Rabbino
di Francia, Gilles Bernheim per descrivere la gravità dell’attentato che soffre
oggi l’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio. Cf.
Benedetto XVI, Udienza alla Curia Romana in occasione della
presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2012.
[14] H. de Lubac,
Entretien autour de Vatican II,
France Catholique Cerf, Paris 1985.
[15] Cfr invito Programma “due voci” 2012-2013 Fondazione San Fedele-Fondazione
Maimonide, I due Re. Per una lettura del Secondo
Libro di Samuele.
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