giovedì 31 gennaio 2013

IL FRATE TEDESCO CHE SALVÒ GLI EBREI NELL'ABBAZIA DELLE TRE FONTANE


Pochi conoscono la lapide raffigurante Maria e Gesù con cui le famiglie ebree di Sonnino e Di Porto ringraziarono l'opera di assistenza dei Trappisti.

Martedì 8 ottobre 2002 l'ambasciata di Israele ha consegnato la medaglia dei Giusti tra le Nazioni all’abate Maria Leone Ehrhard, di nobile lignaggio, nato nel 1866 a Turckheim, piccolo paese dell’Alsazia nella Diocesi di Strasburgo.

Ehrhard svolse il servizio militare nelle truppe germaniche perché in quel periodo l’Alsazia era sotto dominazione tedesca. Entrò nel noviziato dei frati trappisti il 7 maggio del 1891.

Nel febbraio del 1893 fu inviato all’abbazia delle Tre Fontane, dove fu ordinato sacerdote nel 1894. Nel 1900 dopo aver svolto per sei anni maestro dei fratelli conversi, divenne Priore dell’Abbazia delle Tre Fontane.

Negli anni terribili della seconda guerra mondiale e dell'occupazione nazista di Roma, l'abbazia divenne un rifugio per ebrei, oppositori del regime e tanti altri che aspettavano l'arrivo degli Alleati.

Dopo la barbara razzia avvenuta nel ghetto di Roma il 16 ottobre 1943, il Priore e gli altri frati accolsero con coscienza e partecipazione quelle persone che rischiavano di essere prese e uccise dalle truppe nazifasciste.

Alla fine della guerra gli ebrei scampati alla persecuzione per propria iniziativa regalarono all'abbazia un bassorilievo in marmo rappresentante una Madonna con Bambino e la scritta Emanuel. Il bassorilievo è tuttora collocato nell'arco di ingresso denominato di Carlo Magno.

A memoria di quanto accadde sul lato sinistro dello stesso arco, frati d'accordo con le famiglie Sonnino e Di Porto, fecero collocare una lapide in cui è scritto: J. Sonnino e A.S.A. Di Porto persecutionem nazistam in iudeos dire saevientem fugientes hic deipara favente sospites beneficii memores posuere A.D. MXMXLVI (tradotto in italiano: "J. Sonnino e Angelo, Settimo e Alberto Di Porto mentre fuggivano la crudele persecuzione nazista degli ebrei, furono salvati per intervento della Madre di Dio in questo luogo. Memori di questo beneficio hanno posto questa lapide").

Da una ricerca sulla storia dell’abbazia delle Tre Fontane, condotta da padre Alfoso Barbiero, risulta che "tra i rifugiati cerano parecchi ebrei capitati in Abbazia dopo le prime retate che i tedeschi avevano fatto in città e s'erano infilati alla spicciolata nelle camerette mischiandosi agli operai avventizi".

Racconta sempre don Alfonso, tra gli ebrei nascosti Giuseppe Sonnino, Alberto e Fortunata Spizzichino, Angelo Settimio Alberto di Porto ed alcuni appartenenti alla famiglia Benigno.

Il rifugio fu trovato da Giuseppe Sonnino il quale intratteneva prima della guerra contatti commerciali con l’abbazia fornendo loro i sacchi (Saccheria Sonnino) necessari a contenere i prodotti agricoli venduti sul mercato.

I suddetti entrarono nell’abbazia. Circa dieci giorni dopo il 16 ottobre 1943. Furono accolti dai Frati che li ospitarono facendoli passare per sfollati di Napoli, fuggiti davanti all’avanzata americana che si dirigeva da Sud verso Roma.

L’anonimato era necessario in quanto nell'abbazia erano presenti militari appartenenti alla polizia militare tedesca posti nella tenuta per sorveglianza. Giuseppe Sonnino lavorava nella preparazione del vino, mentre Angelo e Alberto lavoravano nella tenuta come contadini.

Un giorno due militari tedeschi di passaggio tentarono di impossessarsi di una mucca, ma Angelo corse ad avvertire il Priore (di origine tedesca), il quale fece arrestare i due ladri dalle guardie militari che stazionavano nella tenuta.

L'economo dell'Abbazia era Padre Bernardino. Oltre tale nome sono ricordati Frate Alberto ed il fattore Bartolomeo.

Tutte le persone rifugiate sia coloro che si fermarono sino alla Liberazione, sia altri che furono di passaggio per pochi giorni furono accolti fraternamente dai frati e dal Priore, i quali offrirono loro rifugio e vitto senza mai chiedere in cambio alcunché. A riprova della riconoscenza, le persone sopra elencate alla Liberazione regalarono all'abbazia un bassorilievo in marmo rappresentante una Madonna con bambino che è ancora visibile sull'architrave del portale interno.

Antonio Gaspari
ROMA, Sunday, 27 January 2013 (Zenit.org).


mercoledì 30 gennaio 2013

San Francesco Saverio Maria Bianchi


Pridie Kalendas Februarii. Luna duodeuicesima. Neapoli in Campania, sancti Francisci Xaverii Mariae Bianchi, confessoris, Clerici Regularis sancti Pauli, signis, donis caelestibus et admirabili patientia illustris, quem Pius Papa Duodecimus ad supremos honores Sanctorum extulit.


Papa Pio XII difensore degli Ebrei


Nella ricorrenza del Giorno della Memoria, suor Margherita Marchione, amica di Sua Santità Benedetto XVI e di S.Em. Cardinal Tarcisio Bertone, con la sua "Lettera ai Romani" invita a pregare per la Beatificazione di Papa Pio XII e a ricordare tutti gli Ebrei che grazie a Papa Pacelli furono salvati trovando rifugio in Vaticano, nei Conventi e negli Istituti Religiosi, durante l’occupazione nazista.

Secondo l’elenco redatto dallo storico Renzo De Felice, furono circa 4.447 gli ebrei salvati, tanto che subito dopo la guerra il Comune di Roma riunito in consiglio straordinario conferì a Papa Pio XII il titolo di "Defensor Civitatis", come recita la lapide affissa sulla piazza antistante il colonnato di San Pietro a lui dedicata.

Grazie al viaggio di suor Margherita Marchione a Gerusalemme, il direttore del Museo dell’Olocausto a Yad Vashem ha di recente corretto la scritta sotto l’immagine di Papa Pio XII, un grande passo in avanti nella riconciliazione tra ebrei e cristiani.

Suor Margherita – Cavaliere del Presidente della Repubblica Italiana – è stata inoltre recentemente ricevuta in Campidoglio dal Sindaco On. Gianni Alemanno, al quale ha donato il suo libro "Pio XII tra cronaca e agiografia", edito dalla Libreria Editrice Vaticana, con prefazione cura del Sen. Giulio Andreotti, in cui elenca le famiglie salvate dal Papa.

In occasione della Giornata Mondiale di oggi, la religiosa esorta inoltre i cittadini di Roma a onorare Pio XII con l’istituzione di un Museo della Memoria e a restaurare il monumento di Pio XII di fronte alla Basilica di San Lorenzo, opera dello scultore Maestro Antonio Berti che fu realizzata con una raccolta di fondi dei lettori del quotidiano Il Tempo.

ROMA, Sunday, 27 January 2013 (Zenit.org).




martedì 29 gennaio 2013

La preghiera di papa Benedetto XVI per le oltre 200 vittime del rogo nella discoteca di Santa Maria in Brasile


Il Papa si dice “sgomento” per l’incendio in Brasile che, ieri, ha ucciso 232 giovani in una discoteca di Santa Maria, nel sud del Paese. In un telegramma, a firma del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, Benedetto XVI prega per le vittime e i familiari colpiti dalla tragedia.

Il Papa prega per le vittime e si stringe a quanti sono stati colpiti dall’incendio che ieri ha devastato una discoteca della città universitaria di Santa Maria, nello Stato di Rio Grande do Sul, in Brasile. Un rogo che ha ucciso 232 ragazzi, oltre 130 i feriti, molti in terapia intensiva. Benedetto XVI si dice “sgomento”, nel telegramma inviato a mons Hélio Adelar Ruper, arcivescovo della città, invoca “il conforto” nel dolore, il “coraggio” e la “speranza” ed auspica un “rapido recupero” dei feriti e affida tutti alla “misericordia di Dio Padre”. Il Paese intanto è attonito e cerca risposte per una tragedia che forse poteva essere evitata. All’origine dell’incendio sembra ci sia stata l’accensione sul palco, di un bengala da parte di uno dei componenti di una band durante un'esibizione. Le scintille avrebbero appiccato il fuoco al tetto di polistirolo che faceva da isolante acustico al locale. Anche i vescovi brasiliani hanno espresso “vicinanza spirituale e solidarietà” a tutti coloro che sono stati colpiti dalla tragedia. Mons. Hélio Adelar Ruper, arcivescovo della città di Santa Maria, parla di un dramma che "non deve far perdere la speranza". Ascoltiamolo al microfono di Cristiane Murray:

"Io credo che la parola giusta, in questo momento, debba essere: speranza. 
C’è stata una tragedia, un dolore infinito per tutta la società, però Gesù Cristo rimane sempre la nostra speranza. In questo momento, dobbiamo guardare a Lui, guardare anche Maria e guardare in alto; la nostra vita non è definitiva qui su questa terra, la patria definitiva è il cielo. Dobbiamo preparaci tutti per quel momento: è il momento di non giudicare nessuno, è il momento di rinnovare la speranza e l’amore fraterno, perché dopo questa vita è l’unica cosa che rimane. Allora, bisogna vivere bene la fede, la speranza e tradurre tutto questo in un’azione di carità, di bontà, di amore verso Dio e verso il prossimo. Per noi è una chiamata di Dio per rinnovare la fede. Siamo nell’Anno della Fede e prossimi alla Giornata Mondiale della Gioventù, a Rio de Janeiro, a luglio. Dio ci sostiene con una parola molto forte, in questo momento della nostra storia".

A Santa Maria decretati 30 giorni di lutto. Una commossa presidente del Brasile, Dilma Rousseff, dopo aver incontrato alcuni famigliari delle vittime, ha chiesto al Paese di restare unito. E mentre si è aperta un’inchiesta per far luce sulla vicenda. Ieri migliaia di giovani si sono ritrovati a Rio de Janeiro, dove a fine luglio si terrà la prossima Gmg, per una Santa Messa in suffragio delle vittime, presieduta dall’arcivescovo di Rio e presidente del Comitato organizzatore locale della Gmg, mons. Orani João Tempesta.

Massimiliano Menichetti,radio vaticana
28 gennaio 2013


lunedì 28 gennaio 2013

San Tommaso d'Aquino


Optavi, et datus est mihi sensus; et invocavi, et venit in me spiritus sapientiae. Et praeposui illam regnis et sedibus, et divitias nihil esse duxi in comparatione illius. [Sap 7]

Chi può spiegare il mistero della carità divina? Dalla «Lettera ai Corinzi» di san Clemente I, papa


Colui che possiede la carità in Cristo mette in pratica i comandamenti di Cristo. Chi è capace di svelare l'infinito amore di Dio? Chi può esprimere la magnificenza della sua bellezza? L'altezza a cui conduce la carità, non si può dire a parole.

La carità ci congiunge intimamente a Dio, «la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pt 4, 8), la carità tutto sopporta, tutto prende in santa pace. Nulla di volgare nella carità, nulla di superbo. La carità non suscita scismi, la carità opera tutto nella concordia. Nella carità tutti gli eletti di Dio sono perfetti, mentre senza la carità niente è gradito a Dio.

Con la carità Dio ci ha attirati a sé. Per la carità che ebbe verso di noi il Signore nostro Gesù Cristo, secondo il divino volere, ha versato per noi il suo sangue e ha dato la sua carne per la nostra carne, la sua vita per la nostra vita.

Vedete, o carissimi, quanto è grande e meravigliosa la carità e come non si possa esprimere adeguatamente la sua perfezione. Chi è meritevole di trovarsi in essa, se non coloro che Dio ha voluto rendere degni? Preghiamo dunque e chiediamo dalla sua misericordia di essere trovati nella carità, liberi da ogni spirito di parte, irreprensibili.

Tutte le generazioni da Adamo fino al presente sono passate; coloro invece che per grazia di Dio sono trovati perfetti nella carità, restano, ottengono la dimora riservata ai buoni e saranno manifestati al sopraggiungere del regno di Cristo. Sta scritto infatti: Entrate nelle vostre stanze per un momento anche brevissimo fino a che non sia passata la mia ira e il mio furore. Allora mi ricorderò del giorno favorevole e vi farò sorgere dai vostri sepolcri (cfr. Is 26, 20; Ez 37, 12).

Beati noi, o carissimi, se praticheremo i comandamenti del Signore nella concordia della carità, perché per mezzo della carità ci siano rimessi i nostri peccati. E' scritto infatti: Beati coloro ai quali sono state rimesse le colpe e perdonata ogni iniquità. Beato l'uomo a cui Dio non imputa alcun male e sulla cui bocca non c'è inganno (cfr. Sal 31, 1). Questa proclamazione di beatitudine riguarda coloro che Dio ha eletto per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.



domenica 27 gennaio 2013

"Animali Amici Miei" di Edgar Kupfer-Koberwitz


“Caro amico,
mi chiedi perché non mangio carne e ti domandi per quale ragione mi comporto così. Forse pensi che ho fatto un voto o una penitenza che mi priva di tutti i piaceri gloriosi del mangiar carne.
Pensi a bistecche gustose, pesci saporiti, prosciutti profumati salse e mille altre meraviglie che deliziano gli umani palati; certamente ricordi la delicatezza del pollo arrostito. Vedi, io rifiuto tutti questi piaceri e tu pensi che solamente una penitenza, o un voto solenne, o un grande sacrificio possa indurmi a negare questo modo di godere la vita e che mi costringa ad una rinuncia.
Sei sorpreso, chiedi: - Ma perché e per quale motivo? Te lo chiedi con intensa curiosità e pensi di poter indovinare la risposta. Ma se io ora cerco di spiegarti la vera ragione in una frase concisa, tu rimarrai nuovamente sorpreso vedendo quanto sei lontano dal vero motivo. Ascolta: io rifiuto di mangiare animali perché non posso nutrirmi con la sofferenza e con la morte di altre creature. Rifiuto di farlo perché ho sofferto tanto dolorosamente che le sofferenze degli altri mi riportano alle mie stesse sofferenze.
So che cos'è la felicità e so che cos'è la persecuzione. Se nessuno mi perseguita, perché dovrei perseguitare altri esseri o far si che vengano perseguitati? So che cos'è la libertà e so che cos'è la prigionia. So che cos'è la protezione e che cos'è la sofferenza.
So che cos'è il rispetto e so che cos'è uccidere. Se nessuno mi fa del male, perché dovrei fare del male ad altre creature o permettere che facciano loro del male?
Se nessuno vuole uccidermi, perché dovrei uccidere altre creature o permettere che vengano ferite o uccise per il mio piacere o per convenienza? Non è naturale che io non infligga ad altre creature ciò che io spero non venga inflitto a me? Non sarebbe estremamente ingiusto fare questo per il motivo di un piacere fisico a spese della sofferenza altrui e dell'altrui morte?
Queste creature sono più piccole e più indifese di me, ma puoi tu immaginare un uomo ragionevole con nobili sentimenti che volesse basare su questa sofferenza la rivendicazione o il diritto di abusare del più debole e del più piccolo? Non credi che sia proprio il dovere del più grande, del più forte, del superiore di proteggere le creature più deboli invece di perseguitarle e di ucciderle? Noblesse oblige. Ed io voglio comportarmi nobilmente.
Ricordo l'epoca orribile dell'inquisizione e mi dispiace dire che il tempo dei tribunali per gli eretici non è passato, che giorno per giorno gli uomini cucinano in acque bollenti altre creature che sono state date impotenti nelle mani dei loro carnefici. Sono inorridito dall'idea che uomini simili sono civili, non rudi barbari, non dei primitivi. Ma nonostante tutto essi sono soltanto primitivamente civilizzati, primitivamente adagiati nel loro ambiente culturale.

Sproloquiando, sorridendo, proponendo grandi idee e facendo bei discorsi, l'europeo medio commette ogni sorta di crudeltà e non perché sia costretto, ma perché vuole fare ciò. Non perché manchi della facoltà di riflettere e di rendersi conto delle orribili cose che sta facendo.
Oh no! Soltanto non vuole vedere i fatti, altrimenti ne sarebbe infastidito e disturbato nei suoi piaceri, so che la gente considera certi atti connessi al macellare come inevitabili. Ma c’è realmente questa necessità? La tesi può essere contestata.
Forse esiste un genere di necessità per le persone che non hanno sviluppato ancora una piena e conscia personalità. Io non faccio loro delle prediche, scrivo a te questa lettera, ad un individuo responsabile che controlla razionalmente i suoi impulsi, che si sente conscio - internamente ed esteriormente - dei suoi atti, che sa che la nostra Corte Suprema è nella nostra coscienza e che non vi è ricorso in appello.

E’ necessario che un uomo responsabile sia indotto a macellare? In caso affermativo, ogni individuo dovrebbe avere il coraggio di farlo con le sue stesse mani. È un genere miserabile di codardia quello di pagare altra gente per fare questo lavoro macchiato di sangue dal quale l'uomo normale si ritrae inorridito e sgomento.
Questa gente é pagata per questo lavoro e gli altri acquistano da loro le parti desiderate dell'animale ucciso possibilmente preparato in modo da non ricordare l'animale, il fatto che è stato ucciso.
Io penso che gli uomini saranno uccisi e torturati fino a quando gli animali saranno uccisi e torturati e che fino allora ci saranno guerre, poiché l'addestramento e il perfezionamento dell'uccidere deve essere fatto moralmente e tecnicamente su esseri piccoli. Penso che ci saranno prigioni finché gli animali saranno tenuti in gabbia. Poiché per tenere in gabbia i prigionieri bisogna addestrarsi e perfezionarsi moralmente e tecnicamente su piccoli esseri.
Non vedo alcuna ragione di sentirci oltraggiati per i grandi e per i piccoli atti di violenza e crudeltà commessi dagli altri.
Ma penso che sia arrivato il momento di sentirci oltraggiati dai grandi e piccoli atti di violenza e crudeltà che noi stessi commettiamo. Ed essendo molto più facile vincere le piccole battaglie, penso che dovremmo cercare di spezzare prima i nostri legami con le piccole violenze e crudeltà per superarle una volta per sempre.

Poi verrà il giorno che sarà facile per noi combattere anche le crudeltà più grandi.
Ma noi tutti siamo addormentati in abitudini e attitudini ereditate, che ci aiutano ad ingoiare le nostre crudeltà senza sentirne l'amaro. Non ho alcuna intenzione di accusare persone o situazioni. Ma penso che sia mio dovere stimolare la mia coscienza nelle piccole cose, migliorare me stesso ed essere meno egoista, per essere poi in grado di agire in coerenza nei problemi più importanti.

Il punto è questo: io voglio vivere in un mondo migliore dove una più alta legge conceda più felicità a tutti."

Edgar Kupfer-Koberwitz


Per approfondimenti:


Traduzione di una lettera di Edgar Kupfer-Koberwitz che nel campo di concentramento di Dachau passò tra crudeltà di ogni genere, mentre la morte ghermiva i prigionieri del campo giorno dopo giorno.





sabato 26 gennaio 2013

Papa Giovanni XXIII benedì gli ebrei, fu un gesto rivoluzionario


Il Papa fa fermare sul Lungotevere il corteo pontificio per benedire gli ebrei che, di sabato, escono dalla Sinagoga. È il 1959 e quel pontefice è Giovanni XXIII. Dopo 54 anni, quell'episodio non è mai stato dimenticato. Lo avevano già ricordato Giovanni Paolo II e il rabbino Elio Toaff. «Il primo segnale rivoluzionario verso gli ebrei prima ancora che il Concilio», così si espresse il Papa polacco. «Un gesto che gli valse l'entusiasmo di tutti i presenti che circondarono la sua vettura per applaudirlo e salutarlo», scrisse nella sua autobiografia Toaff. «Fu un gesto di grande simbolismo», chiosa oggi il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.

Quale pensiero le suscita l'immagine del Papa fermo sull'auto che benedice gli ebrei davanti alla Sinagoga?
«Bisogna ricordare l'atmosfera di quei tempi, il muro di gelo fra cattolici ed ebrei. Si trattò di un gesto simbolico semplice, ma di grande significato. Un segnale che si voleva abbattere ogni barriera, mostrando un atteggiamento di simpatia che fino a quel momento non c'era stato. È stato vissuto come l'inizio di un cambiamento di clima. Anche se il gesto della benedizione non era un modo paritario di creare un rapporto fra i due mondi. Ma è stato un gesto di attenzione».

Attenzione che Roncalli ebbe verso gli ebrei anche negli anni trascorsi in Oriente e come Nunzio a Parigi…
«In effetti ho letto di alcuni episodi che lo hanno visto adoperarsi per aiutare gli ebrei. So anche di famiglie che vennero a ringraziarlo in Francia».

La Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg ha documentato l'aiuto offerto da mons. Roncalli agli ebrei perseguitati durante l'Olocausto e ha consegnato i dati della sua indagine allo Yad Vashem, con «ferma raccomandazione che questa prestigiosa entità conferisca il titolo di Giusto tra le Nazioni ad Angelo Giuseppe Roncalli». Lei cosa ne pensa?
«Ci sono regole e procedure particolari che devono essere seguite per attribuire il titolo di Giusto. Normalmente questo titolo viene dato a chi ha fornito aiuti a rischio della propria vita. Non so se questo sia accaduto nel caso di mons. Roncalli. Si badi bene, con questo non intendo in alcun modo sminuire l'aiuto del nunzio che è ampiamente documentato e del quale si parla in numerose pubblicazioni. L'intervento di Roncalli c'è stato. Piuttosto andrà studiato l'esatto ruolo del futuro Giovanni XXIII quand'era in Francia. Sappiamo pure che come nunzio doveva eseguire ordini di Roma e non erano ordini simpatici, a proposito dei bambini ebrei nascosti nei conventi francesi di cui le organizzazioni ebraiche chiedevano la restituzione».

Torniamo al pontificato di Roncalli. Con il Concilio si ebbero passi avanti nel rapporto con gli ebrei.
«Certamente Giovanni XXIII con la promulgazione del Concilio e con una commissione ad hoc diede una spinta propulsiva, ma va ricordato anche che fu Paolo VI a promulgare la Dichiarazione Nostra Aetate che deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo da chiunque, come si legge appunto nel decreto».

Da Roncalli a Ratzinger. Lei ha detto che i rapporti con Benedetto XVI sono quelli di buon vicinato…
«L'ultima volta l'ho incontrato durante la visita ufficiale alle Fosse Ardeatine. Dal suo punto di vista, secondo il suo temperamento e il suo carattere – quello sostanzialmente di studioso – Papa Ratzinger ha sempre mostrato estremo interesse rispetto alla ricchezza del patrimonio culturale e spirituale ebraico. Numerosi sono i suoi messaggi di attenzione. È un uomo dotto che apprezza la ricchezza della nostra tradizione».

Era stato così anche con Giovanni Paolo II?
«Ogni Papa ha avuto un suo ruolo. Wojtyla ha portato avanti le aperture di Roncalli».

Ratzinger definisce gli ebrei «Padri nella fede», Wojtyla i «nostri fratelli maggiori». Un'espressione quella del Papa polacco che non tutti gli ebrei condividono.
«Bisogna fare dei distinguo e non alimentare animosità. L'espressione "fratello maggiore", come ha detto anche Benedetto XVI nella tradizione ebraica è anche il fratello perdente. Tuttavia credo che come espressione comune, dell'uomo della strada sia positiva. Esprime qualcosa di importante. Del resto noi - posso ben dire - siamo più antichi».

Emanuele Roncalli


venerdì 25 gennaio 2013

Il ruolo della Scrittura nel dialogo tra ebrei e cristiani

Fondazione culturale San Fedele - Fondazione Maimonide

mercoledì 23 gennaio 2013
Milano, Aula Magna Università Cattolica del Sacro Cuore

nell’ambito dei “dialoghi a due Voci” tra ebrei e cristiani

"Il ruolo della Scrittura nel dialogo tra ebrei e cristiani"

Giuseppe LARAS – Angelo SCOLA
modera Gioachino Pistone

1. Anzitutto: Dio parla
La Bibbia (letteralmente “Scritture” [sacre]) è il documento scritto del dialogo che Dio rivolge in primis a Israele e, attraverso Gesù Cristo, estende alla Chiesa, per coinvolgere ogni uomo e l’umanità nella sua totalità. Papa Benedetto nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini sulla sacra Scrittura nella vita della Chiesa afferma: «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi. La Costituzione dogmatica Dei Verbum aveva esposto questa realtà riconoscendo che “Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé” (DV 2)» (Verbum Domini 6).
Come si manifesta questo desiderio, questo amore di Dio? La creazione nell’ottica della storia della salvezza risponde all’interrogativo. Dio mediante la Sua Parola sostiene il mondo perché dà esistenza e consistenza a tutti gli esseri e all’intero cosmo (cf. Eb 1,3)[1]. Ed il Suo amore creatore si manifesta nella storia di elezione e nell’alleanza con Israele, suo popolo: «La storia d'amore di Dio con Israele consiste, in profondità, nel fatto che Egli dona la Torah, apre cioè gli occhi a Israele sulla vera natura dell'uomo e gli indica la strada del vero umanesimo» (Deus caritas est, 9).
Si comprende meglio questo concetto alla luce del significato delle “Dieci parole” (cf. Es 34, 28; Dt 4, 13; 10, 4). Le Dieci parole non possono essere separate dall’elezione e dall’Alleanza. Vengono proferite e scritte in una circostanza storica ben definita e non possono in alcun modo essere stralciate dall’insieme dell’azione divina entro la quale sono state date. Non possono essere sradicate idealisticamente, moralisticamente o spiritualisticamente dalla storia santa. Senza il legame di appartenenza reciproca a Dio e alla famiglia umana non potrebbero efficacemente essere ripresentate quale canone morale universale. La sostanza delle “Dieci Parole” è l’Alleanza. Ognuna di esse possiede un significato storico e comunionale che ricomprende quello creazionale. La decisione del popolo «faremo» e «ascolteremo» (Es 24, 7) ha sempre come movente Dio che ha liberato, ha donato la libertà, ha posto il quadro di riferimento e conferisce la forza necessaria per il cammino. Il fine di ogni «fare» ed «ascoltare» è la relazione con Lui, è Lui stesso.

2. L’obbedienza della fede
La risposta dell’uomo al Dio che parla è la fede: «In ciò si evidenzia che “per accogliere la Rivelazione, l’uomo deve aprire la mente e il cuore all’azione dello Spirito Santo che gli fa capire la Parola di Dio presente nelle sacre Scritture”» (Verbum Domini 25). Si comprende allora perché, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, il peccato sia spesso descritto come un “non ascoltare” Dio che parla[2].
Il legame tra la precedenza di Dio e l’obbedienza della fede è fondamentale se vogliamo comprendere la gioia di Israele davanti al dono divino della Torah. Dice in proposito Joseph Ratzinger: «L’altro dono di Mosè… è la Torah – la parola di Dio che indica la via e conduce alla vita… Il grande Salmo 119 è tutta un’esplosione di gioia e di gratitudine per questo dono. Una visione unilaterale della Legge, derivata da un’esegesi unilaterale della teologia paolina, ci impedisce di vedere questa gioia di Israele: la gioia di conoscere la volontà di Dio e così essere in grado e avere il privilegio di vivere questa volontà»[3].
Proprio alla luce di queste considerazioni si può capire meglio il “novum” portato da Cristo. Lo stesso Ratzinger lo descrive affermando che Cristo ha aperto lo scrigno dell’universalità dei valori di Israele ai pagani, determinando l’universalizzazione della fede e della speranza di Israele, sempre però sul fondamento delle aspirazioni della Torà, dei Salmi e dei Profeti. Sappiamo quanto il Cardinal Lustiger tenesse simultaneamente al suo essere ebreo ed al suo essere cristiano[4].
Su queste premesse il Papa trae le conseguenze che «il giusto intreccio di Antico e Nuovo Testamento era ed è un elemento costitutivo per la Chiesa»[5] e che «per il credente le disposizioni della Torah restano decisamente un punto di riferimento»[6], per concludere che «in sintesi, alla cristianità farebbe bene guardare con rispetto a questa obbedienza di Israele e così cogliere meglio i grandi imperativi del Decalogo, che essa deve tradurre nell’ambito della famiglia universale di Dio e che Gesù, come il “nuovo Mosè” ci ha donato»[7].

3. Un rapporto paradossale
Sulla base degli spunti richiamati, che debbono ovviamente essere collocati nell’ambito delle approfondite riflessioni emerse da cinquant’anni di dialogo ebraico-cristiano, splende ancor più la celebre affermazione della dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II di «promuovere e raccomandare la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo» (Nostra Aetate 4). Possiamo ringraziare il Signore dei passi compiuti in questi ultimi cinquant’anni: essi sono senza dubbio dono inestimabile della misericordia di Dio[8]. Si tratta di un cammino che, da una parte, chiude la strada ad ogni opposizione tra cristianesimo ed ebraismo ma, nello stesso tempo, costringe a stare umilmente di fronte a tutta la portata della loro differenza e urge ad intraprendere ulteriori passi.
A questo proposito mi sia permesso citare un ricordo personale. In occasione dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1985 – convocata per commemorare il 20° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II – ebbi occasione di fare una lunga intervista, che è poi diventata una brochure, con Hans Urs von Balthasar. In essa il celebre teologo svizzero affermò: «Una delle questioni più difficili alla quale forse solo Dio è in grado di rispondere correttamente è quella dello “scisma” originario dell’unico popolo di Dio (poiché non si possono dare due popoli di Dio), provocato da Cristo stesso: Lui ne è responsabile, la Chiesa non dovrebbe far finta di conoscere la soluzione e di poterlo risolvere. Noi vediamo solo dei frammenti della verità intera dai quali non sappiamo ricostruire la totalità»[9].
L’incontro e il dialogo tra ebrei e cristiani non può non partire dalla coscienza di questa “singolare ferita” il cui mistero spinge la libertà di ciascuno a riflettere in profondità sul disegno di salvezza di Dio per tutti gli uomini. L’imperativo della reciproca conoscenza proviene da qui.
Mi sembra che tale mistero si rifletta con chiarezza nello specifico rapporto che ebrei e cristiani hanno con l’Antico Testamento.
Occorre assumere con ogni serietà la «formula giovannea “la salvezza viene dai giudei” (Gv 4, 22). Questa origine mantiene vivo il suo valore nel presente... In sintesi, possiamo dire che Antico e Nuovo Testamento, Gesù e sacra Scrittura di Israele appaiono inseparabili. La nuova dinamica della sua missione, la riunione di Israele e delle nazioni, corrisponde alla dinamica profetica dello stesso Antico Testamento»[10].
A questo proposito è opportuno ricordare il richiamo di Joseph Ratzinger: «Il Nuovo Testamento non è il libro di un’altra religione, che si è appropriata delle Sacre Scritture degli Ebrei, quasi si trattasse di una sorta di preliminare tutto sommato secondario (…) il giudaismo (…) e la fede cristiana, così come è descritta nel Nuovo Testamento, sono due modi di far proprie le Sacre Scritture di Israele, che in definitiva dipendono dalla posizione assunta nei confronti della figura di Gesù di Nazaret (…) L’interpretazione ebraica possiede una sua specifica missione teologica nel tempo “dopo Cristo”»[11].
Il ruolo della Scrittura nel dialogo tra ebrei e cristiani si svolge sulla via stretta di questo fecondo crinale. La quaestio legata al superamento della cosiddetta teologia sostitutiva, che chiede di essere affrontato con grande acribia ed equilibrio, ne è acuto segno rivelatore.

4. Una risposta comune per il mondo contemporaneo
L’importanza fondamentale per questo dialogo del riferimento alle sacre Scritture è stata ribadita in innumerevoli occasioni, basterà qui citare la II Dichiarazione comune della Commissione bilaterale tra la Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo e il Gran Rabbinato dello Stato d’Israele del 3 dicembre 2003. I delegati hanno sottolineato con forza «[…] l’insegnamento fondamentale delle sacre Scritture che noi condividiamo, le quali dichiarano la fede in un unico Dio, creatore e guida dell’universo, che ha formato tutti gli uomini secondo la sua divina immagine dotati di libera volontà. Il genere umano, quindi, è una sola famiglia con responsabilità morale reciproca tra i membri. La consapevolezza di questo fatto comporta come conseguenza i doveri religiosi ed etici, che possono servire come vero documento costitutivo per i diritti e la dignità umana nel nostro mondo moderno, e la proposta di una genuina visione per una società giusta, per una pace e un benessere universali»[12].
Da queste premesse, frutto del rinnovamento conciliare e del dialogo fraterno fiorito in questi ultimi 50 anni, mi sembra possibile trarre alcuni orientamenti comuni utili per noi cristiani ed ebrei oggi.
In primo luogo, le sacre Scritture che insieme veneriamo ci chiamano tutti a una risposta di fede e di santità di vita personale e comunitaria, in una reciproca sfida per servire il Signore unico Salvatore del suo popolo. Il giogo della Torà non può essere portato da soli. Nel libro del Profeta Sofonia si parla di un servizio del Signore «sotto lo stesso giogo» (3, 9), «con una sola spalla» (shechem echad, humero uno), cioè, spalla a spalla. Coloro che accolgono la Torà possono e devono collaborare.
Inoltre queste medesime sacre Scritture costituiscono un tesoro spirituale che insieme possiamo studiare, meditare, scrutare, rimanendo fedeli alla nostre rispettive tradizioni e comunità di fede, anzi arricchendo mediante il dialogo le nostre convinzioni e le nostre comunità.
In terzo luogo, in questo ampio orizzonte di dialogo e collaborazione, le sacre Scritture ci stimolano ad aprirci all’Islam. Anche per i musulmani l’obbedienza al Dio Unico è il pilastro fondamentale che regge tutta l’esistenza del credente e della comunità (Umma). Le nostre società plurali rendono questo compito ormai improrogabile.
In quarto luogo, le sacre Scritture che condividiamo racchiudono un prezioso patrimonio di fede che insieme possiamo offrire al mondo intero, coinvolgendolo nella scoperta del Dio Unico, che chiama tutti i popoli a stringere un Patto di alleanza e di salvezza, di amore e di gioia. In questo caso il grande lavoro che possiamo compiere insieme, «con una sola spalla», è quello di rendere presente la realtà e la potenza dell’Alleanza nella storia degli uomini[13]. Solo così si potrà far risplendere il Decalogo in tutta la sua luce. La modernità, invece, si è per larga parte affermata su due successive separazioni: quella delle Tavole dall’Alleanza (da Dio), quella della seconda tavola dalla prima. Si è così pervenuti alla riduzione delle ultime cinque Parole a pure prescrizioni morali e legali. Ma anche questa fase, almeno in Occidente, si è ormai conclusa. Si riapre la possibilità di una nuova proposta cui gli uomini di tutte le religioni sono chiamati a collaborare.
Infine, un’ultima dimensione implicita nella crescente passione al dialogo fondato sulle Scritture sacre è l’attenzione verso le altre culture.
In proposito voglio concludere con un altro ricordo personale. Sempre nel 1985, anno dell’Assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi a vent’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, feci anche una lunga intervista al Cardinale Henri de Lubac. Vi si può leggere questa importante affermazione: «Se si parla di inculturazione, per i cristiani è necessario ricordare che la loro radice profonda è la storia, la civiltà e la cultura del popolo ebraico»[14].
A queste parole fa eco l’invito del Cardinale Carlo Maria Martini, il cui decisivo contributo sul ruolo delle Scritture nel dialogo tra ebrei e cristiani sarà ulteriormente messo in luce dall’importante iniziativa promossa dal Rabbino Laras “Una foresta in Galilea per Carlo Maria Martini”: «Non dimentichiamo che la conoscenza e l’amore per le tradizioni storiche e letterarie, per le feste e le celebrazioni, per il senso della vita e dei valori che la tradizione ebraica porta con sé, fa parte della nostra cultura occidentale; anzi, ne è una delle gemme preziose e anche soltanto il non conoscerla è già un attentato alle nostre origini e alla nostra storia. Ciò che è conosciuto diviene poi oggetto di attenzione, di amore, di delicato rispetto, di colloquio, di scambio. (…) È pure necessario che gli ebrei ci aiutino in un tale lavoro di conoscenza, direi di riscoperta dei tesori della loro tradizione, che ci insegnino a riconoscerli e a stimarli e ce ne facciano gustar la profondità e la sapienza di vita»[15].


[1] Lo stesso Benedetto XVI afferma: «Dio è l'autore dell'intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui “fatta”», Deus caritas est, 9.
[2] «Il peccato… come chiusura nei confronti di Dio che chiama alla comunione con Lui. In effetti, la sacra Scrittura ci mostra come il peccato dell’uomo sia essenzialmente disobbedienza e “non ascolto”» (Verbum Domini 26).
[3] J. Ratzinger- Benedetto XVI, Gesù di Nazaret I, Rizzoli, Milano 2007, 310. Sullo stesso argomento cf.: ibid., 129-156, dove l’autore riprende le considerazioni di J. Neusner, Disputa immaginaria tra un Rabbino e Gesù. Quale maestro seguire?, Piemme, Casale Monferrato 1996.
[4] J-M. Lustiger, La promesse, Parole et silence, Paris 2002.
[5] Ratzinger, Gesù di Nazaret I, 149.
[6] Ibid., 147.
[7] Ibid., 150.
[8] Nel numero 43 dell’esortazione Verbum Domini, Benedetto XVI riespone e riassume sinteticamente tutto il cammino percorso in questi cinquanta anni di dialogo ebraico-cristiano e dà suggerimenti per un nuovo slancio nelle relazioni fraterne che possiamo ancora sviluppare.
[9] H. U. von Balthasar, Vagliate ogni cosa, trattenente ciò che è buono, Lateran University Press, Roma 2002, 27.
[10] J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 13.
[11] Id., La mia vita, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 54.
[12] N. Hofmann, Un segno di grande speranza. L’avvio del dialogo fra Santa Sede e Gran Rabbinato d’Israele, in Chiesa ed Ebraismo oggi. Percorsi fatti, questioni aperte, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 2005, p. 212.
[13] A questo proposito è significativo che Benedetto XVI abbia fatto riferimento ad un’opera del Rabbino di Francia, Gilles Bernheim per descrivere la gravità dell’attentato che soffre oggi l’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio. Cf. Benedetto XVI, Udienza alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2012.
[14] H. de Lubac, Entretien autour de Vatican II, France Catholique Cerf, Paris 1985.
[15] Cfr invito Programma “due voci” 2012-2013 Fondazione San Fedele-Fondazione Maimonide, I due Re. Per una lettura del Secondo Libro di Samuele. 

Cristiani: Un cuore ed un’anima sola - San Josèmaria Escrivà


Chiedi a Dio che nella Santa Chiesa, nostra Madre, i cuori di tutti siano, come nella primitiva cristianità, un solo cuore, perché fino alla fine dei secoli si compiano davvero le parole della Scrittura: “Multitudinis autem credentium erat cor unum et anima una” — la moltitudine dei fedeli aveva un cuore solo e un'anima sola.

— Ti parlo molto sul serio: che per causa tua non venga lesa questa santa unità. Portalo alla tua orazione!
Forgia, 632

Offri l'orazione, l'espiazione e l'azione per questo fine: “Ut sint unum!” — perché tutti noi cristiani abbiamo una sola volontà, un solo cuore, un solo spirito: perché “omnes cum Petro ad Iesum per Mariam!” — tutti, ben uniti al Papa, andiamo a Gesù, per mezzo di Maria.
Forgia, 647

Fammi tutti i giorni una preghiera per questa intenzione: che tutti noi cattolici siamo fedeli, che ci decidiamo a lottare per essere santi. — È logico!, che altro possiamo desiderare per coloro che amiamo, per coloro che sono legati a noi con il forte legame della fede?
Forgia, 925

Parole di Gesù: “E io vi dico: chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto”. Prega. In quale affare umano ti possono dare maggiori garanzie di successo?
Cammino, 96

Allargare il cuore
Io venero con tutte le mie forze la Roma di Pietro e di Paolo, bagnata dal sangue dei martiri, centro di espansione per tanti che hanno propagato nel mondo intero la parola salvifica di Cristo. Essere romano non racchiude nessun significato di particolarismo, bensì di ecumenismo autentico; presuppone il desiderio di allargare il cuore, di aprirlo a tutti con l'ansia redentrice di Cristo, che tutti cerca e tutti accoglie, perché tutti ha amato per primo.
La Chiesa nostra Madre, 28

L'effusione dello Spirito Santo, facendoci divenire simili a Cristo, ci porta a riconoscerci come figli di Dio. Il Paraclito, che è carità, ci insegna a impregnare di questa virtù tutta la nostra vita; e consummati in unum, fatti una cosa sola con Cristo, possiamo diventare tra gli uomini quel che Sant'Agostino afferma dell'Eucaristia: Segno di unità, vincolo dell'Amore.
È Gesù che passa, 87

Vivere l'unità
Con che meravigliosi accenti il Signore ha esposto questa dottrina! Moltiplica le parole e le immagini affinché possiamo comprenderlo, perché resti ben impressa nella nostra anima questa passione per l'unità: «Io sono la vera vite, e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie via; e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché frutti di più ... Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può recare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» [Gv 15, 1-5].
La Chiesa nostra Madre, 20

Parte essenziale dello spirito cristiano è vivere non solo in unione con la Gerarchia ordinaria - Romano Pontefice ed Episcopato -, ma anche sentendo l'unità con gli altri fratelli nella fede. Da molto tempo ho visto che una delle maggiori iatture della Chiesa ai nostri giorni è l'ignoranza che hanno molti cattolici della vita e delle opinioni dei cattolici negli altri Paesi e negli altri ambienti della società. Bisogna far rivivere quella fraternità che i primi cristiani sentivano così profondamente. In tal modo ci sentiremo uniti, amando al tempo stesso la varietà delle vocazioni personali. E si eviteranno molti apprezzamenti ingiusti e offensivi che determinati gruppetti diffondono nell'opinione pubblica - in nome del cattolicesimo! - contro i loro fratelli nella fede che in realtà agiscono con rettitudine di intenzione e spirito di sacrificio, tenendo conto delle circostanze concrete del loro Paese. 
Colloqui, 61

Ti stupivi perché approvavo la mancanza di “uniformità” nell'apostolato in cui lavori. E ti ho detto: Unità e varietà. —Dovete essere diversi come diversi sono i santi nel cielo, ognuno dei quali ha le sue proprie note personali e specialissime. E, anche, dovete assomigliare gli uni agli altri come i santi, che non sarebbero santi se ognuno di loro non si fosse identificato con Cristo.
Cammino, 947

Per tanti momenti della storia, che il diavolo si premura di ripetere, mi è sembrata una considerazione molto azzeccata quella che hai scritto sulla lealtà: «Porto tutto il giorno nel cuore, nella testa e sulle labbra una giaculatoria: Roma!».
Solco, 344

Vorrei ricordarvi, per cominciare, queste parole di san Cipriano: «La Chiesa universale ci appare come un popolo che fonda la sua unità nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
La Chiesa nostra Madre, 1

Con l'aiuto reciproco
Pensa a tua Madre la Santa Chiesa, e considera che, se un membro soffre, tutto il corpo soffre. — Il tuo corpo ha bisogno di ciascuna delle sue membra, ma ciascun membro ha bisogno dell'intero corpo. — Guai, se la mia mano smettesse di compiere il suo dovere..., o se il cuore cessasse di battere!
Forgia, 471

Ti sarà più facile compiere il tuo dovere se pensi all'aiuto che ti prestano i tuoi fratelli e all'aiuto che tu smetti di dar loro se non sei fedele.
Cammino, 549

Il punto di riferimento: Pietro
Non esiste un'altra Chiesa Cattolica, diversa da quella che, edificata sull'unico Pietro, si innalza per l'unità della fede e per la carità in un solo corpo coerente e compatto». Contribuiamo a rendere più evidente agli occhi di tutti questa apostolicità, manifestando con squisita fedeltà l'unione al Papa, che è unione a Pietro. L'amore al Romano Pontefice deve essere in noi vibrante e appassionato, perché in lui vediamo Cristo. Se parliamo col Signore nella preghiera, acquisteremo uno sguardo limpido, che ci farà distinguere, anche negli avvenimenti che a volte non capiamo e che ci causano lacrime e dolore, l'azione dello Spirito Santo.
La Chiesa nostra Madre, 30




giovedì 24 gennaio 2013

Lettera aperta a don Piero Corsi di S. E. Mons. Andrea Gemma

Caro don Piero, sono vescovo ed anche se da alcuni anni emerito non ho perso la buona abitudine, che avevo nella mia diocesi, piccola e bella, di essere sempre affettuosamente vicino ai miei sacerdoti. Ero per loro oltre che fratello e Padre, anche un solido scudo contro le facili, troppo facili aggressioni di un mondo secolarizzato di cui Gesù ha detto ”è tutto sottoposto al maligno”(Gv. 5,19). Ricordo che una volta nella pagina locale di un grande giornale nazionale si leggeva un titolo a piena pagina di questo tono: ”guai a chi tocca i miei preti!”.

Se mi permetti caro don Piero, voglio trattarti come membro del mio presbiterio per dirti subito con la sincerità che tutti mi riconoscono, che ti sono quanto mai vicino, pronto a difenderti a spada tratta da quel cumulo di illazioni, di invenzioni e di calunnie contro di te. Per correttezza, devo dire che non ho seguito sino in fondo con particolare acume tutto ciò che nei giorni scorsi, si è riferito alla tua persona riguardo ad un tuo gesto di cui tu stesso forse non hai misurato appieno la portata. Non sai, fratello mio che noi figli della Chiesa, noi sacri ministri abbiamo continuamente gli occhi altrui puntati addosso per coglierci in fallo, per trovare l’occasione, spessissimo il pretesto per buttarci addosso tutta la bava velenosa che il maligno coltiva accuratamente nel cuore marcio e nella penna bacata di sedicenti informatori, in realtà corruttori della pubblica opinione?

E’ ciò che è successo a te per il gesto che hai compiuto. Probabilmente tu in certo modo, esasperato come capita a noi, moralizzatori per definizione quando siamo stomacati, fino alla sazietà di fronte all’impudicizia, alla esposizione indebita del corpo umano, all’incitamento ai più bassi istinti dell’uomo dell’ uomo maschio e ci decidiamo, sentendolo come un dovere a sporgere la più netta denuncia, in nome di colui che ha detto ”guai al mondo per gli scandali”(Mt. 18,7). E’ quello che tu hai fatto, mettendo in carta ed in pubblica esposizione la tua denuncia.

Forse qui hai imprudentemente esagerato. Te lo ha detto paternamente anche il tuo vescovo, al quale anche io mi associo.

Se dovessi essere il giudice nei tuoi confronti cosa che il Vangelo mi impedisce invocherei tutte le attenuanti generiche e particolari per diminuire l’impatto pubblico della tua denuncia.

Adesso che la cosa è accaduta, adesso che gli scarabei di professione hanno massacrato indebitamente coi loro denti acuminati la tua dignità io ti dico: "Ti comprendo, ti scuso completamente e ti abbraccio come fratello carissimo. Se ti fa piacere, ti dirò che più volte anche al sottoscritto-amante come tutti i cristiani della ”parresia” apostolica è capitato qualcosa di simile, sia a livello locale, sia addirittura a livello nazionale, quando ad esempio osai pubblicamente biasimare il comportamento indecoroso di qualche esponente politico.

Mi vennero addosso recriminazioni persino dai miei superiori religiosi di altissimo rango e poi la sequela di tutti gli altri pronti a cogliere con infinito compiacimento l’occasione per andare contro ad un ministro di Dio, pastore della Chiesa.

Caro don Piero spero che ti passi presto l’amarissima sofferenza che hai patito e il suo ricordo.
Sono convinto che hai seguito soltanto la tua coscienza che ti imponeva un certo dovere. Se vuoi un consiglio, che ho trovato sempre utilissimo, cerca di circondarti di un manipolo di fedeli laici d’ambo i sessi, che ti vogliano bene, che ti aiutino sinceramente, pronti anche a segnalarti in segreto qualche tua manchevolezza, e prima di attuare qualche gesto in qualunque modo straordinario, cerca di consultarti con loro in privato e segui il loro giudizio, vedrai che ti troverai bene..

Adesso voglio sperare che sia nella tua parrocchia che nel suo circondario e anche nella tua diocesi tu possa trovare solidarietà, affetto, vicinanza leale e anche l’incoraggiamento a continuare il tuo impegno apostolico per amore di quel Gesù che ha detto: ”Sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Mt. 10, 22).

Ti abbraccio, nell’attesa di conoscerti di persona. Ti auguro un buon anno pastorale (ti prego vivissimamente non cedere mai alla tentazione della fuga).

Dio ti benedica.† Andrea Gemma Vescovo.

Roma 31/12/2102

 
 

 

mercoledì 23 gennaio 2013

“Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli” (Mt 5,3) - S. Vincenzo Pallotti


 Il mio divin Figliolo Gesù ai suoi discepoli e al numeroso popolo che famelico del pane celeste della sua divina parola lo seguiva, così parlò: “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli”.

Il mio Figliolo volle dire che la vera beatitudine si consegue nel tenere il cuore distaccato dai beni terreni. Giungeranno infatti a possedere il Regno dei Cieli coloro che sono veramente distaccati dai beni terreni per unirsi al vero bene che è Iddio.

Ora, con affetto materno voglio che tu avverta che le massime del mondo, mondo che si stima illuminato e sapiente, sono contrarie a quelle di Gesù che è la Sapienza del Padre.

Pensa che il mondo, che vive nelle tenebre dell’eterna perdizione, chiama beati coloro che hanno il loro cuore occupato nelle ricchezze della terra, e che procurano di aumentarle, e che ne usano in modo così disordinato da dimenticare perfino l’affare importantissimo della salvezza della loro anima.

Al contrario, come insegna a tutti il discepolo diletto Giovanni, mio devoto: il mio Figliolo divino è luce di paradiso che illumina ogni uomo che vive nel mondo (Gv 1).

I suoi insegnamenti sono un saggio della sapienza infinita.

Chi segue le sue dottrine vive nella luce della verità, e si dispone a contemplare perpetuamente e a godere i tesori della infinita Sapienza, della Verità eterna.

Rifletti: il mio cuore materno esulta in Dio per la grazia che il Padre celeste ti ha concesso di ricordarti oggi, per mezzo mio, quella dottrina di paradiso insegnata con amore infinito dal mio Figliolo per assicurare alle anime il possesso eterno del Paradiso. Ti impegnerai perciò a profittare di questa grazia.

Ma se ti accadesse di sentire, fra i rigori della povertà, più gravoso il peso dell’umanità, pensa, figlio a questo: l’Altissimo ha già veduto, nella luce inaccessibile della sua infinita Sapienza che la penuria dei beni temporali sarebbe stata opportuna ai poveri figli di Adamo per tenere il cuore più distaccato dalla terra e più indirizzato al cielo.

Ed ha anche già veduto che il maggior numero dei suoi seguaci egli lo avrebbe trovato fra i poverelli che sono nel mondo; e perciò, onde animarli tutti ad amare la povertà del loro stato, lui, con amore infinito, si è fatto povero, è nato povero, è vissuto povero, è morto povero.

Ha scelto per Madre me, ma povera, per padre putativo Giuseppe, ma povero, gli Apostoli, ma poveri, ed ha formato sempre le sue più care delizie fra i poverelli.

Per questo, o figlio, voglio che tu nella tua povertà non perda i tesori della povertà di Gesù Cristo. Egli con amore infinito ha abbracciato la povertà estrema non solo per esserne perfetto esemplare, ma ancora per acquistare alle anime redente un sacro diritto di avere tutti quegli aiuti della grazia che sono necessari per soffrire con merito il peso della povertà

Non ricuserai perciò di ricorrere sempre a me con fiducia filiale, ed io, con affetto materno, ti aiuterò ad offrire al Padre celeste i meriti infiniti della povertà del mio figliolo Gesù.

La virtù dell’Altissimo discenderà sopra di te, vivrai sempre paziente, anche nella più estrema povertà, e non farai mai un lamento ingiurioso contro la Divina Provvidenza".

S. Vincenzo Pallotti, da "Maria ci parla".