giovedì 20 dicembre 2012

Paolo VI, si vuole un cristianesimo facile nella fede e nel costume. Udienza del 25 giugno 1969, rendere agevole il cristianesimo senza dimenticare la croce

 Diletti Figli e Figlie!

In queste brevi conversazioni delle Udienze generali  Ci sembra ancora doveroso ripensare al Concilio.

E per ora lo facciamo senza risalire ai suoi vari e specifici insegnamenti, ma con alcune osservazioni d’indole molto sommaria. Questa, ad esempio, che tutti possono fare da sé: il Concilio ha prodotto nel popolo cristiano una mentalità, una sua mentalità. È chiaro che al fondo di questa mentalità si trova una convinzione molto buona, un postulato, un’idea di base che alcuni ammettono come già acquisita, altri, più avveduti, come da acquisire, da realizzare. E questa convinzione ci dice che il Concilio vuole una professione cristiana più seria, più autentica, più vera. Un approfondimento nella sincerità. E questa idea, dicevamo, è molto buona, Possiamo e dobbiamo farla nostra, perché da essa è partito il Concilio, come, del resto, da questa aspirazione ad una perfetta interpretazione della vita cristiana, sia nel pensiero che nella condotta, parte continuamente l’azione didattica, santificatrice e pastorale della Chiesa. Ma, dopo il Concilio, come si esprime questa rinnovata mentalità? Dove si dirige la sua ricerca d’un cristianesimo autentico, vivo e adatto per i nostri tempi? Si esprime in vari modi. Uno di questi modi è quello di ritenere ormai facile l’adesione al cristianesimo; e quindi di tendere a renderlo facile.

L’ESSENZA DEL MESSAGGIO EVANGELICO

Un cristianesimo facile: questa Ci sembra una delle aspirazioni più ovvie e più diffuse, dopo il Concilio. Facilità: la parola è seducente; ed è anche, in un certo senso, accettabile, ma può essere ambigua. Può costituire una bellissima apologia della vita cristiana, a intenderla come si deve; e potrebbe essere un travisamento, una concezione di comodo, un «minimismo» fatale. Bisogna fare attenzione.

Che il messaggio cristiano si presenti nella sua origine, nella sua essenza, nella intenzione salvatrice, nel disegno misericordioso che tutto lo pervade, come facile, felice, accettevole e comportabile, è fuori dubbio. È una delle più sicure e confortanti certezze della nostra religione; sì, ben compreso, il cristianesimo è facile. Bisogna pensarlo così, presentarlo così, viverlo così. Lo ha detto Gesù stesso: «Il mio giogo è soave ed il mio peso è leggero» (Matth. 11, 30). Lo ha ripetuto, rimproverando ai Farisei, meticolosi e intransigenti, del suo tempo: «Compongono pesanti e insopportabili fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini» (Matth. 23, 4; cfr. Matth. 15, 2, ss.). E una delle idee maestre di San Paolo non è stata quella di esonerare i nuovi cristiani dalla difficile, complicata e ormai superflua osservanza delle prescrizioni legali del Testamento anteriore a Cristo?

IL SOMMO PRECETTO DELL’AMOR DI DIO

Si vorrebbe qualche cosa di simile anche per il nostro tempo, che è orientato verso concezioni spirituali semplici e fondamentali. Sintetiche e a tutti accessibili: non ha il Signore condensato nel sommo precetto dell’amor di Dio e in quello, che lo segue e ne deriva, dell’amore del prossimo, «tutta la legge ed i profeti» (Matth. 22, 40)? Lo esige la spiritualità dell’uomo moderno, quella dei giovani specialmente; lo reclama un’esigenza pratica d’apostolato e di penetrazione missionaria. Semplificare e spiritualizzare, cioè rendere facile l’adesione al cristianesimo; questa è la mentalità che sembra scaturire dal Concilio: niente giuridismo, niente dogmatismo, niente ascetismo, niente autoritarismo, si dice con troppa disinvoltura: bisogna aprire le porte ad un cristianesimo facile. Si tende così ad emancipare la vita cristiana dalle così dette «strutture»; si tende a dare alle verità misteriose della fede una dimensione contenibile nel linguaggio corrente e comprensibile dalla forma mentale moderna, svincolandole dalle formulazioni scolastiche tradizionali e sancite dal magistero autorevole della Chiesa; si tende ad assimilare la nostra dottrina cattolica a quella delle altre concezioni religiose; si tende a sciogliere i vincoli della morale cristiana, qualificati volgarmente come «tabu», e delle sue pratiche esigenze di formazione pedagogica e di osservanza disciplinare, per concedere al cristiano, fosse pur egli un ministro dei «misteri di Dio» (1 Cor. 4, 1; 2 Cor. 6, 4) o un seguace della perfezione evangelica (cfr. Matth. 19, 21; Luc. 14, 33), una così detta integrazione con il modo di vivere della gente comune. Si vuole, ripetiamo, un cristianesimo facile, nella fede e nel costume.

Ma non si va oltre il confine di quell’autenticità, a cui tutti aspiriamo? Quel Gesù, che ci ha portato il suo vangelo di bontà, di gaudio e di pace, non ci ha forse anche esortati ad entrare «per la porta stretta» (Matth. 7, 13)? E non ha forse preteso una fede nella sua parola, che va oltre la capacità della nostra intelligenza? (cfr. Io. 6, 62-67). E non ha Egli detto che «chi è fedele nel poco, è fedele ,anche nel molto» (Luc. 16, 10)? Non ha fatto Egli consistere l’opera della sua redenzione nel mistero della Croce, stoltezza e scandalo (1 Cor. 1, 23) per questo mondo, mentre è condizione della nostra salvezza il parteciparvi?

PIENEZZA DI RISPETTO PER LA LEGGE DIVINA

Qui la lezione si fa lunga e difficile. Sorge la domanda: ma allora il cristianesimo non è facile? Allora non è accettabile da noi moderni, e non è più presentabile al mondo contemporaneo? Rinunciamo in questo momento a risolvere debitamente questa grave, ma non profonda difficoltà. Ricordiamo soltanto che il costo delle cose facili, se belle, se perfette, se rese tali superando ostacoli formidabili, è sempre alto. Pensiamo, per esempio, a questa legge, che presiede a tutto lo sforzo della coltura e del progresso, quando abbiamo occasione di viaggiare in aeroplano: volare, com’è facile! ma quanti studi, quante fatiche, quanti rischi, quanti sacrifici esso è costato!

E poi, per stare al nostro tema, ci domandiamo: il cristianesimo sarebbe fatto per i temperamenti deboli di forza umana e per i fiacchi di coscienza morale? Per gli uomini imbelli, tiepidi, conformisti, e non curanti delle austere esigenze del Regno di Dio? Ci domandiamo alle volte se non sia da cercare fra le cause della diminuzione delle vocazioni alla sequela generosa di Cristo, senza riserve e senza ritorni, quella della presentazione superficiale d’un cristianesimo edulcorato, senza eroismo e senza sacrificio, senza la Croce, privo perciò della grandezza morale d’un amore totale. E Ci chiediamo anche se fra i motivi delle obbiezioni, sollevate nei confronti dell’Enciclica «Humanae vitae», non vi sia anche quello d’un segreto pensiero: abolire una legge difficile per rendere la vita più facile. (Ma se è legge, che ha in Dio il suo fondamento, come si fa?).

Noi ripeteremo: sì, il cristianesimo è facile; ed è saggio, è doveroso appianare ogni sentiero che ad esso conduce, con ogni possibile agevolazione. Ed è ciò che la Chiesa, dopo il Concilio, cerca in ogni modo di fare, ma senza tradire la realtà del cristianesimo. Il quale è davvero facile a qualche condizione: per gli umili, che ricorrono all’aiuto della grazia, con la preghiera, con i sacramenti, con la fiducia in Dio, «che non permetterà, dice S. Paolo, che siate tentati sopra le vostre forze, ma con la tentazione vi offrirà modo . . . di superarla» (1 Cor. 10, 13); e per i coraggiosi, che sanno volere ed amare, amare soprattutto. Diciamo con S. Agostino: il giogo di Cristo è soave, per chi ama; duro per chi non ama: «amanti, suave est; non amanti, durum est» (Serm. 30; PL 38, 192).

Procurate, Figli carissimi, di fare questa felice esperienza: rendere facile mediante l’amore la vita cristiana! Con la Nostra Apostolica Benedizione.
 
 

 

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