Come è noto, il Concilio Vaticano II parla di una possibilità di salvezza anche per coloro che non giungono ad una conoscenza “esplicita” di Dio: il che fa ovviamente pensare ad una conoscenza “implicita”. Ma cosa intende esattamente il Concilio con tale espressione, nuova nella storia degli insegnamenti magisteriali su questo tema importantissimo? È abbastanza nota la risposta di Rahner: egli la interpreta, secondo i princìpi del suo sistema, come “esperienza trascendentale” apriorica, coscienziale e preconcettuale dell’essere divino come essere assoluto e totale, possibile anche nel caso di un ateismo conscio, verbale ed esplicito o, come egli dice, “categoriale”.
Ma, come ho cercato di dimostrare in un mio recente libro sul pensiero di Rahner (Karl Rahner. Il Concilio tradito, Fede&Cultura, 2009), qui Rahner commette un duplice grave errore.
Primo, è assurdo ritenere possibile simultaneamente un teismo implicito e un ateismo esplicito. Non ha senso affermare e negare Dio simultaneamente, seppure a due livelli distinti della coscienza. La modalità del sapere – implicito e esplicito – non risolve la contraddizione presente in un contenuto contraddittorio.
Secondo, questa esperienza trascendentale con i suddetti attributi, in realtà non esiste o – come pure ho cercato di dimostrare nel mio citato libro – è un qualcosa che ricorda i caratteri del sapere divino, il quale non può convenire all’uomo, se non vogliamo confondere il sapere divino col sapere umano.
Allora, come possiamo interpretare esattamente l’insegnamento del Concilio, secondo un principio di sana filosofia e inquadrandolo nella tradizione magisteriale della Chiesa?
Ho parlato di novità di questo insegnamento conciliare, inquantochè fino al momento del Concilio la dottrina tradizionale era quella di san Tommaso, il quale ammette sì una conoscenza implicita di Dio, ma non ancora sufficiente per la salvezza, perché a tal fine, dice l’Aquinate, occorre una conoscenza esplicita.
Il Dottore Angelico tratta di questo argomento nell’art.2 dell’importante Questione disputata De Veritate. In essa l’Aquinate ammette una conoscenza implicita di Dio con queste parole: «Tutti i conoscenti conoscono implicitamente Dio in qualunque oggetto conosciuto» (ad 1m). Ora, come si comprende bene dal contesto, qui san Tommaso si riferisce alla percezione spontanea ed universale di valori trascendentali, come il vero e il bene.
È chiaro che conoscere questi valori non è ancora conoscere Dio, benchè, come osserva san Tommaso, essi abbiano indubbiamente un riferimento a Dio, in quanto Dio è somma verità e sommo bene.
Tuttavia, per san Tommaso, questa conoscenza non è ancora una vera e propria conoscenza di Dio perché, per ottenerla, come egli insegna in altri luoghi ed è soprattutto insegnamento della Chiesa, la conoscenza di Dio si ottiene applicando, almeno implicitamente, il principio di causalità, che è un principio fondamentale della ragione. Ecco perché la tradizione teologica cattolica dice che l’esistenza di Dio si può dimostrare con un ragionamento.
Ma dobbiamo aggiungere dell’altro. La Sacra Scrittura ci insegna che di fatto ogni uomo, nel momento in cui mette in atto in modo corretto la sua ragione, giunge spontaneamente e necessariamente a sapere che Dio esiste, interrogandosi su quella che è l’origine del mondo e rendendosi conto che il mondo, non avendo in se stesso la propria ragion d’essere, deve necessariamente essere causato – la Bibbia dice “creato” – da una causa proporzionata, superiore e suprema, che già Aristotele chiamava “causa prima” e “motore immobile”, ciò che in teologia naturale chiamiamo “Dio”.
Ma il discorso non è ancora finito. Per il Vangelo non soltanto ogni uomo sa che Dio esiste, ma, magari implicitamente, sta in qualche modo sempre alla presenza di Cristo, come è chiaramente insinuato dal Prologo del Vangelo di Giovanni, dove è detto che il Logos illumina ogni uomo, e come lascia capire chiaramente lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo, allorchè in Mt 25 ci avverte tutti che al momento della nostra morte dovremo presentarci davanti al suo Tribunale di giustizia e di misericordia.
Ora, se è evidente che sul piano della vita civile ogni cittadino sa a quale tribunale deve rendere conto nel caso che egli disobbedisca alla legge, ciò sarà tanto più evidente sul piano della giustizia divina. Dal che dunque, come si voleva dimostrare, si deduce che ogni uomo, magari implicitamente, sa di dover rendere conto a Cristo delle opere da lui compiute in questa vita.
Ho detto “implicitamente”. È qui che troviamo il vero significato della conoscenza implicita, della quale parla il Concilio; però in questo stesso momento ci accorgiamo di come il Concilio aggiunga un nuovo elemento alla concezione tomistica, elemento che non è di rottura con essa, ma al contrario di esplicitazione e di arricchimento.
Per comprendere questo, però, sarà bene fare una distinzione tra quello che io chiamerei implicito “potenziale” ed implicito “virtuale”. Il primo corrisponde alla dottrina tradizionale di san Tommaso e lo chiamo “potenziale”, perché è un implicito che può attuarsi in una virtualità che non è ancora un vero e proprio esplicito.
Il secondo invece rappresenta l’elemento di novità introdotto dal Concilio. Volendo essere più precisi nel chiarire questa conoscenza implicita, può essere dunque utile ricordare quanto avviene nella parabola di Mt 25: il Signore ringrazia coloro che disinteressatamente hanno fatto del bene al prossimo. Costoro si meravigliano, ma Gesù dice loro le famose parole: «Quello che avete fatto a uno dei più piccoli, l’avete fatto a Me».
Chiamerei “virtuale” questo tipo di conoscenza, intendendo con il linguaggio scolastico per “virtuale” qualcosa di reale, ma che ancora non si esprime in una forma esplicita. In questo senso, anche nel linguaggio corrente parliamo di virtù intendendo qualcosa di reale posseduto dal soggetto, ma che attualmente può non esprimere. Per esempio, possiamo dire di un violinista che è un “virtuoso”, per dire che possiede una buona capacità di suonare il violino, anche se sul momento non lo suona.
Che cosa significano allora le suddette parole del Signore? Esse possono essere appunto riferite alla conoscenza implicita di Dio della quale parla il Concilio: queste persone oneste, servendo il prossimo nella carità, hanno implicitamente servito Dio loro Creatore e Salvatore, magari senza volgere esplicitamente il pensiero a Cristo nel momento in cui esercitavano questi atti di carità.
Per quanto poi riguarda il problema dell’ateismo, da queste premesse dovrebbero discendere delle conseguenze abbastanza serie. Certo tutto sta a vedere cosa intendiamo per “ateismo”. La tradizione cattolica ha sempre considerato l’ateismo come grave colpa e ciò è confermato dallo stesso Concilio (Gaudium et Spes, n. 19), in quanto per ateismo si è sempre inteso quell’atteggiamento della volontà col quale l’uomo o rifiuta di applicare il principio di causalità, finendo pertanto col fare di sé o del mondo un idolo, o, se è giunto a sapere che Dio c’è, lo respinge dai suoi interessi e quindi non obbedisce alla sua santa legge.
In questo senso non può esistere un ateo in buona fede, ossia non può esistere un’ignoranza invincibile circa l’esistenza di Dio. È come dire che non può esistere una dimostrazione razionale che Dio non esiste, in quanto, essendo vero il contrario, tale dimostrazione si presenta come impossibile. Il che significa che sostenere che Dio non esiste è cosa irragionevole o contraria alla ragione.
Tutt’al più, se vogliamo proprio parlare di un ateismo in buona fede, potremo riferirci ad un equivoco sul concetto di Dio, in modo tale che il cosiddetto “ateo”, in realtà, non lo è perché rifiuta un falso concetto di Dio, magari presentatogli come vero da credenti che non sanno quello che dicono.
In questo caso il supposto ateo può avere un rapporto implicito con Dio che lo conduce alla salvezza.
Giovanni Cavalcoli
fonte: http://www.formazioneteologica.it
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