martedì 31 luglio 2012

La manna nel deserto immagine della mensa eucaristica - Sant' Agostino

La raccolta della manna
Tintoretto
Chiesa di San Giorgio, Venezia
Io sono - dice - il pane della vita. Di che cosa si vantavano i Giudei? I padri vostri - prosegue il Signore - nel deserto mangiarono la manna e sono morti (Gv 6, 48-49). Di che cosa vi vantate? Mangiarono la manna e sono morti. Perché, mangiarono e sono morti? Perché credevano solo a ciò che vedevano; e non comprendevano ciò che non vedevano. E per questo sono vostri padri, perché voi siete simili a loro. Dobbiamo intendere, o miei fratelli, che per quanto riguarda questa morte visibile e corporale, noi non moriremo se mangiamo il pane che discende dal cielo? No, per quanto riguarda la morte visibile e carnale, moriremo anche noi come quelli.
Ma per quanto riguarda quella morte che il Signore c'insegna a temere, di cui sono morti i padri di costoro, quella morte ci sarà risparmiata. Mangiò la manna Mosè, la mangiò Aronne, la mangiò Finees e molti altri che erano graditi a Dio, e non sono morti. Perché? Perché ebbero l'intelligenza spirituale di quel cibo visibile: spiritualmente lo desiderarono, spiritualmente lo gustarono, e spiritualmente furono saziati. Anche noi oggi riceviamo un cibo visibile: ma altro è il sacramento, altra è la virtù del sacramento.
Quanti si accostano all'altare e muoiono, e, quel che è peggio, muoiono proprio perché ricevono il sacramento! E' di questi che parla l'Apostolo quando dice: Mangiano e bevono la loro condanna (1 Cor 11,29). Non si può dire che fosse veleno il boccone che Giuda ricevette dal Signore. E tuttavia non appena lo ebbe preso, il nemico entrò in lui; non perché avesse ricevuto una cosa cattiva, ma perché, malvagio com'era, ricevette indegnamente una cosa buona. Procurate dunque, o fratelli, di mangiare il pane celeste spiritualmente, di portare all'altare l'innocenza. I peccati, anche se quotidiani, almeno non siano mortali. Prima di accostarvi all'altare, badate a quello che dite: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6, 12). Perdona e ti sarà perdonato: accostati con fiducia, è pane, non è veleno. [ Ma perdona sinceramente: perché se non perdoni sinceramente, mentisci, e mentisci a colui che non puoi ingannare. Puoi mentire a Dio, ma non puoi ingannarlo. Egli sa come stanno le cose. Egli ti vede dentro, dentro ti esamina, ti guarda e ti giudica, ti condanna o ti assolve. I padri di quei Giudei erano padri malvagi di figli malvagi, padri infedeli di figli infedeli, mormoratori e padri di mormoratori. E' stato infatti detto di quel popolo che in nessuna cosa abbia offeso tanto il Signore, quanto mormorando contro di lui. Per questo, volendo Gesù far risaltare che essi erano degni figli di tali padri, esordisce: Cosa mormorate tra voi (Gv 6, 43), mormoratori, figli di mormoratori? I vostri padri mangiarono la manna e morirono; non perché la manna fosse cattiva, ma perché la mangiarono con animo cattivo.]

 S.AGOSTINO, Gv.6,56-59
 Tractatus 26 in Joannem, circa medium

lunedì 30 luglio 2012

L'importanza dell'abito per sacerdoti e religiosi - Beato Giovanni Paolo II


Lettera di Papa Giovanni Paolo II al Cardinale Vicario Ugo Poletti

Al venerato fratello
Cardinale Ugo Poletti
Vicario Generale per la diocesi di Roma.


La cura dell'amata diocesi di Roma pone al mio animo numerosi problemi, tra i quali appare meritevole di considerazione, per le conseguenze pastorali da esso derivanti, quello relativo alla disciplina dell'abito ecclesiastico.

Più volte negli incontri con i sacerdoti ho espresso il mio pensiero al riguardo, rilevando il valore ed il significato di tale segno distintivo, non solo perché esso contribuisce al decoro del sacerdote nel suo comportamento esterno o nell'esercizio del suo ministero, ma soprattutto perché evidenzia in seno alla Comunità ecclesiastica la pubblica testimonianza che ogni sacerdote è tenuto a dare della propria identità e speciale appartenenza a Dio. E poiché questo segno esprime concretamente il nostro "non essere del mondo" (cf. Gv 17,14), nella preghiera composta per il Giovedì Santo di quest'anno, alludendo all'abito ecclesiastico, mi rivolgevo al Signore con questa invocazione: "Fa' che non rattristiamo il tuo Spirito... con ciò che si manifesta come una volontà di nascondere il proprio sacerdozio davanti agli uomini e di evitarne ogni segno esterno" (Giovanni Paolo II, Precatio feria V in cena Domini anno MCMLXXXII recurrente, universis Ecclesiae sacerdotibus destinata, 4, die 25 mar. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1 [1982] 1064).

Inviati da Cristo per l'annuncio del Vangelo, abbiamo un messaggio da trasmettere, che si esprime sia con le parole, sia anche con i segni esterni, soprattutto nel mondo odierno che si mostra così sensibile al linguaggio delle immagini. L'abito ecclesiastico, come quello religioso, ha un particolare significato: per il sacerdote diocesano esso ha principalmente il carattere di segno, che lo distingue dall'ambiente secolare nel quale vive; per il religioso e per la religiosa esso esprime anche il carattere di consacrazione e mette in evidenza il fine escatologico della vita religiosa. L'abito, pertanto, giova ai fini dell'evangelizzazione ed induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell'esistenza dell'uomo. Per mezzo di tale segno, è reso agli altri più facile arrivare al Mistero, di cui siamo portatori, a Colui al quale apparteniamo e che con tutto il nostro essere vogliamo annunciare.

Non ignoro le motivazioni di ordine storico, ambientale, psicologico e sociale, che possono essere proposte in contrario. Potrei tuttavia dire che motivazioni di eguale natura esistono in suo favore.

Devo però soprattutto rilevare che ragioni o pretesti contrari, confrontati oggettivamente e serenamente col senso religioso e con le attese della maggior parte del Popolo di Dio, e con il frutto positivo della coraggiosa testimonianza anche dell'abito, appaiono molto più di carattere puramente umano che ecclesiologico.

Nella moderna città secolare dove si è così paurosamente affievolito il senso del sacro, la gente ha bisogno anche di questi richiami a Dio, che non possono essere trascurati senza un certo impoverimento del nostro servizio sacerdotale.

In forza di queste considerazioni, sento il dovere, come Vescovo di Roma, di rivolgermi a lei, signor Cardinale, che più da vicino condivide le mie cure e sollecitudini nel governo della mia diocesi, perché, d'intesa con le Sacre Congregazioni per il Clero, per i Religiosi e gli Istituti Secolari e per l'Educazione Cattolica, voglia studiare opportune iniziative destinate a favorire l'uso dell'abito ecclesiastico e religioso, emanando a tale riguardo le necessarie disposizioni e curandone l'applicazione.

Nell'invocare su di lei, signor Cardinale, e sull'intera diocesi di Roma l'onnipotente aiuto del Signore, per l'intercessione della Vergine santissima "Salus Populi Romani", di cuore imparto l'apostolica benedizione.

Dal Vaticano, 8 Settembre 1982.

domenica 29 luglio 2012

"Noi per Benedetto": Iniziativa contro il pregiudizio anticattolico



I movimenti ecclesiali sono un «segno luminoso della bellezza di Cristo e della Chiesa», secondo le parole del Papa, un’esperienza di amicizia con cui condividere la vita, la fede e l’appartenenza alla Chiesa. Sono diversi presenti nel mondo, in particolare la Comunità di Sant’Egidio, il Movimento dei Focolari, il Rinnovamento nello Spirito Santo ed esperienze di fede che non sono movimenti, come il Cammino neocatecumenale, l’Opus Dei e la bella realtà della Comunità Nuovi Orizzonti, fondata da Chiara Amirante. Apprezzabile in particolare l’esperienza degli amici di Comunione e Liberazione, sia per la ragionevolezza del messaggio che portano, che per l’intelligente capacità di presenza culturale (il mese prossimo inizierà il loro “Meeting di Rimini“).

Esistono tuttavia continue iniziative spontanee di aggregazione e di impegno pubblico, alcune davvero molto interessanti, come gli amici di “Noi per Benedetto”, realtà nata spontaneamente da pochi mesi su internet e promossa da un gruppo di giovani cattolici per stringersi intorno al Santo Padre dopo mesi, anni, di attacchi contro la sua persona. Si tratta di ragazzi di diverse realtà associative, universitarie e lavorative, che hanno deciso di alzare la voce e di denunciare a chiare lettere sul sito www.noixbenedetto.it la situazione: «siamo stanchi di vedere il Santo Padre Benedetto XVI continuamente vilipeso sull’onda di attacchi demagogici; stanchi di sentire le solite fesserie sull’ICI e le tasse, sull’anello del Papa che risolverebbe da solo la fame nel mondo, e sui preti che sono tutti pedofili già per il fatto stesso di esser preti. Stanchi di vedere puntualmente dimenticate tutte le opere di bene che, giustamente, sono fatte nel silenzio; stanchi di sentirci costantemente aggrediti per il fatto stesso di essere cattolici e passare il nostro tempo a difenderci; stanchi di vedere la nostra Chiesa passare continuamente come capro espiatorio dei mali della società, come se tutto dipendesse dagli errori umani delle persone che operano in essa; di essere considerati ingenue persone disposte a subire ogni genere di gratuito pregiudizio». Una sintesi perfetta del grave pregiudizio anticattolico di oggi.

Domenico, portavoce di “Noi per Bendetto”, ha anche segnalato uno dei più grandi segni di intolleranza della furia anticlericale di oggi: «Sicuramente, quello che ha spinto più di ogni altra cosa, sono i continui attacchi che i cattolici ricevono sui social network e sul web. Sembra quasi che professarsi credenti sia diventato un peccato, mentre il bestemmiare ed offendere il credo altrui sembra quasi una libertà inviolabile». Questo ha portato spontaneamente alla nascita di “Noi Per Benedetto”, «per reagire davanti a quel pregiudizio, come lo ha definito lo storico americano Jenkin, ritenuto oggi, ingiustamente, l’ultimo pregiudizio “socialmente accettabile”, ossia quello anticattolico». Per ora si è in fase organizzativa, tuttavia l’obiettivo è chiaro: «alzare la testa e difendere i nostri valori, uscendo fuori da quelle “nuove catacombe” dove al momento sembra che siamo rintanati. E tutto ciò iniziando da un lato difendere il Sommo Pontefice, Vicario di Cristo, e la Chiesa Cattolica, e dall’altro divenire elemento di nuova evangelizzazione e di sensibilizzazione efficace, in difesa dei valori cristiani e cattolici, specialmente nella realtà giovanile». 

Sul loro sito web è possibile approfondire le ragioni di questa meritevole iniziativa (qui la pagina Facebook e l’account Twitter). Domenica 29 giugno 2012 si sono radunati in Piazza San Pietro per manifestare vicinanza al Santo Padre.

26 luglio, 2012 

Uccronline

sabato 28 luglio 2012

O' dolce nascondimento - Beata Elia di San Clemente


"O dolce nascondimento, amo passare i miei giorni alla tua ombra e consumare così la mia esistenza, per amore del mio dolce Signore..... Talvolta, pensando a quelle eterne ricompense, così sproporzionate ai leggeri sacrifici di questa vita, la mia anima ne resta meravigliata e, presa da un' ardente brama, si slancia verso Dio, esclamando: "O mio buon Gesù, a qualunque costo voglio raggiungere la... meta, il porto di salvezza. Non mi negare nulla, dammi da soffrire. Sia questo il martirio più intimo del mio povero cuore, occulto ad ogni sguardo umano: una croce nuda io ti chiedo. Adagiata su questa, voglio passare i miei giorni quaggiù"
Quando si soffre con Gesù, il patire è gioire; soffrire amando io bramo, fuori di questo non voglio più nulla.
Mio Diletto, chi mai potrà separarmi da Te? Chi sarà capace di spezzare queste forti catene che tengono stretto il mio cuore al Tuo? Forse l'abbandono delle creature? E' proprio questo che unisce l'anima al suo Creatore... Forse le tribolazioni, le pene, le croci? E' in queste spine che il canto dell'anima che t'ama è più libero e più leggero. Forse la morte? Ma questa non sarà altro che il principio della vera felicità per l'anima.... Nulla, nulla potrà separare, neppure per brevi istanti, quest' anima da Te. Essa fu creata per Te ed è fuori centro se non vive abbandonata in Te.
La mia vita è amore: questo nettare soave mi circonda, questo amore misericordioso mi penetra, mi purifica, mi rinnova e sento che mi consuma. Il grido di questo mio cuore è: "Amor del mio Dio, Te solo cerca l'anima mia. Anima mia, soffri e taci; ama e spera; immolati e nascondi la tua immolazione sotto un sorriso, e sempre avanti...
Voglio passare Ia mia vita in un profondo silenzio per ascoltare nell'intimo dell'anima la delicata voce del mio dolce Gesù.
Anime io cercherò per lanciarle nel mare dell'Amore Misericordioso: anime di peccatori, ma soprattutto anime di sacerdoti e religiosi. A questo scopo la mia esistenza si spegnerà lentamente, consumandosi come l'olio della lampada che veglia presso il Tabernacolo".
Sento la vastità de!la mia anima, la sua infinita grandezza, che non basta l'immensità di questo mondo a contenere: essa fu creata per perdersi in Te, mio Dio, perché tu solo sei grande, infinito e perciò tu solo puoi renderla pienamente felice".




Beata Elia di San Clemente

venerdì 27 luglio 2012

La profezia di Papa Paolo VI sul maligno presente nei sacri palazzi


Il famoso accenno "al fumo di Satana nel tempio di Dio" di papa Montini nell'omelia della festa dei Santi Pietro e Paolo del giugno 1972

Forse ai suoi tempi di “corvi” se ne
parlava poco in Vaticano, ma certamente qualcosa dovette pur fiutare Paolo VI, uno dei più grandi pontefici del novecento, quando il 29 giugno del 1972 – solennità dei Ss. Pietro e Paolo, durante l’omelia che segnava l’inizio del suo decimo anno di Pontificato – sorprendentemente affermò di avere avuto la sensazione che “da qualche fessura era entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”.

Dal resoconto di quella storica Omelia, curata dalla Santa Sede nella pagina web dedicata a Papa Montini, leggiamo: “C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita. E non avvertiamo di esserne invece già noi padroni e maestri. È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. (…) La scuola diventa palestra di confusione e di contraddizioni talvolta assurde. Si celebra il progresso per poterlo poi demolire con le rivoluzioni più strane e più radicali, per negare tutto ciò che si è conquistato, per ritornare primitivi dopo aver tanto esaltato i progressi del mondo moderno”.

In questi giorni, nella chiesa di Santa Maria in Vallicella (Chiesa Nuova), a Roma, si terrà un incontro (promosso dalla Fuci) per ricordare il 49° anniversario dell‘elezione al soglio pontificio di Giovanni Battista Montini, Papa Paolo VI. In questa occasione verrà presentato il libro “Mons. Montini”, dall‘autore Fulvio de Giorgi, docente di storia della pedagogia presso l‘Università di Modena-Reggio Emilia, e dal direttore de “L’Osservatore Romano”, Giovanni Maria Vian.

E’ incredibile osservare l’attualità di pensiero espressa da Paolo VI quarant’anni fa e che ancora oggi ritorna tra le pagine della stampa nostrana e nei luoghi comuni di tanti ingenui lettori: “Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita”.

Sono proprio questi particolari “profeti profani” a catturare oggi le attenzioni e le curiosità di molta gente, annunciatori funesti di misteriose trame e intrighi vaticani capaci di insinuare il dubbio persino sull’aria che respiriamo!

Già il primo Pontefice, per quello spirito di Verità imparato da Cristo, ammoniva: «Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri, i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina, rinnegando il Signore che li ha riscattati. Attirando su se stessi una rapida rovina, molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma per loro la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere» (2 Pt, 2, 1-3).
 
 

giovedì 26 luglio 2012

La Chiesa che vorrei - don Leonardo M. Pompei

Qualche tempo fa una persona, da un lato turbata dall’altro attratta dal mio modo di essere, di pensare e di pormi nell’attuale contesto storico ed ecclesiale, mi chiese con un misto di ironia e di interesse: “mi piacerebbe tanto sapere che tipo di Chiesa vorresti, che tipo di Chiesa sogni”. Scherzando, risposi che forse era il caso di scrivere una canzone alternativa, dal momento che una ben nota (ma non cristianamente raccomandabile!) voce della musica rock italiana ne aveva recentemente scritta una intitolata “il mondo che vorrei”. Forse una canzone è un po’ troppo, ma questo pittoresco episodio mi ha spinto a riflettere davvero su quale potrebbe essere “la Chiesa che vorrei”, memore del fatto che ben noti teologi (vedi per tutti Yves M. Congar) qualche lustro fa si cimentarono con pubblicazioni intitolate “la Chiesa che sogno”. Oggi sono molte (troppe!) le immagini di Chiesa che vengono proposte, sognate e perseguite, molte delle quali, ahimè, più che immagini mi sembrano caricature o veri e propri sgorbi. Dunque perché non dare un piccolo contributo ad un dibattito forse sotterraneo, ma oggi quanto mai vivo ed attuale?

La Chiesa che vorrei è una comunità di uomini e di donne consapevoli della loro altissima vocazione, fieri del nome di cristiano che portano, formati nella dottrina e nella morale, coerenti nelle scelte, fedeli alla legge dell’Altissimo, coraggiosi nella testimonianza, liberi dal rispetto umano, lontani dalle mode.

La Chiesa che vorrei è un popolo ben ordinato nei ruoli, nel governo e nelle articolazioni, dove ciascuno fa bene quel che gli compete, riconosce all’altro ciò che è suo, non crea confusioni con indebite invasioni di campo, non cerca di realizzarsi esattamente nel modo contrario in cui dovrebbe, non viene ammaliato dalle lusinghe e dalle allodole di questo brutto mondo, che anzi affronta, denuncia, combatte senza paura e senza complessi.

La Chiesa che vorrei è una società di uomini e di donne che tendono risolutamente alla santità, che amano Gesù, loro Signore e Dio, con tutto se stessi, senza “se”, senza “ma”, senza “distinguo”, senza sconti, senza remore; ed insieme a Lui amano la sua Immacolata e Santissima Madre, di cui sono fieramente servi, devoti e schiavi d’amore, senza temere di disonorare o diminuire il Figlio onorando la Madre, ma anzi consapevoli che non si può avere Dio per Padre se non si ha Maria per Madre.

La Chiesa che vorrei è il luogo del trionfo dell’Eucaristia, del culto adorante ed incondizionato che fa a gara nel rendere ogni onore, amore e delicatezza a Gesù umiliato nel santissimo sacramento dell’altare, dove si può andare a Messa vivendo uno “squarcio di cielo” e non una ridicola e fracassona pantomima della terra, dove le prediche alimentino la nostra fede anziché farci rischiare di perderla, dove nelle Chiese regni il silenzio, lo splendore del culto, la raffinatezza cercata in tutti i modi e le forme verso il Padrone di casa, dove la santa Comunione sia vissuta come atto di stupore attonito ed adorante verso Colui che tanto si umilia fino a divenire Una cosa sola con noi miserabili, senza che questo autorizzi indebite confidenze o veri e propri sacrilegi, anche quando fossero da qualche incauto permessi o consentiti.

La Chiesa che vorrei è un luogo dove primeggia il sacramento che distrugge l’Inferno e spoglia di ogni potere i demoni, che sia amministrato da Confessori capaci ed illuminati, che facciano quel che faceva san Pio da Pietrelcina che pur di distruggere ogni forma di peccato in un’anima (che è l’unico vero male) non esitava a somministrare medicine amare e terapie severe, ottenendo così che questo mirabile sacramento produca il suo principale e più grande effetto, cioè la conversione, l’abbandono totale, radicale e definitivo del peccato e la scelta ferma e irremovibile della virtù.

La Chiesa che vorrei è un Corpo dove il Capo invisibile sia ben riconoscibile in coloro che lo rappresentano, ovvero i suoi ministri, dal Papa all’ultimo parroco, dove non si nasconda la sublime (e tremenda!) dignità di tale vocazione sotto speciose (e false) apparenze di umiltà, ma si eserciti l’autorità con timore e tremore ma anche con coraggio e fermezza e dove i sudditi siano docili e ubbidienti ai pastori, senza arrogarsi diritti e poteri che non hanno né mai potranno avere.

La Chiesa che vorrei è il luogo in cui le diversificazioni del popolo santo di Dio (principio del suo ordine) siano visibili e percepibili: che i preti siano tali, si mostrino tali (anche nel santo abito!) e facciano i preti e solo i preti, ovvero uomini di Dio incaricati di portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio (e basta!); dove i religiosi siano fieri e orgogliosi della loro sublime vocazione, la più alta e la più perfetta in assoluto, e che tale sia da tutti tenuta e venerata ed aiutino la Chiesa ad “essere ciò che è” con una vita intensissima di orazione e di penitenza (anche per coloro che non credono, non pregano e non si mortificano), si glorino dell’obbedienza e dell’augusta povertà, si vantino santamente della gemma splendente della purezza e della castità, resa visibile e percepibile in tutto il loro portamento modesto, casto, mortificato.

La Chiesa che vorrei è il luogo delle famiglie sante e numerose, in cui siano completamente aboliti i maledetti crimini del mondo contemporaneo, quali aborto, contraccezione e divorzio, dove il fidanzamento sia vissuto nella castità e nella santità, il matrimonio scelto solo per vocazione e come vocazione, e dove i genitori tornino ad educare i figli, come dice san Paolo, nella disciplina del Signore e non secondo i modelli che i ragazzi imparano dai loro coetanei o dal Grande Fratello.

La Chiesa che vorrei è quella in cui i laici, anziché concepire la loro “promozione” come progressiva assunzione di compiti clericali (sull’altare e fuori…), ricordino che il campo della loro elezione non è il Tempio, la sacrestia o i luoghi ad essi connessi, ma il mondo da evangelizzare e da convertire, in cui solo loro possono (e devono!) operare per raggiungere coloro che i sacri ministri, che hanno lasciato il mondo pur essendo inviati al mondo, non possono in alcun modo incontrare. Dove non ci sia, in altre parole, la “clericalizzazione dei laici” e la “secolarizzazione dei preti e dei religiosi”.

La Chiesa che vorrei è il luogo in cui, come Gesù volle e chiese al Padre, si viva e percepisca la carità a tutti i livelli, nei rapporti tra i fedeli, nella carità dei pastori verso i fedeli, nella sollecitudine amorevole (in luogo delle chiacchiere maldicenti e, talora, calunniose) dei fedeli verso i pastori, dove si faccia a gara nello stimarsi a vicenda, ci sia un’attenzione agli ultimi non perché siamo la prima azienda di operatori sociali ma perché nostro Signore ha detto che negli ultimi c’è Lui che vuole essere amato e servito.

La Chiesa che vorrei è il luogo dove il dialogo non diventa uno strumento di resa nei confronti di chi non ha avuto la grazia di avere la pienezza della Rivelazione, né un modo per livellare tutte le religioni e tutte le opinioni a pari “diritto di cittadinanza” (che non hanno e non possono avere), né un bavaglio sule labbra di coloro che si consumano e soffrono nel predicare il Vangelo fino ai confini della terra, ma, conformemente ai voleri ed allo stile del suo Fondatore, un modo dolce e delicato, umile e mite, sereno e pacato (ma mai timido e arrendevole) di portare agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, l’unica Verità, l’unica Salvezza, l’unica Via per la redenzione.

La Chiesa che vorrei, infine, è il luogo in cui si predica la Verità tutta intera, comprese (soprattutto) quelle verità bandite e combattute dal mondo contemporaneo, ma che sono le più urgenti e le più importanti per la loro valenza salvifica: l’esistenza dell’Inferno e della possibilità reale (ed effettiva) di dannazione eterna per chi vive lontano da Dio e così persevera fino alla morte; la conseguente (o meglio antecedente) verità dell’esistenza e della malvagità dei demoni e l’azione ordinaria (ed anche talora straordinaria) che esercitano contro gli uomini; l’intrinseca cattiveria di ogni atto commesso in violazione del sesto comandamento (prima e durante il matrimonio), dato che la rivoluzione sessuale non lo ha abolito, ma ne ha reso ancor più difficile l’osservanza in un mondo corrotto e corruttore; la condanna ferma delle mode oscene ed indecenti a cui assistiamo quotidianamente d’inverno e d’estate; una ferma attenzione (insieme ad una prudente apertura) ai moderni mezzi di comunicazione sociale, da cui bisogna imparare a difendersi prima di cominciarli ad usare (come doveroso) per la gloria di Dio e per il bene; la Giustizia di Dio, che affianca e rende comprensibile la sua misericordia; un luogo dove presto trionfi il Cuore Immacolato di Maria anche con la promulgazione dell’atteso quinto dogma che riconosca l’Immacolata come Corredentrice, Mediatrice ed Avvocata universale dell’umanità; la ricompensa eterna e la gloria, infine, per quelle anime che, in mezzo a tante tribolazioni, oltraggi e derisioni, hanno ancora oggi il coraggio di lottare e di sognare una Chiesa più bella, una Chiesa più santa, una Chiesa… più Chiesa… la Chiesa che vorrei…

Don Leonardo M. Pompei


mercoledì 25 luglio 2012

Il sacrificio di Melchisedec figura del sacrificio della Eterna Alleanza - S.Cipriano

Il sacrificio di Isacco e l'oblazione di Melchisedech
Basilica di San Vitale
Ravenna, Italy
Nella storia del sacerdote Melchisedec noi troviamo una figura profetica del sacrificio del Signore. La Scrittura dice: “ E Melchisedech, re di Salem, portò il pane e il vino. Egli era sacerdote dell’Altissimo e benedisse Abramo” (Gen.14,18). Che Melchisedec fosse una figura di Cristo, è ciò che rivela nei Salmi lo Spirito Santo parlando a nome del Padre rivolgendosi al Figlio: “Io ti ho generato prima della stella del mattino. Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec (Ps.109,3-4). Questo ordine si riferisce a questo sacrificio, e al suo inizio nel fatto che Melchisedec fu sacerdote dell’Altissimo, che offrì il pane e il vino,che benedisse Abramo.
Chi infatti fu più sacerdote dell’Altissimo che Nostro Signore Gesù Cristo, che offrì un sacrificio a Dio suo Padre, lo stesso che Melchisedec aveva offerto, ossia il pane e il vino, cioè il suo corpo e il suo sangue? E nella persona di Abramo questa benedizione riguarda il nostro popolo. Perché se Abramo credette in Dio, ciò gli fu imputato a giustizia, chiunque crede in Dio e vive della fede, è trovato giusto, già da tempo egli è benedetto e giustificato nel fedele Abramo, come ci mostra la parola di San Paolo: "Abramo credette in Dio e ciò gli fu imputato a giustizia. Sappiate dunque che i veri figli di Abramo sono quelli che hanno la fede. E La Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i Gentili per mezzo della fede, annunciò ad Abramo che tutte le nazioni sarebbero state benedette in lui.” (Gal.3,6.9).
Così dunque perché il sommo sacerdote Melchisedec, come si narra nella Genesi, potesse convenientemente benedire Abramo, vi fu dapprima l’immagine del sacrificio consistente nell’offerta del pane e del vino. E il Signore, portando a perfezione ed adempiendo il sacrificio simbolico, offrì il pane e il calice con il vino, e Colui che è la pienezza di tutte le cose ha realizzato ciò che questa figura annunciava. Anche per mezzo di Salomone lo Spirito Santo ci mostra il tipo del sacrificio del Signore, nel fare menzione della vittima immolata, del pane, del vino e anche dell’altare: La Sapienza- dice- si è costruita una casa e vi ha drizzato sette colonne. Essa ha immolato le sue vittime, ha mescolato nel cratere il vino all’acqua e ha imbandito la mensa. Poi essa ha inviato i suoi servi invitando ad alta voce a venire ad attingere dal suo cratere : Chi è semplice, entri qua! E a quelli ancora inesperti io dico: Venite, mangiate il mio pane e bevete il vino preparato per voi (Prov. 9,1-5).

San Cipriano Liber 2, Ep.3 sub init. (ep.63)

martedì 24 luglio 2012

La conoscenza implicita di Dio - Giovanni Cavalcoli

La comunione degli Apostoli, Beato Angelico, Convento di s.Marco, Firenze

 

Come è noto, il Concilio Vaticano II parla di una possibilità di salvezza anche per coloro che non giungono ad una conoscenza “esplicita” di Dio: il che fa ovviamente pensare ad una conoscenza “implicita”. Ma cosa intende esattamente il Concilio con tale espressione, nuova nella storia degli insegnamenti magisteriali su questo tema importantissimo? È abbastanza nota la risposta di Rahner: egli la interpreta, secondo i princìpi del suo sistema, come “esperienza trascendentale” apriorica, coscienziale e preconcettuale dell’essere divino come essere assoluto e totale, possibile anche nel caso di un ateismo conscio, verbale ed esplicito o, come egli dice, “categoriale”.
Ma, come ho cercato di dimostrare in un mio recente libro sul pensiero di Rahner (Karl Rahner. Il Concilio tradito, Fede&Cultura, 2009), qui Rahner commette un duplice grave errore.
Primo, è assurdo ritenere possibile simultaneamente un teismo implicito e un ateismo esplicito. Non ha senso affermare e negare Dio simultaneamente, seppure a due livelli distinti della coscienza. La modalità del sapere – implicito e esplicito – non risolve la contraddizione presente in un contenuto contraddittorio.
Secondo, questa esperienza trascendentale con i suddetti attributi, in realtà non esiste o – come pure ho cercato di dimostrare nel mio citato libro – è un qualcosa che ricorda i caratteri del sapere divino, il quale non può convenire all’uomo, se non vogliamo confondere il sapere divino col sapere umano.
Allora, come possiamo interpretare esattamente l’insegnamento del Concilio, secondo un principio di sana filosofia e inquadrandolo nella tradizione magisteriale della Chiesa?
Ho parlato di novità di questo insegnamento conciliare, inquantochè fino al momento del Concilio la dottrina tradizionale era quella di san Tommaso, il quale ammette sì una conoscenza implicita di Dio, ma non ancora sufficiente per la salvezza, perché a tal fine, dice l’Aquinate, occorre una conoscenza esplicita.
Il Dottore Angelico tratta di questo argomento nell’art.2 dell’importante
Questione disputata De Veritate. In essa l’Aquinate ammette una conoscenza implicita di Dio con queste parole: «Tutti i conoscenti conoscono implicitamente Dio in qualunque oggetto conosciuto» (ad 1m). Ora, come si comprende bene dal contesto, qui san Tommaso si riferisce alla percezione spontanea ed universale di valori trascendentali, come il vero e il bene.
È chiaro che conoscere questi valori non è ancora conoscere Dio, benchè, come osserva san Tommaso, essi abbiano indubbiamente un riferimento a Dio, in quanto Dio è somma verità e sommo bene.
Tuttavia, per san Tommaso, questa conoscenza non è ancora una vera e propria conoscenza di Dio perché, per ottenerla, come egli insegna in altri luoghi ed è soprattutto insegnamento della Chiesa, la conoscenza di Dio si ottiene applicando, almeno implicitamente, il principio di causalità, che è un principio fondamentale della ragione. Ecco perché la tradizione teologica cattolica dice che l’esistenza di Dio si può dimostrare con un ragionamento.
Ma dobbiamo aggiungere dell’altro. La Sacra Scrittura ci insegna che di fatto ogni uomo, nel momento in cui mette in atto in modo corretto la sua ragione, giunge spontaneamente e necessariamente a sapere che Dio esiste, interrogandosi su quella che è l’origine del mondo e rendendosi conto che il mondo, non avendo in se stesso la propria ragion d’essere, deve necessariamente essere causato – la Bibbia dice “creato” – da una causa proporzionata, superiore e suprema, che già Aristotele chiamava “causa prima” e “motore immobile”, ciò che in teologia naturale chiamiamo “Dio”.
Ma il discorso non è ancora finito. Per il Vangelo non soltanto ogni uomo sa che Dio esiste, ma, magari implicitamente, sta in qualche modo sempre alla presenza di Cristo, come è chiaramente insinuato dal Prologo del Vangelo di Giovanni, dove è detto che il Logos illumina ogni uomo, e come lascia capire chiaramente lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo, allorchè in Mt 25 ci avverte tutti che al momento della nostra morte dovremo presentarci davanti al suo Tribunale di giustizia e di misericordia.
Ora, se è evidente che sul piano della vita civile ogni cittadino sa a quale tribunale deve rendere conto nel caso che egli disobbedisca alla legge, ciò sarà tanto più evidente sul piano della giustizia divina. Dal che dunque, come si voleva dimostrare, si deduce che ogni uomo, magari implicitamente, sa di dover rendere conto a Cristo delle opere da lui compiute in questa vita.
Ho detto “implicitamente”. È qui che troviamo il vero significato della conoscenza implicita, della quale parla il Concilio; però in questo stesso momento ci accorgiamo di come il Concilio aggiunga un nuovo elemento alla concezione tomistica, elemento che non è di rottura con essa, ma al contrario di esplicitazione e di arricchimento.

Per comprendere questo, però, sarà bene fare una distinzione tra quello che io chiamerei implicito “potenziale” ed implicito “virtuale”. Il primo corrisponde alla dottrina tradizionale di san Tommaso e lo chiamo “potenziale”, perché è un implicito che può attuarsi in una virtualità che non è ancora un vero e proprio esplicito.
Il secondo invece rappresenta l’elemento di novità introdotto dal Concilio. Volendo essere più precisi nel chiarire questa conoscenza implicita, può essere dunque utile ricordare quanto avviene nella parabola di Mt 25: il Signore ringrazia coloro che disinteressatamente hanno fatto del bene al prossimo. Costoro si meravigliano, ma Gesù dice loro le famose parole: «Quello che avete fatto a uno dei più piccoli, l’avete fatto a Me».
Chiamerei “virtuale” questo tipo di conoscenza, intendendo con il linguaggio scolastico per “virtuale” qualcosa di reale, ma che ancora non si esprime in una forma esplicita. In questo senso, anche nel linguaggio corrente parliamo di virtù intendendo qualcosa di reale posseduto dal soggetto, ma che attualmente può non esprimere. Per esempio, possiamo dire di un violinista che è un “virtuoso”, per
dire che possiede una buona capacità di suonare il violino, anche se sul momento non lo suona.
Che cosa significano allora le suddette parole del Signore? Esse possono essere appunto riferite alla conoscenza implicita di Dio della quale parla il Concilio: queste persone oneste, servendo il prossimo nella carità, hanno implicitamente servito Dio loro Creatore e Salvatore, magari senza volgere esplicitamente il pensiero a Cristo nel momento in cui esercitavano questi atti di carità.
Per quanto poi riguarda il problema dell’ateismo, da queste premesse dovrebbero discendere delle conseguenze abbastanza serie. Certo tutto sta a vedere cosa intendiamo per “ateismo”. La tradizione cattolica ha sempre considerato l’ateismo come grave colpa e ciò è confermato dallo stesso Concilio (Gaudium et Spes, n. 19), in quanto per ateismo si è sempre inteso quell’atteggiamento della volontà col quale l’uomo o rifiuta di applicare il principio di causalità, finendo pertanto col fare di sé o del mondo un idolo, o, se è giunto a sapere che Dio c’è, lo respinge dai suoi interessi e quindi non obbedisce alla sua santa legge.
In questo senso non può esistere un ateo in buona fede, ossia non può esistere un’ignoranza invincibile circa l’esistenza di Dio. È come dire che non può esistere una dimostrazione razionale che Dio non esiste, in quanto, essendo vero il contrario, tale dimostrazione si presenta come impossibile. Il che significa che sostenere che
Dio non esiste è cosa irragionevole o contraria alla ragione.
Tutt’al più, se vogliamo proprio parlare di un ateismo in buona fede, potremo riferirci ad un equivoco sul concetto di Dio, in modo tale che il cosiddetto “ateo”, in realtà, non lo è perché rifiuta un falso concetto di Dio, magari presentatogli come vero da credenti che non sanno quello che dicono.
In questo caso il supposto ateo può avere un rapporto implicito con Dio che lo conduce alla salvezza.



Giovanni Cavalcoli

fonte: http://www.formazioneteologica.it

L'Evangelo come mi è stato rivelato -

Gesù parla: «Uno degli errori facili nell'uomo è la mancanza di onestà anche verso se stesso. E dato che l'uomo è difficilmente since­ro e onesto, ecco che da se stesso si è creato un morso per esse­re obbligato ad andare per la via che ha detto. Morso che, del resto, egli, come cavallo indomito, presto si sposta modifican­do a suo piacere l'andare, o si leva del tutto facendo il suo co­modo senza più riflessione a ciò che può ricevere di rimprove­ro da Dio, dagli uomini e dalla sua propria coscienza. Questo morso è il giuramento. Ma non è necessario il giuramento fra gli onesti, e Dio, di suo, non ve lo ha insegnato. Anzi vi ha fat­to dire: "Non dire falso testimonio" senza altra aggiunta. Per­ché l'uomo dovrebbe essere schietto senza bisogno di altro che della fedeltà alla sua parola. Quando nel Deuteronomio si parla dei voti, anche dei voti che sono una cosa sorta da un cuore che si pensa fuso a Dio o per sentimento di bisogno o per sentimento di riconoscenza, è detto: "La parola uscita una volta dalle tue labbra la devi mantenere, facendo quanto hai promesso al Signore Iddio tuo, quanto di tua volontà e di tua bocca hai detto".
Sempre si parla di parola data, senza altro che la parola. Colui che sente il bisogno di giurare è perché è già insicu­ro di se stesso e del concetto del prossimo a suo riguardo. E chi fa giurare testifica con quell'esigenza che diffida della sin­cerità e onestà del giurante. Come vedete, questa abitudine del giuramento è una conseguenza della disonestà morale del­l'uomo. Ed è una vergogna per l'uomo. Doppia vergogna, per­ché l'uomo non è fedele neppure a questa cosa vergognosa che è il giuramento e irridendosi di Dio, con la stessa facilità con cui si irride del prossimo, giunge a spergiurare con la massi­ma facilità e tranquillità.
Vi può essere creatura più abbietta dello spergiuro? Co­stui, usando sovente una formola sacra, e chiamando perciò a suo complice e mallevadore Iddio, o usando l'invocazione degli affetti più cari - il padre, la madre, la moglie, i figli, i suoi morti, la sua stessa vita e i suoi organi più preziosi, invocati ad appoggio del suo bugiardo dire - induce il suo prossimo a credergli. Lo conduce perciò in inganno.
E’ un sacrilego, un ladro, un traditore, un omicida. Di chi? Ma di Dio, perché me­scola la Verità all'infamia della sua menzogna e lo sbeffeggia sfidandolo: "Colpiscimi, smentiscimi, se puoi. Tu sei là, io son qua e me ne rido - Oh! sì! Ridete, ridete pure, o mentitori e beffeggiatori! Ma vi sarà un momento che non riderete, e sarà quando Colui a cui ogni potere è deferito vi apparirà terribile nella sua mae­stà e solo col suo aspetto vi farà atterriti e solo coi suoi sguar­di vi fulminerà, prima, prima ancora che la sua voce vi preci­piti nel vostro destino eterno marcandovi della sua maledizione.
E’ un ladro perché si appropria di una stima che non meri­ta. Il prossimo, scosso dal suo giurare, gliela dona, e il serpen­te se ne orna fingendosi ciò che non è.
E’ un traditore perché col giuramento promette cose che non vuole mantenere. E’ un omicida perché, o uccide l'onore di un suo simile levandogli col falso giuramento la stima del prossimo, o uccide la sua ani­ma, perché lo spergiuro è un abbietto peccatore agli occhi di Dio, i quali, anche se nessun altro vede la verità, la vedono. Dio non si inganna né con false parole, né con ipocrite azioni. Egli vede. Non perde per un attimo di vista ogni singolo uo­mo. E non vi è munita fortezza, né profonda cantina, dove non possa penetrare il suo sguardo. Anche nell'interno vostro, la fortezza singola che ogni uomo ha intorno al suo cuore, pene­tra Iddio. E vi giudica non per quello che giurate ma per quel­lo che fate. Perciò Io, all'ordine che vi fu dato, quando fu messo in auge il giuramento per mettere freno alla menzogna e alla fa­cilità di mancare alla parola data, sostituisco un altro ordine.
Non dico come gli antichi: "Non spergiurare, ma anzi man­tieni i tuoi giuramenti", ma vi dico: "Non giurate mai". Né per il Cielo che è trono di Dio, né per la terra che è sgabello ai suoi piedi, né per Gerusalemme e il suo Tempio che sono la città del gran Re e la casa del Signore Iddio nostro. Non giurate né sulle tombe dei trapassati né sui loro spiriti. Le tombe sono piene di scorie di ciò che è inferiore nell'uo­mo e comune col bruto, gli spiriti lasciateli nella loro dimora. Fate che non soffrano e inorridiscano, se spiriti di giusti che già sono nella precognizione di Dio. E per quanto sia una pre­cognizione, ossia cognizione parziale, perché fino al momento della Redenzione non possederanno Dio nella sua pienezza di splendori, non possono non soffrire del vedervi peccatori. E, se giusti non sono, non aumentate il loro tormento dall'aver ricordato col vostro il loro peccato. Lasciate, lasciate i morti santi nella pace, i morti non santi nelle loro pene. Non levate ai primi, non aggiungete ai secondi.

Perché appellarsi ai mor­ti? Non possono parlare. I santi perché la carità loro lo vieta: vi dovrebbero smentire troppe volte. I dannati perché l'Infer­no non apre le sue porte e i dannati non aprono le bocche che per maledire, e ogni voce resta soffocata dall'odio di Satana e dei satana, perché i dannati satana sono. [...]

lunedì 23 luglio 2012

Papa Benedetto XVI alle Equipe Notre Dame: Gli sposi cristiani sono il volto sorridente della Chiesa



Gli sposi cristiani siano “il volto sorridente della Chiesa, i migliori messaggeri dell’amore nutrito dalla fede”: questo il messaggio indirizzato da Benedetto XVI ai partecipanti all’11.mo Incontro internazionale del movimento di spiritualità coniugale “Equipes Nôtre Dame”. L’evento, ch
e si è aperto ieri a Brasilia, è incentrato sul tema “Osare il Vangelo”. Ce ne parla Isabella Piro:

È un messaggio di speranza quello che il Papa ha inviato alle migliaia di partecipanti al convegno delle Equipes Nôtre Dame, il movimento di spiritualità coniugale nato nel 1939 su iniziativa del sacerdote francese padre Henri Caffarel. Nel messaggio, a firma del cardinale segretario di Stato Bertone, e letto durante la cerimonia inaugurale dell’Incontro, il Pontefice non nasconde “i problemi e le difficoltà che il matrimonio e la famiglia sperimentano oggi, circondati da un clima di crescente secolarizzazione”. Di fronte a tale realtà, dunque, sono proprio gli sposi cristiani a proclamare “le verità fondamentali sull’amore umano ed il suo significato più profondo”, ovvero – come diceva Paolo VI – “un uomo e una donna che si amano, il sorriso di un bambino, la pace di un focolare”, perché in tutto questo si intravede “il riflesso di un altro amore”, quello infinito di Dio.

Certo, scrive il Papa, “questo ideale può sembrare troppo alto” ed è qui che le Equipes Nôtre Dame danno il loro contributo non solo incoraggiando la vicinanza ai sacramenti, ma anche proponendo “suggerimenti semplici e concreti per vivere nel quotidiano la spiritualità di sposi cristiani”. Un suggerimento in particolare sottolinea Benedetto XVI: “il dovere di sedersi”, ossia “l’impegno a mantenere periodicamente un tempo di dialogo personale tra i coniugi”, in cui gli sposi presentano ed ascoltano “con totale sincerità” i problemi “più importanti nella vita di coppia”. Tanto più, continua il Papa, che il mondo attuale, segnato da “individualismo, attivismo, fretta e distrazione” rende “essenziale” il dialogo “sincero e costante tra gli sposi”, così da evitare “incomprensioni che spesso finiscono in rotture insanabili”.

Ricordando, poi, gli insegnamenti del Concilio Vaticano II che “ha offerto alla Chiesa un volto rinnovato del valore dell’amore umano e della vita coniugale e familiare”, il Santo Padre invita i coniugi cristiani ad “essere il volto sorridente e dolce della Chiesa, i migliori e più convincenti messaggeri della bellezza dell’amore sostenuto e nutrito dalla fede, dono di Dio offerto a tutti”, per “scoprire il senso della vita”.

In corso fino al 26 luglio, l’11.mo Incontro internazionale delle “Equipes Nôtre Dame” ha visto una lunga preparazione, durata tre anni, alla quale hanno partecipato oltre 700 volontari. Più di 7mila i partecipanti all’evento ed oltre 400 i sacerdoti presenti, provenienti da tutto il mondo.


RADIO VATICANA


22/07/2012 9.05.00

La lotta di Santa alla Chiesa e all'umanità - don Marcello Stanzione


Ancora oggi, nel ventunesimo secolo, quando si parla di Satana e di demonio, molti tornano con la mente alle truculenti descrizioni che Dante Alighieri fa dei diavoli nell’Inferno della sua Divina Commedia, oppure lo immaginano con tanto di corna, coda e forchettone in mezzo alle fiamme, come è rappresentato dall’iconografia medievale.
Ora, per avere delle idee chiare sul demonio, bisogna liberarsi da queste immagini alquanto infantili. La fede della Chiesa, riguardo all’esistenza ed all’azione malefica del demonio, si basa sulla testimonianza della Bibbia, che è parola di Dio sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
Gesù si è presentato costantemente come il Vincitore di Satana e dei demoni: Egli infatti, nel Vangelo, affronta personalmente Satana e riporta su di lui la vittoria (Mt 4, 11; Gv 12, 31).
Cristo affronta anche gli spiriti maligni che hanno potere sull’umanità peccatrice e li vince nel loro dominio. Affrontando la malattia, Gesù affronta Satana, e quindi anche dando la guarigione trionfa su di lui. I demoni si ritenevano insediati quaggiù da padroni: Gesù è venuto a sconfiggerli (Mc 1, 24). Dinanzi all’autorità che Egli manifesta nei loro confronti, i suoi nemici l’accusano: “Egli scaccia i demoni in virtù di Beelzebul, principe dei demoni” (Mc 3, 22); “Non sarebbe per caso anch’egli posseduto dal demonio?” (Mc 3, 30; Gv 7, 20; 10, 20s), si chiedono i suoi calunniatori. Ma Gesù dà la vera spiegazione: Egli scaccia i demoni in virtù dello Spirito di Dio e ciò prova che il Regno di Dio è giunto fino agli uomini. Ormai gli esorcismi si faranno nel Nome di Gesù (Mt 7, 22; Mc 9, 38). Cristo, mandando in missione suoi discepoli, comunica loro il potere di sconfiggere i demoni (Mc 6, 7-13).
Questo sarà per tutti i secoli. E anche oggi, infatti, uno dei segni che accompagna la predicazione del Vangelo è la presenza degli esorcisti in seno alla Chiesa. Comunque, anche il concetto di diavolo, come tutte le verità della fede cristiana, è stato progressivamente rivelato e compreso. Nel Nuovo Testamento il diavolo è il più diretto avversario di Dio, il tentatore e seduttore degli uomini. E’ pure chiamato Beelzebul o Satana. Nell’Antico Testamento, Satana è un nome comune che significa accusatore in un processo, avversario. Nel Libro di Giobbe (2,1), si parla di Satana come di un essere che mette alla prova gli uomini. Nel primo libro delle Cronache 21,1, Satana sembra già il nome proprio di un essere personale. A poco a poco si sviluppò tra gli Israeliti la concezione di Satana, avversario di Dio, che rende gli uomini schiavi del peccato. Il diavolo, quindi, non è un concetto astratto, non è una personificazione fantastica del male, ma è una realtà concreta, una persona, o meglio un insieme di persone ben definite. E’ una creatura di Dio, quindi originariamente buona. E’ un puro spirito, dotato di capacità molto superiori alle nostre; ma si è irrimediabilmente pervertito in conseguenza del suo essersi ribellato a Dio.

Satana è diventato così l’antagonista di Dio che si oppone in tutti i modi al suo Regno, tentando gli uomini al male. La tentazione è una suggestione che egli esercita sulle facoltà superiori dell’uomo (soprattutto la fantasia): di fronte alla tentazione, l’uomo conserva intatta la propria libertà e responsabilità. In certi rari casi, che devono essere scientificamente accertati, il diavolo, permettendolo Dio, può disturbare anche il corpo dell’uomo con malattie e danni di vario genere. Uno degli aspetti essenziali della vita del cristiano, sia singolarmente che come membro della Chiesa, è la lotta contro il demonio. Nel passato, forse, si è insistito troppo su tale aspetto, e con accenti eccessivamente terroristici, per cui in alcuni si era creata una fissazione demonopatica; oggi, viceversa, questa lotta contro il potere delle tenebre è piuttosto trascurata. Come sappiamo dalla Rivelazione e dal Magistero della Chiesa, i demoni sono creature che tentano l’uomo al male.
Di qui la necessità, da parte dell’uomo, di difendersi e di lottare contro di essi per ottenere la salvezza. La vittoria contro il demonio si raggiunge soltanto in Cristo che è il vincitore di Satana, capo dei demoni. L’azione del demonio, sebbene tutta protesa ad offendere Dio e a danneggiare l’uomo, è controllata dal potere divino, che utilizza il Maligno per esercitare l’uomo nella virtù ed aumentare così lo splendore della gloria divina. Il demonio non danneggia l’uomo tanto quanto vorrebbe, ma solo fin dove la Provvidenza divina glielo consente, al fine di provare l’uomo nella virtù e condurlo proprio a quella salvezza che il demonio non vorrebbe. Il demonio invece gode di una maggiore libertà di nuocere se è l’uomo stesso che, con il suo peccato, gli lascia lo spazio per agire. Il demonio intende danneggiare l’uomo sia nel corpo che nello spirito.

Egli arreca il danno fisico o di propria iniziativa, e allora si ha il fenomeno della cosiddetta possessione o ossessione diabolica, o perché sollecitato da qualche creatura umana male intenzionata, e abbiamo allora la stregoneria o magia nera, che - da parte dell’uomo che commette tale azione - costituisce un grave peccato di superstizione. Nella sua azione contro la dimensione psicofisica della persona, il demonio provoca delle grandi sofferenze psicologiche. Ma l’azione che è da considerarsi come la più dannosa è quella tesa ad istigare al peccato ed è quella che occorre maggiormente temere. Le tre sorgenti della tentazione al peccato sono, secondo la Tradizione spirituale cristiana, la carne, il mondo ed il Demonio.
La tentazione cosiddetta della carne è quella che viene da noi stessi, dai nostri vizi, dalle nostre debolezze. Alcuni peccati sono più legati al corpo, come ad esempio la gola o la lussuria…; altri sono maggiormente connessi alla vita psico-spirituale, come ad esempio la superbia, l’invidia, la menzogna, l’ipocrisia.

La tentazione del mondo è quella che viene dagli altri uomini, dall’ambiente umano nel quale viviamo, dai nostri nemici dichiarati o dai falsi amici, cioè dagli ipocriti che ci spingono a peccare mediante l’attrattiva dei piaceri, degli onori, delle ricchezze e della gloria umana. Vi sono poi, anche coloro che ci opprimono, ci provocano, ci tormentano in vario modo, rendendoci difficile la pratica della virtù.
La tentazione del demonio non è facile da riconoscere, ma la Sacra Scrittura ci comanda espressamente di guardarci dalle tentazioni diaboliche e di vigilare (1 Pt 5,8-9). Il regno delle tenebre del demonio è l’instaurazione nel nostro mondo di una Anti-Chiesa, cioè di un regno della menzogna (darwinismo, marxismo, scientismo), dell’immoralità (libera droga, matrimoni omosessuali, pornografia, aborto ed eutanasia di stato) e dell’ateismo e dell’incredulità (il relativismo che Papa Benedetto XVI continuamente denuncia), quindi di un potere organizzato ed efficiente del male che, servendosi di strumenti e strutture politiche, economiche, sociali e culturali tiene l’umanità in sua balìa, impedendo a grandi masse umane, specie giovanili, di conoscere la verità, di vivere secondo la retta legge morale e di conoscere e di adorare Dio ed il suo Figlio Gesù Cristo crocifisso e risorto per la nostra salvezza.

Non dimentichiamo mai di invocare nella lotta contro lo spirito delle tenebre il potentissimo arcangelo San Michele ed i Santi angeli di Dio. Benedetto XVI, riguardo a San Michele, nell’omelia per l’ordinazione di sei nuovi Vescovi il 29 settembre 2007, ha affermato: “Di questo Arcangelo si rendono evidenti due funzioni. Egli difende la causa dell’unicità di Dio contro la presunzione del drago, del “serpente antico”, come dice Giovanni.

E’ il continuo tentativo del serpente di far credere agli uomini che Dio deve scomparire, affinché essi possano diventare grandi; che Dio ci ostacola nella nostra libertà e che perciò noi dobbiamo sbarazzarci di Lui. […]Chi accusa Dio, accusa anche l’uomo. La fede in Dio difende l’uomo in tutte le sue debolezze ed insufficienze: il fulgore di Dio risplende su ogni singolo. […] L’altra funzione di Michele, secondo la Scrittura, è quella di protettore del popolo di Dio”. E’ importante invocare il Principe delle schiere angeliche in particolar modo con la preghiera composta da Leone XIII e raccomandata anche dal Servo di Dio il Papa Giovanni Paolo II: “San Michele arcangelo, difendici nella battaglia; contro le malvagità e le insidie del diavolo sii nostro aiuto. Ti preghiamo supplici: che il Signore lo comandi! E tu, principe delle milizie celesti, con la potenza che viene da Dio, ricaccia nell’inferno satana e gli altri spiriti maligni, che si aggirano per il mondo a perdizione delle anime”.

Don Marcello Stanzione




domenica 22 luglio 2012

Il maligno cerca sempre di rovinare la Pace di Dio - Papa Benedetto XVI


All'Angelus, Benedetto XVI parla del significato del tema del Buon Pastore. Solidarietà per le famiglie delle vittime di Aurora e dello Zanzibar. Le Olimpiadi di Londra siano "occasione per promuovere fraternità e pace".

22/07/2012 12:39 L'Angelus del Papa,oggi nel giorno in cui la Chiesa ricorda S.Maria Maddalena...auguri a quanti portano il suo nome!


Castel Gandolfo (AsiaNews) - "Il maligno cerca sempre di rovinare l'opera di Dio, seminando divisione nel cuore umano, tra corpo e anima, tra l'uomo e Dio, nei rapporti interpersonali, sociali, internazionali, e anche tra l'uomo e il creato. Il maligno semina guerra; Dio crea pace". E' l'insegnamento che Benedetto XVI propone, all'Angelus, prendendo spunto dall'episodio del Vangelo di oggi, che racconta di quando Gesù cacciò da Maria Maddalena "sette demoni".

Nelle parole rivolte alle tremila persone presenti nel cortile interno del Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, il Papa, dopo la recita della preghiera marina, ha anche rivolto un augurio all'ormai prossima Olimpiadi di Londra e ha espresso la propria vicinanza alle famiglie delle vittime delle tragedie di Aurora, negli Stati Uniti e nello Zanzibar.

Prima dell'Angelus, Benedetto XVI ha dunque ricordato che "la Parola di Dio di questa domenica ci ripropone un tema fondamentale e sempre affascinante della Bibbia: ci ricorda che Dio è il Pastore dell'umanità. Questo significa che Dio vuole per noi la vita, vuole guidarci a buoni pascoli, dove possiamo nutrirci e riposare; non vuole che ci perdiamo e che moriamo, ma che giungiamo alla meta del nostro cammino, che è proprio la pienezza della vita. E' quello che desidera ogni padre e ogni madre per i propri figli: il bene, la felicità, la realizzazione".

L'episodio della Maddalena, ha proseguito il Papa, mostra che "la guarigione profonda" che Dio opera mediante Gesù "consiste in una pace vera, completa, frutto della riconciliazione della persona in se stessa e in tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri, con il mondo", che è l'opposto di ciò che tenta di fare il male.

"Per compiere questa opera di riconciliazione radicale Gesù, il Pastore Buono, ha dovuto diventare Agnello, «l'Agnello di Dio ... che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). Solo così ha potuto realizzare la stupenda promessa del Salmo: «Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne / tutti i giorni della mia vita, / abiterò ancora nella casa del Signore / per lunghi giorni» (22/23,6)". "Queste parole ci fanno vibrare il cuore, perché esprimono il nostro desiderio più profondo, dicono ciò per cui siamo fatti: la vita, la vita eterna".

Una "occasione per promuovere fraternità e pace" possono essere, ha auspicato Benedetto XVI, anche le Olimpiadi. "Tra qualche giorno - ha detto - avrà inizio, a Londra, la XXX edizione dei Giochi Olimpici. Le Olimpiadi sono il più grande evento sportivo mondiale, a cui partecipano atleti di moltissime nazioni, e come tale riveste anche un forte valore simbolico. Per questo la Chiesa Cattolica guarda ad esse con particolare simpatia e attenzione. Preghiamo affinché, secondo la volontà di Dio, i Giochi di Londra siano una vera esperienza di fraternità tra i popoli della Terra". "possano - ha aggiunto in inglese - portare frutti, promuovendo la pace e la riconciliazione nel mondo".

Ancora in inglese, Benedetto XVI ha detto di essere stato "Profondamente colpito dall'insensata violenza che ha avuto luogo ad Aurora, Denver" e di essere "addolorato dalla perdita di vite umane nel recente disastro del traghetto in Zanzibar. Condivido l'angoscia delle famiglie e degli amici delle vittime e dei feriti, specialmente bambini. Assicuro tutti - ha concluso -della mia vicinanza nella preghiera".



Lettera di Sua Santità Benedetto XVI al Preposito Generale della Compagnia di Gesù in occasione del 50° anniversario dell’Enciclica Haurietis Aquas


Al Reverendissimo Padre
PETER-HANS KOLVENBACH, S.I.
Preposito Generale della Compagnia di Gesù

Le parole del profeta Isaia - "Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza" (Is 12,3) - che aprono l'Enciclica con cui Pio XII ricordava il primo centenario dell'estensione all'intera Chiesa della Festa del Sacro Cuore di Gesù - oggi, 50 anni dopo, non hanno perso nulla del loro significato. Nel promuovere il culto al Cuore di Gesù, l'Enciclica Haurietis aquas esortava i credenti ad aprirsi al mistero di Dio e del suo amore, lasciandosi da esso trasformare. A cinquant'anni di distanza resta compito sempre attuale dei cristiani continuare ad approfondire la loro relazione con il Cuore di Gesù in modo da ravvivare in se stessi la fede nell'amore salvifico di Dio, accogliendolo sempre meglio nella propria vita.
Il costato trafitto del Redentore è la sorgente alla quale ci rimanda l'Enciclica Haurietis aquas: a questa sorgente dobbiamo attingere per raggiungere la vera conoscenza di Gesù Cristo e sperimentare più a fondo il suo amore. Potremo così meglio comprendere che cosa significhi conoscere in Gesù Cristo l'amore di Dio, sperimentarlo tenendo fisso lo sguardo su di Lui, fino a vivere completamente dell'esperienza del suo amore, per poi poterlo testimoniare agli altri. Infatti, per riprendere un'espressione del mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, "vicino al Cuore di Cristo, il cuore umano apprende a conoscere il senso vero e unico della vita e del proprio destino, a comprendere il valore d'una vita autenticamente cristiana, a guardarsi da certe perversioni del cuore, a unire l'amore filiale verso Dio all'amore verso il prossimo. Così - ed è la vera riparazione richiesta dal Cuore del Salvatore - sulle rovine accumulate dall'odio e dalla violenza, potrà essere edificata la civiltà del Cuore di Cristo" (Insegnamenti, vol. IX/2, 1986, p. 843).

Conoscere l'amore di Dio in Gesù Cristo

Nell'Enciclica Deus caritas est ho citato l'affermazione della prima Lettera di san Giovanni: "Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto", per sottolineare che all'origine dell'essere cristiani c'è l'incontro con una Persona (cfr n. 1). Poiché Dio si è manifestato nella maniera più profonda attraverso l'incarnazione del suo Figlio, rendendosi "visibile" in Lui, è nella relazione con Cristo che possiamo riconoscere chi è veramente Dio (cfr Enc. Haurietis aquas, 29-41; Enc. Deus caritas est, 12-15). Ed ancora: poiché l'amore di Dio ha trovato la sua espressione più profonda nel dono che Cristo ha fatto della sua vita per noi sulla Croce, è soprattutto guardando alla sua sofferenza e alla sua morte che possiamo riconoscere in maniera sempre più chiara l'amore senza limiti che Dio ha per noi: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16).
Questo mistero dell'amore di Dio per noi, peraltro, non costituisce soltanto il contenuto del culto e della devozione al Cuore di Gesù: esso è, allo stesso modo, il contenuto di ogni vera spiritualità e devozione cristiana. E' quindi importante sottolineare che il fondamento di questa devozione è antico come il cristianesimo stesso. Infatti, essere cristiano è possibile soltanto con lo sguardo rivolto alla Croce del nostro Redentore, "a Colui che hanno trafitto" (Gv 19,37; cfr Zc 12,10). A ragione l'Enciclica Haurietis aquas ricorda che la ferita del costato e quelle lasciate dai chiodi sono state per innumerevoli anime i segni di un amore che ha informato sempre più incisivamente la loro vita (cfr n. 52). Riconoscere l'amore di Dio nel Crocifisso è diventata per esse un'esperienza interiore che ha fatto loro confessare, insieme a Tommaso: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20,28), permettendo loro di raggiungere una fede più profonda nell'accoglienza senza riserva dell'amore di Dio (cfr Enc. Haurietis aquas, 49).
Sperimentare l'amore di Dio volgendo lo sguardo al Cuore di Gesù Cristo
Il significato più profondo di questo culto all'amore di Dio si manifesta soltanto quando si considera più attentamente il suo apporto non solo alla conoscenza, ma anche, e soprattutto, all'esperienza personale di tale amore nella dedizione fiduciosa al suo servizio (cfr Enc. Haurietis aquas, 62). Ovviamente, esperienza e conoscenza non possono essere separate tra loro: l'una fa riferimento all'altra. Occorre peraltro sottolineare che una vera conoscenza dell'amore di Dio è possibile soltanto nel contesto di un atteggiamento di umile preghiera e di generosa disponibilità. Partendo da tale atteggiamento interiore, lo sguardo posato sul costato trafitto dalla lancia si trasforma in silenziosa adorazione. Lo sguardo al costato trafitto del Signore, dal quale scorrono "sangue e acqua" (cfr Gv 19,37), ci aiuta a riconoscere la moltitudine dei doni di grazia che da lì provengono (cfr Enc. Haurietis aquas, 34-41) e ci apre a tutte le altre forme di devozione cristiana che sono comprese nel culto al Cuore di Gesù.
La fede intesa come frutto dell'amore di Dio sperimentato è una grazia, un dono di Dio. Ma l'uomo potrà sperimentare la fede come una grazia soltanto nella misura in cui egli l'accetta dentro di sé come un dono, di cui cerca di vivere. Il culto dell'amore di Dio, al quale l'Enciclica Haurietis aquas invitava i fedeli (cfr ibid., 72), deve aiutarci a ricordare incessantemente che Egli ha preso su di sé questa sofferenza volontariamente "per noi", "per me". Quando pratichiamo questo culto, non solo riconosciamo con gratitudine l'amore di Dio, ma continuiamo ad aprirci a tale amore in modo che la nostra vita ne sia sempre più modellata. Dio, che ha riversato il suo amore "nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (cfr Rm 5,5), ci invita instancabilmente ad accogliere il suo amore. L'invito a donarsi interamente all'amore salvifico di Cristo e a votarsi ad esso (cfr ibid., n. 4) ha quindi come primo scopo il rapporto con Dio. Ecco perché questo culto, totalmente rivolto all'amore di Dio che si sacrifica per noi, è di così insostituibile importanza per la nostra fede e per la nostra vita nell'amore.

Vivere e testimoniare l'amore sperimentato

Chi accetta l'amore di Dio interiormente, è da esso plasmato. L'amore di Dio sperimentato viene vissuto dall'uomo come una "chiamata" alla quale egli deve rispondere. Lo sguardo rivolto al Signore, che "ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie" (Mt 8, 17), ci aiuta a divenire più attenti alla sofferenza ed al bisogno degli altri. La contemplazione adorante del costato trafitto dalla lancia ci rende sensibili alla volontà salvifica di Dio. Ci rende capaci di affidarci al suo amore salvifico e misericordioso e al tempo stesso ci rafforza nel desiderio di partecipare alla sua opera di salvezza diventando suoi strumenti. I doni ricevuti dal costato aperto, dal quale sono sgorgati "sangue e acqua" (cfr Gv 19,34), fanno sì che la nostra vita diventi anche per gli altri sorgente da cui promanano "fiumi di acqua viva" (Gv 7,38) (cfr Enc. Deus caritas est, 7). L'esperienza dell'amore attinta dal culto del costato trafitto del Redentore ci tutela dal rischio del ripiegamento su noi stessi e ci rende più disponibili ad una vita per gli altri. "Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli" (1 Gv 3,16) (cfr Enc. Haurietis aquas, 38).
La risposta al comandamento dell'amore è resa possibile soltanto dall'esperienza che questo amore ci è già stato donato prima da Dio (cfr Enc. Deus caritas est, 14). Il culto dell'amore che si rende visibile nel mistero della Croce, ripresentato in ogni Celebrazione eucaristica, costituisce quindi il fondamento perché noi possiamo divenire persone capaci di amare e di donarsi (cfr Enc. Haurietis aquas, 69), divenendo strumento nelle mani di Cristo: solo così si può essere annunciatori credibili del suo amore. Questo aprirsi alla volontà di Dio, però, deve rinnovarsi in ogni momento: "L'amore non è mai ëfinito' e completo" (cfr Enc. Deus caritas est, 17). Lo sguardo al "costato trafitto dalla lancia", nel quale rifulge la sconfinata volontà di salvezza da parte di Dio, non può quindi essere considerato come una forma passeggera di culto o di devozione: l'adorazione dell'amore di Dio, che ha trovato nel simbolo del "cuore trafitto" la sua espressione storico-devozionale, rimane imprescindibile per un rapporto vivo con Dio (cfr Enc. Haurietis aquas, 62).
Con l'augurio che la ricorrenza cinquantenaria valga a stimolare in tanti cuori una risposta sempre più fervida all'amore del Cuore di Cristo, imparto a Lei, Reverendissimo Padre, e a tutti i Religiosi della Compagnia di Gesù, sempre molti attivi nella promozione di questa fondamentale devozione, una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 15 maggio 2006

BENEDICTUS PP. XVI


sabato 21 luglio 2012

Quando un pastore lascia la sua chiesa



La dolorosa rinuncia, per motivi di salute del vescovo di Vigevano accettate dalla Santa Sede

Benedetto XVI ha accettato oggi la rinuncia alla guida della diocesi di Vigevano, "capitale" della Lomellina, , presentata dall’arcivescovo Vincenzo Di Mauro. Le dimissioni sono state presentate da Di Mauro, 60 anni, a Vigevano da neanche due anni prima come coadiutore e poi come successore del precedente vescovo monsignor Claudio Baggini, in base al canone 401 comma 2, cioè per grave causa.

Molto profonde e sincere le sue parole di commiato dalla comunità diocesana pubblicate dal settimanale cattolico "l'Araldo lomellino": "Vorrei uscire in punta di piedi e quindi affido a voi il compito di salutare ed avvisare tutte le persone e le istituzioni religiose e civili presenti nella Diocesi. Parto dunque, ma vi porto tutti nel cuore. E quando, alla sera, andrete a dormire, sappiate che anche io, quando dirò le mie preghiere della sera, le concluderò inviando, ogni giorno, a tutti e a ciascuno, la mia Benedizione."

Vatican Insider

REDAZIONE
ROMA 21 luglio 2012

Fatevi guidare dalla Madonna - Madre Teresa di Calcutta


Bambina mia, fatti sempre guidare dalla Madonna, che è la tua vera madre. Cerca di farti sempre tenere per mano da Lei, come io faccio con te adesso! 

Ciascun uomo ha pienezza di bene come pienezza di male in sé.

Debbo pregare, debbo pensarci: non so se è cosa buona portare i malati di AIDS in un luogo di grande turismo. E se fossero rifiutati? Soffrirebbero due volte.
[Guardando il monte Argentario] Come è bello questo luogo! In un luogo così bello, anche voi dovete preoccuparvi di avere anime belle!

Figlio mio, senza Dio siamo troppo poveri per aiutare i poveri! Ricordati io sono soltanto una povera donna che prega.

Fu ai piedi della Madonna di Letnice, un Santuario vicino a Skopje, che ascoltai la chiamata divina. Lo ricordo bene: accadde la sera del giorno dell'Assunta. Pregavo e cantavo, ricolma di gioia interiore, quando sentii la voce di Dio che mi invitava ad essere tutta sua, consacrandomi a Lui e al servizio del prossimo.

Ho cominciato ad amare le mie tenebre perché credo che siano una parte, una piccola parte delle tenebre di Gesù e della sua pena sulla terra.

Ho scelto di prendere il nome di Teresa, ma non quello della grande Teresa d'Avila, ho scelto il nome della piccola Teresa: Teresa di Lisieux.

Il dolore è un dono di Dio per te. Non devi sciupare questo dono ma renderlo fruttuoso. La mia preghiera per te è che tu non disperda il lavoro del Signore.

Il più grande distruttore di pace nel mondo è l'aborto. Se una madre può uccidere il proprio figlio nella culla del suo grembo, chi potrà fermare me e te dall'ucciderci reciprocamente?

Il Signore non potrebbe fare nulla per qualcuno che fosse pieno di sé.

Io lo guardo, lui mi guarda. Ecco la preghiera perfetta.

Io sono come una piccola matita nelle Sue mani, nient'altro. È Lui che pensa. È Lui che scrive. La matita non ha nulla a che fare con tutto questo. La matita deve solo poter essere usata.

L'orgoglio annienta ogni cosa.

L'umiltà è l'inizio della santità.

La gente che scrive su di me, ne sa sul mio conto più di quanto ne sappia io stessa.

La Madonna dovette svuotarsi prima di essere piena di grazia. Dovette dichiarare di essere schiava del Signore prima che Dio potesse riempirla. Così anche noi dobbiamo essere vuoti di ogni superbia, di ogni gelosia, di ogni egoismo, prima che Dio possa riempirci.

La sincerità non è altro che umiltà e tu acquisti l'umiltà solo accettando umiliazioni.

Molti parlano dei poveri, ma pochi parlano con i poveri.

Monsignore Périer mi dice sempre che scrivere lettere è il mio modo di scontare il purgatorio.

Nel nostro servizio non contano i risultati, ma quanto amore mettiamo in ciò che facciamo.

Nessuno imparò così bene l'umiltà come Maria. Essere schiavi significa essere utilizzati da tutti con gioia.

Non ha importanza la forma della chiamata. È una cosa tra Dio e me. Ciò che è importante è che Dio chiama ciascuno in modo differente. Noi non abbiamo alcun merito. L'importante è rispondere con gioia alla chiamata.

Non possiamo parlare finché non ascoltiamo. Quando avremo il cuore colmo, la bocca parlerà, la mente penserà.

Non sapremo mai quanto bene può fare un semplice sorriso.

Non vi sia alcuna gloria nel vostro successo ma attribuite tutto a Dio con il più profondo senso di gratitudine.

(Beata Madre Teresa di Calcutta)
al secolo Agnes Gonxha Bejaxhiu (1910 – 1997), missionaria e suora cattolica albanese.







venerdì 20 luglio 2012

Alcune gravi difficoltà a proposito dei castighi del peccato e la loro soluzione-Sac Dolindo Ruotolo

Siccome oggi specialmente si cerca disconoscere la gravità del momento e degli avvisi di Dio con mille obbiezioni, è bene risolvere almeno le principali, af...finché tutti concepiscano il più grande orrore al peccato. Quando i fanciulli, non vogliono studiare, trovano sempre mille scuse per sottrarsi al loro dovere: ora i libri sono cattivi e vecchi, ora il quaderno non è buono, ora il tavolo è troppo alto, ora la penna è spuntita ecc. Così fanno i peccatori per sfuggire allo logiche conseguenze, alle pratiche conseguenze che dovrebbero trarre dai castighi di Dio.

1° - Alcuni dicono: Dio è infinita bontà: come mai può colpire tanto inesorabilmente il peccato? Già abbiamo detto che Dio è anche infinita giustizia ed è ordine infinito. Egli ha situato l'uomo in un'armonia ammirabile di leggi ordinatissime; se la creatura le disordina, il danno se lo fa con le sue mani. Se i fanciulli si appartano dai loro genitori e pretendono di fare una casa a modo loro, che cosa mai combineranno? Chiusi in una stanza, soli, abbandonati, crederanno che ogni cosa è un giocattolo e si faranno del male. I genitori li chiamano; il danno che si procurano li avverte eloquentemente che debbono ritornare all'ordine; se non ascoltano queste voci così chiare, a chi imputeranno la colpa dei loro malanni?
Evidentemente non potranno imputarli che a loro stessi.

2° - Si dice: in un castigo pubblico specialmente, soffrono i giusti ed i peccatori allora o deve dirsi che il Signore non opera con giustizia, o che i castighi del peccato sono fenomeni naturali, indipendenti da qualunque causa morale. Per rispondere a questa difficoltà che è molto grave, è necessario notare che sulla terra noi formiamo una sola famiglia e che per conseguenza i beni od i mali sono comuni a tutti. In una casa tutti usufruiscono del piatto soverchio che il babbo ha fatto cucinare, e tutti subiscono il danno del fiasco di vino che uno ha fatto rompere sbadatamente. Quale colpa hanno gli altri che non bevono vino in quel giorno'? Non hanno nessuna colpa, ma si trovano in una medesima famiglia e subiscono la disgrazia prodotta dagli altri, nella quale hanno forse anche una colpa indiretta. Così succede nel mondo: i giusti soffrono espiando per gli altri, ed hanno sulla fronte un'aureola più bella; i peccatori subiscono l'effetto di quello che hanno fatto; l'ordine è così rimesso immediatamente a spese di tutti, ma con diverso merito e con diverso guadagno. Non siamo forse di passaggio sulla terra? Arrivare un anno prima alla eternità e arrivarvi con un titolo maggiore di gloria è un danno? Quanti giusti senza subire innocentemente le conseguenze della perfidia altrui, non sarebbero rimasti giusti? Quanti soldati per esempio sono morti in guerra per trovare così la salvezza eterna? Ma dove sono poi questi giusti nel mondo? Siamo tutti peccatori e chi ha l'occasione di espiare il proprio peccato deve ringraziare il Signore che gliela dà; nell'altra vita ammirerà la bellezza di un ricamo che vedeva solo alla rovescia.

Alle volte quelli che crediamo peccatori lo sono soltanto a metà, perché Dio ci giudica dalla coscienza; alle volte í giusti hanno dei gravi peccati occulti da espiare e noi non ce ne accorgiamo. Un uomo che ha avuta una pratica impura, che ha tradita la santità della sua famiglia, lo direte giusto? Guarda forse le apparenze Dio? Anzi di più: non è una misericordia l'aver modo di espiare le proprie miserie, siano pure veniali, con un male fisico grave? Il male fisico non è sempre un male: una amputazione può salvarmi la vita; un male di capo mi avverte di una malattia grave che sta per opprimermi, e mi fa prendere contro di essa le difese; una sventura mi disinganna, mi rende migliore e mi riconduce a Dio. Noi sappiamo che Dio è infinita bontà, sappiamo che non si muove foglia di albero senza il suo volere, quindi possiamo riposare nella sua infinita bontà, anche là dove la povera mente non vi vede che mistero.

3° - Si dice: vi sono città molto più peccatrici, le quali non subiscono rovine. Ma io rispondo: chi ha fatta questa valutazione della empietà di due città? Quale uomo può pretendere di rendersi giudice di responsabilità tanto misteriose e tanto complesse? Nonostante questa difficoltà può risolversi: in una città peccatrice vi possono essere più giusti che pregano e che riparano il male fatto dai peccatori, ovvero cí possono essere, nei fenomeni fisici determinati dal disordine del peccato, minori disposizioni ad un rovescio. Se in una casa una
serva sguaiata mette i vasi preziosi in pericolo di cadere ed una mano benefica li rimette a posto, essi non si romperanno. Un bicchiere più fragile può essere rotto più facilmente anche da una serva meno disadatta; basterà un urto per infrangerlo. Certe regioni sono più esposte agli effetti di un disordine fisico, ma dove la preghiera si eleva a Dio, dove il male si ripara, la storia sta là a dimostrarci che anche la natura obbedisce alla misericordia di Dio. Così nell'eruzione del Vesuvio del 1906 la lava che minacciosa discendeva già su di un pendio e stava per invadere un paese vesuviano, fu arrestata dal popolo penitente e supplicante che solennemente e pubblicamente vi portò davanti un quadro della Vergine. La lava non solo si arrestò, ma risalì indietro sul pendio contro tutte le leggi di natura. Oh quante anime giuste, dimenticate ed ignorate dal mondo, fanno l'ufficio di parafulmine in certe città! Le donne specialmente con la loro pietà paralizzano tanti tristi effetti del peccato e compiono così il grande ufficio ricevuto fin dal principio, di essere l'aiuto dell'uomo. Dove la donna si allontana da Dio e si rende ignominiosamente atea ed immorale, ivi piomba il castigo! In generale si deve dire che dove è la sventura vera ivi è il peccato, sempre! Fateci l'esperienza nella vita e vedrete che tutto è mirabilmente ordinato e proporzionato nel mondo."


Fonte: Da "LA DOTTRINA CATTOLICA" Sac. Dolindo Ruotolo