L’umiltà con cui Cristo «spogliò se stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2,7) è per noi luce. Luce per noi il suo rifiuto della gloria del mondo, lui che ha voluto nascere in una stalla piuttosto che in un palazzo e subire una morte vergognosa su una croce. Grazie a questa umiltà possiamo capire quanto è detestabile il peccato di un essere di fango (Gen 2,7), un pover’ uomo che vale nulla, quando si inorgoglisce, si gloria e non vuole obbedire, mentre vediamo il Dio infinito umiliato, disprezzato e consegnato agli uomini.
Anche la mitezza con la quale ha sopportato la fame, la sete, il freddo, gli insulti, le percosse, le ferite, è luce per noi, quando «era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53,7). Grazie a questa mitezza, infatti, vediamo quanto inutile è la collera, come la minaccia; diciamo sì allora al soffrire e non serviamo Cristo per abitudine. Grazie ad essa, impariamo a conoscere quanto ci è richiesto: piangere i nostri peccati nella sottomissione e nel silenzio, e sopportare la sofferenza quando arriva. Poiché Cristo ha sopportato i tormenti con tanta mitezza e pazienza, non per peccati da lui commessi, ma per quelli degli altri.
Lanspergo il Certosino
(1489-1539), religioso, teologo
Fonte: Discorsi, 5 ; Opera omnia, 3, 315
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