giovedì 3 maggio 2012

Quando la Bibbia tace da l’Osservatore Romano

Quando la Bibbia tace. Espressione non poco paradossale che induce e suscita una domanda: come può tacere la Parola di Dio? Non s'intende qui riferirsi al silenzio "nella" Bibbia, cioè a quanto la Sacra Scrittura insegna sul silenzio; tema che è stato, lungo i secoli, oggetto di tanti studi illustri e fonte d'ispirazione per variate esperienze mistiche. Né si tratta semplicemente di quell'atteggiamento che tende a "imporre" il silenzio sulla Bibbia, a sottrarre a essa un ruolo centrale nella formazione e trasformazione della vita, soprattutto dei cristiani e della Chiesa. Cioè a quella perdita della facilità e della volontà di impiegare la Bibbia in modo effettivo e frequente nella preghiera, nella predicazione e nella vita quotidiana. A questo riguardo, James D. Smart ha richiamato l'attenzione su quel rapporto piuttosto squilibrato che, soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso, si riscontrava tra una certa efflorescenza della ricerca biblica, da un lato, e la decrescita d'interesse nell'uso della Bibbia all'interno della Chiesa e nelle iniziative sociali, dall'altro lato (cfr. The Strange Silence of the Bible in the Church). E c'è da escludere anche quel silenzio che alcune persone vorrebbero attribuire alla Bibbia quando non riescono a trovare in essa qualche loro desiderio, idea o immaginazione.
Quando si parla del silenzio "della" Bibbia ci si riferisce, invece e soprattutto, al Libro Sacro che sembra tacere o passare sotto silenzio certe informazioni o dettagli che il lettore avrebbe "logicamente" atteso in un particolare contesto. Vengono in mente alcuni esempi. Il primo riguarda il racconto sul figlio penitente, detto anche del "figliuol prodigo" (Luca, 15, 11-32), laddove si legge che alla protesta del figlio maggiore contro la festa organizzata per accogliere il fratello minore spendaccione, il loro padre cerca di spiegargli la ragione della festa: il fratello minore era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. Poi il racconto finisce bruscamente lasciando il lettore piantato in asso sulla risposta del figlio maggiore all'intervento del padre. Qual è la sua reazione? Accetta o no la spiegazione del padre? Obbedisce di nuovo al padre ed entra ad abbracciare il fratellino e a festeggiare con gli altri? Oppure rimane fuori, insistendo sulle proprie ragioni?
Similmente in Luca, 8, 19-21 - e parallelamente in Matteo, 12, 46-50 e in Marco, 3, 31-35 - si legge che mentre Gesù insegnava, e gli fu annunciato che sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e desideravano vederlo, egli rispose "mia madre e miei fratelli sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica". Nulla però si dice su ciò che poi Gesù ha fatto: se, ignorando sua madre e i suoi fratelli, ha proseguito con quanto stava facendo, oppure se egli ha interrotto l'incontro, almeno brevemente, per rispondere alle richieste di sua madre e dei suoi parenti.
Si pensi anche al racconto circa i due discepoli sulla via di Emmaus nella sera del giorno della risurrezione di Gesù (Luca, 24, 13-35). L'autore ci dice il nome di uno di loro, Cleofa. E uno si domanda: l'altro, come si chiama? Era un uomo o una donna? Il suo nome avrebbe certamente dato l'indicazione, ma la Bibbia tace. Altro esempio si potrebbe trarre dal racconto della morte crudele di Giovanni il Battista (Matteo, 14, 6-12; Marco, 6, 14-29; Luca, 3, 19-20; 9, 7-9). Il re Erode promette con giuramento di dare alla figlia, eccelsa nel ballo, qualunque cosa gli chieda, inclusa la metà del suo regno. Alla giovane, la madre Erodiade consiglia di chiedere la testa del Battista. La ragazza riferisce fedelmente al re, il quale, rammaricato, ordina comunque che sia eseguito quanto richiesto. L'ordine è prontamente eseguito; Giovanni Battista è decapitato in prigione e la sua testa consegnata in un piatto alla ragazza, la quale la porta alla madre. Il racconto si conclude con i discepoli di Giovanni che raccolgono e seppelliscono il suo corpo. Non ci dice niente di ciò che fa Erodiade con la testa senza vita che tanto aveva desiderato! L'avrà forse esposta su un suo armadio come trofeo di vittoria? Non sarà questo un esempio tipico della "sindrome della testa di Giovanni Battista", ossia di quei casi in cui con un'insistenza quasi ossessiva chiediamo una cosa, ma quando l'otteniamo non sappiamo più che farne o vediamo di non averne bisogno?
Molti sono gli esempi che si possono citare della Bibbia che sembra tacere, e quasi ogni sua pagina ne contiene diversi. Infatti, lo stesso testo sacro ci dice che alcuni dettagli dei suoi racconti sono stati intenzionalmente tralasciati o passati sotto silenzio dagli autori. Viene subito in mente l'espressione riassuntiva ricorrente nei racconti su diversi re della monarchia d'Israele, con cui si rimanda a un "libro delle Cronache dei Re d'Israele". Si legge, per esempio, del re Acab: "Le altre gesta di Acab, tutte le sue azioni, la costruzione della casa d'avorio e delle città da lui erette, sono descritte nel libro delle Cronache dei re di Israele" (1 Re, 22, 39). Ancora più esplicita è la conclusione della storia di Giuda Maccabeo: "Il resto delle imprese di Giuda e delle sue battaglie, degli eroismi di cui diede prova e dei suoi titoli di gloria non è stato scritto, perché troppo grande era il loro numero" (1 Maccabei, 9, 22). Nel Nuovo Testamento, il tipico esempio è l'evangelista Giovanni che commenta di non aver scritto molti segni miracolosi compiuti da Gesù, tranne quelli che "sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome" (20, 30-31). Secondo Giovanni, "se si scrivessero a una a una" le cose che fece Gesù, "il mondo stesso non potrebbe contenere i libri che se ne scriverebbero" (21, 25). Ciò significa che, come in qualsiasi letteratura, l'esigenza di spazio, l'intenzione dell'autore e la sua conoscenza o accesso a informazione portano a scelte di contenuti, di stile e di forme letterarie che necessariamente creano dei silenzi nel testo sacro.
Esiste quindi un "silenzio esterno" al testo biblico, che riguarda le cose non contemplate perché irrilevanti allo scopo della Bibbia o del messaggio del particolare testo o contesto. Per esempio, sarebbe assurdo cercare nella Bibbia informazioni esplicite riguardanti i mezzi moderni di comunicazione (telefonini, internet, facebook, ecc.) o di trasporto (aerei, autovetture moderne, ecc.), oppure altre scoperte della tecnologia moderna. Gli autori umani della Bibbia erano soggetti al livello di conoscenza dei loro tempi e del loro ambiente. Quando invece manca un'informazione o un dettaglio che si avrebbe "logicamente" atteso all'interno di un testo o contesto della Bibbia, si potrebbe parlare di un "silenzio interno o testuale". Tale silenzio potrebbe essere voluto dall'autore sia esplicitamente come stile letterario sia tacitamente come conseguenza del medesimo stile e del genere letterario impiegati da lui, per cui si potrebbe parlare di "silenzio letterario". Il silenzio potrebbe anche risultare in un testo senza il volere dell'autore, pur sempre servendo per comunicare delle idee e trasmettere dei messaggi, come per esempio quando è inerente alla struttura della lingua impiegata.
In tutti i casi, sia per il volere dell'autore sia per la struttura del testo o della lingua, il silenzio in questione consiste in una lacuna o omissione testuale o letteraria. Infatti, come osserva Meir Sternberg (cfr. The Poetics of Biblical Narrative) ogni opera letteraria consiste in un insieme di pezzi e frammenti, che creano un sistema di lacune o gap da colmarsi nel processo di lettura.
Ma perché impegnarsi nel cercare di sondare i silenzi e perdersi nelle parole mancanti, mentre il testo fornito offre sufficiente lavoro per il lettore? Certo, a prima vista, non sembra avere molto senso andare a rintracciare le cose non dette o volutamente taciute dall'autore o dal narratore. Tuttavia, molte omissioni testuali, indipendentemente dell'intenzione del narratore, s'inseriscono nella funzione retorica di coinvolgere il lettore o l'uditore nello sviluppo dell'intreccio o del senso del racconto. Questa realtà, già presente nella letteratura mondana, è particolarmente evidente nella Bibbia a causa della natura stessa del Libro sacro quale Parola di Dio.
Infatti, come afferma l'esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini, ci sono "diverse modalità" per parlare della Parola di Dio. Il documento parla dell'uso "analogico del linguaggio umano" in riferimento a tale espressione, di "una sinfonia della Parola, di una Parola unica che si esprime in diversi modi: "un canto a più voci"", tutto in riferimento alla "comunicazione che Dio fa di se stesso" (cfr. Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 7).
Nel pensiero cristiano, l'espressione Parola di Dio si applica essenzialmente al Verbo divino, la Parola incarnata di Dio, il Quale pur essendo fin dal principio Dio presso Dio (cfr. Giovanni, 1, 1) "non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso, prendendo forma di servo" (Filippesi, 2, 6-7), e si fece carne (cfr. Giovanni, 1, 14) assumendo pienamente la natura umana in tutto tranne il peccato. Si tratta della "persona di Gesù Cristo, eterno Figlio del Padre, fatto uomo". È lo stesso Verbo divino che si manifesta anche nella creazione, nella storia della salvezza, nelle parole dei profeti e più tardi degli apostoli, nella tradizione apostolica e della Chiesa, e infine nelle Sacre Scritture, la Bibbia quale la Parola di Dio in forma scritta (cfr. Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 7).
Ciò significa che tutte queste altre manifestazioni o analogie della Parola di Dio hanno il loro archetipo nella Parola incarnata, il Verbo di Dio. Questo è particolarmente evidente nella Bibbia ed è essenziale per la sua lettura e interpretazione. Infatti, come la Parola incarnata è nello stesso tempo Dio e uomo, così anche la Bibbia è parola di Dio in parole d'uomo; e come il Verbo incarnato ha assunto la natura umana in tutto tranne nel peccato, così anche nella Bibbia Dio assume la parola e il linguaggio umano in tutto tranne in ciò che devia da Dio - infatti la parola ebraica per peccato, hatta', ha nella sua origine il significato di "mancare il bersaglio" - bersaglio che in questo caso sarebbe Dio stesso.
Inoltre, come nel Verbo incarnato il divino e l'umano si abbracciano nell'unione ipostatica, così anche nella Bibbia il divino e l'umano si uniscono intrinsecamente; e come il Verbo di Dio, per opera dello Spirito Santo ha assunto la carne umana nel grembo di Maria, così anche per l'ispirazione del medesimo Spirito la Parola di Dio ha assunto la concezione e il linguaggio umano nella mente degli autori umani. Un'analogia che richiama l'attenzione sul ruolo della Vergine Maria nella lettura e nell'interpretazione del testo sacro. Infine, come per l'azione dello Spirito Santo alla Pentecoste i discepoli furono animati a riconoscere e a testimoniare il Verbo, così anche attraverso l'illuminazione dello stesso Spirito il lettore riceve la luce per scoprire quanto l'Autore divino ha trasmesso, mediante l'ispirazione, tramite l'autore umano.
Questi accenni non pretendono d'esaurire gli elementi dell'analogia fra la Bibbia e il Verbo incarnato, ma mirano piuttosto a sottolineare un fattore di singolare rilevanza per la lettura della Bibbia, specialmente per quanto riguarda i due livelli di autori, l'umano e il divino. Infatti, mentre l'autore immediato del Libro sacro è l'umano, il quale è soggetto a vari limiti come per esempio quello di conoscenza, d'uso di linguaggio, ecc., che creano dei silenzi nel testo, l'autore ultimo è Dio stesso, onnisciente e onnipotente al di là degli umani limiti. Dietro l'autore umano che lascia gli spazi in questione, si trova l'Autore divino, Dio stesso che nella Persona del Figlio è Parola-Verbo eterno sempre vivo e attivo (cfr. Ebrei, 4, 12) e quindi mai veramente taciuto. Ne consegue che quando l'autore umano sembra tacere, quello divino rimane sempre presente come Parola eterna; per cui il tacere testuale - quello spazio nel testo, voluto o non - oltre a servire per trasmettere quanto l'autore o il narratore umano ha in mente, potrebbe diventare anche occasione per attingere direttamente dalle riserve del Verbo infinito. Significa che tale silenzio testuale potrebbe essere solamente un'apertura, simile a una fessura nel muro, attraverso la quale si potrebbe scorgere la luce, udire la voce soave e sentire sulla pelle la dolce carezza di quanto alberga nello sfondo infinito dietro la parete. È per questo che la lettura dei silenzi è nello stesso tempo interessante e scivolosa. Basti pensare al fatto che la crepa murale potrebbe nascondere degli insetti pericolosi o distorcere il suono percepito o anche dare un'immagine tronca di quanto è percepito. La grande consolazione è che spesso è lo stesso Autore divino che conduce il lettore, per mezzo dell'illuminazione dello Spirito Santo, a scoprire messaggi e significati non esplicitamente intesi o scritti dall'autore umano. Tale consolazione nulla distoglie dal "pericolo connesso alla lettura dei silenzi" della Bibbia, ma sottolinea l'importanza, nella lettura del testo sacro, d'invocare, con la preghiera, l'assistenza dello stesso Autore divino.
Fonte: (©L'Osservatore Romano 28 aprile 2012)

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