giovedì 11 aprile 2013

Contemplazione ed azione: norme di vita del cristiano. Udienza generale del 7 luglio 1971 - Ven. Paolo VI,


Contemplazione ed azione: norme di vita del cristiano

Alla ricerca dei criteri fondamentali, che devono guidare la vita dell’uomo, e che gli insegnamenti del Concilio hanno maggiormente inculcato.
Noi ne troviamo uno comunissimo, perché ha tanta parte nel mondo moderno, ma non per questo esso è meno originale e meno caratteristico nel cristianesimo; e questo criterio è l’azione, è l’attività, è l’indirizzo operativo, è il fare, l’operare, il lavorare; cioè l’impiego morale della volontà.
L’uomo vale, potremmo dire alla fine dei conti, non tanto per ciò che è, ma per ciò che fa.
È questo uno dei punti più chiari in cui la pedagogia del Concilio s’incontra con l’atteggiamento generale dell’uomo moderno, ch’è quello di compiere il massimo sforzo operativo per sviluppare se stesso, per conoscere le cose che lo circondano, per dominarle e utilizzarle, per progredire (Cfr. Gaudium et Spes, 33). Il nostro tempo è volontarista.
Anche nella difesa della libertà e nell’oblio della nozione del dovere, il nostro tempo tende all’intensità dell’azione, e misura se stesso dall’impiego di forze umane e di energie naturali, e quindi dai risultati prodotti dall’attività, resa scientifica ed utilitaria.

LA SCUOLA DEL VANGELO

Con altri procedimenti e per altri fini anche la scuola del Vangelo, aggiornata nella coscienza e nei metodi, tende a fare dell’uomo un attivista. Si può leggere il Vangelo in chiave di «azione». L’azione è l’esplicazione cosciente e voluta dell’essere, la sua perfezione, la sua felicità (Cfr. S. TH. 1, 89, 1; 1-2, 3, 2). Ricordate le parabole del Vangelo; quella, ad esempio, dei vignaiuoli disoccupati: «Perché ve ne state tutto il giorno oziosi?» (Matth. 20, 6), chiede il padre di famiglia in cerca di mano d’opera per la sua vigna; o quella dei talenti, nella quale è punito colui che si era limitato a custodire, senza trafficare il suo tesoro (Matth. 25, 25); ovvero le famose parole del Signore: «Non chi dirà . . . . ma chi farà . . . . entrerà nel regno dei cieli» (Matth. 7, 21; Luc. 11, 28). Tutto il Vangelo è un trattato per lo sviluppo dell’uomo (quante volte ricorre la parabola del seme!); e come l’annuncio liberatore del regno è tutto intessuto da doveri da compiere, scegliendo la via stretta e difficile (Cfr. Matth. 7, 14), senza retrocedere per stanchezza o per ostacoli (Cfr. Luc. 9, 62), fino, se occorre, a dare la propria vita! (Io. 12, 25).
 Il Vangelo non è affatto un codice di facile esecuzione; esige sforzo e fedeltà.

NÉ QUIETISMO NÉ PIETISMO

Qui si potrebbero passare in rassegna i sistemi morali rinunciatari allo sforzo personale per raggiungere la salvezza, nella erronea convinzione che alla fede soltanto e soltanto alla grazia noi dobbiamo la fortuna d’essere salvati, senza una positiva e sistematica disciplina morale, quasi che la fede e la grazia, doni di Dio, vere cause della salute, non esigessero una corrispondenza, una coerenza, una collaborazione libera e responsabile da parte nostra, sia come concorrente condizione dell’opera salvatrice di Dio in noi, e sia poi come conseguenza della rinascita operata dalla sua misericordiosa azione soprannaturale. Né quietismo, né pietismo poi interpretano la concezione morale del cristiano; e nemmeno la semplice consuetudine passiva e tradizionale di certi precetti religiosi, o di certi costumi convenzionali. Così pure si potrebbero ricordare i sistemi morali che pretendono raggiungere una data efficienza operativa e morale, come il pragmatismo utilitarista, e lo stoicismo che sotto l’aspetto d’un’insensibile austerità nasconde la persuasione orgogliosa di bastare a se stesso, senza l’umiltà della penitenza e della preghiera, e senza il ricorso all’unica fonte di perfezione e di salvezza, che scaturisce dalla virtù redentrice di Cristo e dalla bontà infinita di Dio.
Non sono questioni antiquate, perché sopravvivono nella perenne problematica teologica e morale della nostra inserzione nel piano divino della rivelazione e dei rapporti che ne derivano, specialmente circa l’esistenza e l’impiego della nostra libertà.
Ma oggi la questione del nostro attivismo cristiano si presenta ordinariamente in altri termini. 
Accenniamo appena a titolo di esempio. Non siamo noi forse assaliti da una grande tentazione di pigrizia morale, che vulnera nella sua intima nervatura la voglia e la capacità di dare alla vita cristiana un orientamento volontarista, sia personale che operativo? Di consacrarla ad un ideale, che tragga dall’assoluto la sua forza impegnativa? Perché? Noi siamo come asfissiati dal dubbio; un dubbio sistematico e negativo, quasi mai di vera ricerca, ma piuttosto di disimpegno e di demolizione, di riduzione al minimo delle certezze della fede e dell’obbedienza all’istituzione ecclesiale, di secolarizzazione, non solo di tanti campi specifici propri della competenza della ragione umana e dell’ordine naturale, ma di tutto il pensiero e quindi di tutto il comportamento pratico e sociale. Sopravvivono formule operative nominaliste, che non osano quasi documentarsi di propri principi. Non si ha più voglia alcuna di affermare, di militare per la propria fede e per le proprie idee. È la credibilità della dottrina e della disciplina della Chiesa, che anche nel settore religioso spesso è posta in questione. Si nasconde spesso questa carenza di pensiero e di volontà con termini equivoci: il pluralismo, la liberazione, l’autonomia della coscienza, la moralità nuova e permissiva, la trasformazione continua del mondo contemporaneo, la scoperta d’un nuovo sistema, ecc.

APPLICARE IL CONCILIO

Fratelli e Figli carissimi! Non è con questi tortuosi atteggiamenti che potremo rinnovare la nostra vita morale e religiosa. Non è così che daremo al Concilio la sua autentica interpretazione e la sua feconda applicazione. Noi ci rivolgiamo perciò ai Fedeli, che aspirano a realizzare la vita cristiana in modo vivo, nuovo, positivo, costruttivo. E li invitiamo ancora a infondere nella loro fede soggettiva quello sforzo umile ed energico che implora la fede stessa come dono di Dio, come il suo dono primario: ecco allora la fede che sale cercando, la fede che scende dalla voce dello Spirito Santo, dalla sua testimonianza interiore (Cfr. Rom. 8, 16), e che s’incontrano e scoccano in scintilla di luce e di gaudio là dove la Chiesa maestra aggiunge la sua testimonianza autorizzata (Cfr. Act. 1, 8) e conferma: sì, questa è la Verità rivelata, la Verità a cui si può, senza pericolo di delusione finale, consacrare la vita.
Li invitiamo all’antico binomio, che tutto pervade l’esperienza e la storia del nostro cattolicesimo: contemplazione ed azione. E li esortiamo, non con parole Nostre, ma con quelle dell’Apostolo Paolo alla nascente e già travagliata comunità cristiana di Corinto: «Diletti Fratelli, siate stabili, incrollabili, abbondando sempre nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore» (1 Cor. 15, 58).
Così, così,  con la Nostra Benedizione Apostolica.


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