Per rimanere fedeli al metodo della lectio divina, tanto raccomandata dal recente sinodo dei vescovi, ascoltiamo anzitutto le parole di san Paolo sulle quali vogliamo riflettere in questa meditazione:
“Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3, 7-12).
1. “Perché io possa conoscere Lui…”
La volta scorsa abbiamo meditato sulla conversione di Paolo come una metanoia, un cambiamento di mente, nel modo di concepire la salvezza. Paolo però non si è convertito a una dottrina, fosse pure la dottrina della giustificazione mediante la fede; si è convertito a una persona! Prima che un cambiamento di pensiero, il suo è stato un cambiamento di cuore, l’incontro con una persona viva. Si usa spesso l’espressione “colpo di fulmine” per indicare un amore a prima vista che travolge ogni ostacolo; in nessun caso questa metafora è più appropriata che per san Paolo.
Vediamo come questo cambiamento di cuore traspare dal testo appena ascoltato. Egli parla del “bene supremo” (hyperechon) di conoscere Cristo e si sa che in questo caso, come in tutta la Bibbia, conoscere non indica una scoperta solo intellettuale, un farsi un’idea di qualcosa, ma un legame vitale intimo, un entrare in rapporto con l’oggetto conosciuto. Lo stesso vale per l’espressione “…perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze”. “Conoscere la partecipazione alle sofferenze” non significa, evidentemente, averne un’idea, ma sperimentarle.
Mi è capitato di leggere questo brano in un momento particolare della mia vita in cui mi trovavo anch’io davanti a una scelta. Mi ero occupato di cristologia, avevo scritto e letto tanto su questo argomento, ma quando lessi “perché io possa conoscere Lui”, capii di colpo che quel semplice pronome personale “lui” (autòn) conteneva più verità su Gesù Cristo che tutti i libri scritti o letti su di lui. Capii che per l’Apostolo Cristo non era un insieme di dottrine, di eresie, di dogmi; era una persona viva, presente e realissima che si poteva designare con un semplice pronome, come si fa, quando si parla di qualcuno che è presente, indicandolo con il dito.
L’effetto dell’innamoramento è duplice. Da una parte opera una drastica riduzione ad uno, una concentrazione sulla persona amata che fa passare in secondo piano tutto il resto del mondo; dall’altra rende capaci di soffrire qualsiasi cosa per la persona amata, di accettare la perdita di tutto. Vediamo entrambi questi effetti realizzati alla perfezione nel momento in cui l’Apostolo scopre Cristo: “per lui, dice, ho accettato la perdita di tutte queste cose e le considero come spazzatura”.
Ha accettato la perdita dei suoi privilegi di “ebreo da ebrei”, la stima e l’amicizia dei suoi maestri e connazionali, l’odio e la commiserazione di quanti non comprendevano come un uomo come lui avesse potuto farsi sedurre da una setta di fanatici senza arte né parte. Nella seconda Lettera ai Corinzi c’è l’elenco impressionante di tutte le cose sofferte per Cristo (cf. 2 Cor 11, 24-28).
L’Apostolo ha trovato lui stesso la parola che da sola racchiude tutto: “conquistato da Cristo”. Si potrebbe tradurre anche afferrato, affascinato, o con una espressione di Geremia, “sedotto” da Cristo. Gli innamorati non si trattengono; lo hanno fatto tanti mistici al colmo del loro ardore. Francesco d’Assisi andava per i boschi della Verna gridando: “L’amore non è amato!” Io non ho difficoltà, perciò, a immaginare un Paolo che in un impeto di gioia, dopo la sua conversione, grida da solo agli alberi o in riva al mare quello che più tardi scriverà ai Filippesi: “Sono stato conquistato da Cristo! Sono stato conquistato da Cristo!”
Conosciamo bene le frasi lapidarie e pregnanti dell’Apostolo che ognuno di noi amerebbe poter ripetere nella propria vita: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21), e “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Paolo ci insegna a considerare l’amore per Cristo il bene supremo e tutto il resto, al confronto, spazzatura. Il suo insegnamento è riassunto nella massima della Regola di san benedetto: “Nulla assolutamente anteporre all’amore per Cristo”.
2. “In Cristo”
Ora, tenendo fede a quanto annunciato nel programma di queste prediche, vorrei mettere in luce quello che, su questo punto, il pensiero di Paolo può significare, prima per la teologia di oggi e poi per la vita spirituale dei credenti.
L’esperienza personale ha condotto Paolo a una visione globale della vita cristiana che egli indica con l’espressione “in Cristo” (en Christō). La formula ricorre 83 volte nel corpus paolino, senza contare l’espressione affine “con Cristo” (syn Christō) e le espressioni pronominali equivalenti “in lui” o “in colui che”.
È quasi impossibile tradurre con parole il contenuto pregnante di queste frasi. La preposizione “in” ha un significato ora locale, ora temporale (al momento in cui Cristo muore e risorge), ora strumentale (per mezzo di Cristo). Delinea l’atmosfera spirituale in cui il cristiano vive e agisce. Paolo applica a Cristo quello che nel discorso all’Areopago di Atene dice di Dio, citando un autore pagano: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28). Più tardi l’evangelista Giovanni esprimerà la stessa visione con l’immagine del “rimanere in Cristo” (Gv 15, 4-7).
Su queste espressioni fanno leva quelli che parlano di mistica paolina. Frasi come “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo” (2 Cor 5,19) sono totalizzanti, non lasciano fuori di Cristo nulla e nessuno. Dire che i credenti sono “chiamati a essere santi” (Rom 1,7) equivale per l’Apostolo a dire che sono “chiamati da Dio alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo” (1 Cor 1,9).
Giustamente, anche in seno al mondo protestante, oggi si comincia a considerare la visione sintetizzata nell’espressione “in Cristo” o “nello Spirito” come più centrale e rappresentativa del pensiero di Paolo che la stessa dottrina della giustificazione mediante la fede.
L’anno paolino potrebbe rivelarsi l’occasione provvidenziale per chiudere tutto un periodo di discussioni e contrasti legati più al passato che al presente e aprire un nuovo capitolo nell’utilizzo del pensiero dell’Apostolo. Tornare a utilizzare le sue lettere, e in primo luogo la Lettera ai Romani, per lo scopo per cui furono scritte che non era, certo, quello di fornire alle generazioni future una palestra in cui esercitare il loro acume teologico, ma quello di edificare la fede della comunità, formata per lo più da gente semplice e illetterata. “Ho un vivo desiderio, scrive ai Romani, di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io” (Rom 1, 11-12).
3. Oltre la Riforma e la Controriforma
È tempo, credo, di andare oltre la Riforma e oltre la Controriforma. La posta in gioco all’inizio del terzo millennio, non è più la stessa dell’inizio del secondo millennio, quando si produsse la separazione tra oriente e occidente, e neppure è quella a metà del millennio, quando si produsse, in seno alla cristianità occidentale, la separazione tra cattolici e protestanti.
Per fare un solo esempio, il problema non è più quello di Lutero di come liberare l’uomo dal senso di colpa che l’opprime, ma come ridare all’uomo il vero senso del peccato che ha smarrito del tutto. Che senso ha continuare a discutere su “come avviene la giustificazione dell’empio”, quando l’uomo è convinto di non aver bisogno di alcuna giustificazione e dichiara con orgoglio: “Io stesso oggi mi accuso e solo io posso assolvermi, io l’uomo”? [1]
Io credo che tutte le secolari discussioni tra cattolici e protestanti intorno alla fede e alle opere hanno finito per farci perdere di vista il punto principale del messaggio paolino, spostando spesso l’attenzione da Cristo alle dottrine su Cristo, in pratica, da Cristo agli uomini. Quello che all’Apostolo preme anzitutto affermare in Romani 3 non è che siamo giustificati per la fede, ma che siamo giustificati per la fede in Cristo; non è tanto che siamo giustificati per la grazia, quanto che siamo giustificati per la grazia di Cristo. L’accento è su Cristo, più ancora che sulla fede e sulla grazia.
Dopo avere nei due precedenti capitoli della Lettera presentato l’umanità nel suo universale stato di peccato e di perdizione, l’Apostolo ha l’incredibile coraggio di proclamare che questa situazione è ora radicalmente cambiata “in virtù della redenzione realizzata da Cristo”, “per l’obbedienza di un solo uomo” (Rom 3, 24; 5, 19). L’affermazione che questa salvezza si riceve per fede, e non per le opere, è importantissima, ma essa viene in secondo luogo, non in primo. Si è commesso l’errore di ridurre a un problema di scuole, interno al cristianesimo, quella che era per l’Apostolo una affermazione di portata più vasta, cosmica e universale.
Questo messaggio dell’Apostolo sulla centralità di Cristo è di grande attualità. Molti fattori portano infatti a mettere tra parentesi oggi la sua persona. Cristo non entra in questione in nessuno dei tre dialoghi più vivaci in atto oggi tra la chiesa e il mondo. Non nel dialogo tra fede e filosofia, perché la filosofia si occupa di concetti metafisici, non di realtà storiche come è la persona di Gesù di Nazareth; non nel dialogo con la scienza, con la quale si può unicamente discutere dell’esistenza o meno di un Dio creatore, di un progetto al di sotto dell’evoluzione; non, infine, nel dialogo interreligioso, dove ci si occupa di quello che le religioni possono fare insieme, nel nome di Dio, per il bene dell’umanità.
Pochi anche tra i credenti, interrogati in che cosa credono, risponderebbero: credo che Cristo è morto per i miei peccati ed è risorto per la mia giustificazione. I più risponderebbero: credo nell’esistenza di Dio, in una vita dopo la morte. Eppure per Paolo, come per tutto il NT, la fede che salva è solo quella nella morte e risurrezione di Cristo: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rom 10,9).
Nel mese scorso, si è tenuto qui in Vaticano, nella Casina Pio IV, un simposio promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze, dal titolo “Vedute scientifiche intorno all’evoluzione dell’universo e della vita”, cui hanno partecipato i massimi scienziati di tutto il mondo. Ho voluto intervistare, per il programma che conduco ogni sabato sera in TV sul vangelo, uno dei partecipanti, il Prof. Francis Collins, direttore del gruppo di ricerca che portò nel 2000 alla completa decifrazione del genoma umano. Sapendolo un credente, gli ho posto, tra le altre, la domanda: “Lei ha creduto prima in Dio o in Gesù Cristo?” Ha risposto:
“Sino all’età di circa 25 anni ero ateo, non avevo una preparazione religiosa, ero uno scienziato che riduceva quasi tutto ad equazioni e leggi di fisica. Ma come medico ho cominciato a vedere la gente che doveva affrontare il problema della vita e della morte, e questo mi ha fatto pensare che il mio ateismo non era un’idea radicata. Ho cominciato a leggere testi sulle argomentazioni razionali della fede che io non conoscevo. Per prima cosa sono arrivato alla convinzione che l’ateismo era l’alternativa meno accettabile. A poco a poco sono giunto alla conclusione che deve esistere un Dio che ha creato tutto questo, ma non sapevo com’era questo Dio”.
È istruttivo leggere, nel suo libro “Il linguaggio di Dio”, come superò questa impasse:
“Trovavo difficile gettare un ponte verso questo Dio. Più imparavo a conoscerlo, più la sua purezza e santità mi apparivano inavvicinabili. In questa amara consapevolezza arrivò la persona di Gesù Cristo. Era passato più di un anno da quando avevo deciso di credere in qualche specie di Dio, ed ora ero arrivato alla resa dei conti. In un bel mattino di autunno, mentre per la prima volta passeggiando sulle montagne mi spingevo all’ovest del Mississippi, la maestà e bellezza della creazione vinsero la mia resistenza. Capii che la ricerca era arrivata al termine. Il mattino seguente, al sorgere del sole, mi inginocchiai sull’erba bagnata e mi arresi a Gesù Cristo” [2].
Viene da pensare alla parola di Cristo: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. È solo in lui che Dio diventa accessibile e credibile. Grazie a questa fede ritrovata, il momento della scoperta del genoma umano fu, nello stesso tempo, dice lui, un’esperienza di esaltazione scientifica e di adorazione religiosa.
La conversione di questo scienziato dimostra che l’evento di Damasco si rinnova nella storia; Cristo è lo stesso, oggi come allora. Non è facile per uno scienziato, specie per un biologo, dichiarasi oggi pubblicamente credente, come non lo fu per Saulo: si rischia di essere immediatamente “cacciati dalla sinagoga”. E di fatti è quello che è successo al Prof. Collins che per la sua professione di fede ha dovuto subire gli strali di molti laicisti.
4. Dalla presenza di Dio alla presenza di Cristo
Mi resta da dire qualcosa sull’altro punto: cosa l’esempio di Paolo ha da dire per la vita spirituale dei credenti. Uno dei temi più trattati nella spiritualità cattolica è quello del pensiero della presenza di Dio [3]. Non si contano i trattati su questo argomento dal secolo XVI ad oggi. In uno di essi si legge:
“Il buon cristiano deve abituarsi a questo santo esercizio in ogni tempo e in ogni luogo. Al risveglio rivolga subito lo sguardo dell’anima su Dio, parli e conversi con lui come il suo padre amato. Quando cammina per le strade tenga gli occhi del corpo bassi e modesti elevando quelli dell’anima a Dio”[4].
Si distingue il “pensiero della presenza di Dio” dal “sentimento della sua presenza”: il primo dipende da noi, il secondo è invece dono di grazia che non dipende da noi. (Si sa che per san Gregorio Nisseno “il sentimento della presenza” di Dio, la aisthesis parousia, è quasi un sinonimo di esperienza mistica).
Si tratta di una visione rigidamente teocentrica che in alcuni autori si spinge fino al consiglio di “lasciare da parte la santa umanità di Cristo”. Santa Teresa d’Avila reagirà energicamente contro questa idea che riappare periodicamente da Origene in poi in seno al cristianesimo sia orientale che occidentale. Ma la spiritualità della presenza di Dio, anche dopo di lei, continuerà a essere rigidamente teocentrica, con tutti i problemi e le aporie che ne derivano, messe in luce dagli stessi autori che ne trattano[5]. È una spiritualità “etsi Cristus non daretur”, come se Cristo non eistesse.
Su questo punto il pensiero di san Paolo ci può aiutare a superare la difficoltà che ha portato al declino della spiritualità del presenza di Dio. Egli parla sempre di una presenza di Dio “in Cristo”. Una presenza irreversibile e insuperabile. Non c’è uno stadio della vita spirituale in cui si possa fare a meno di Cristo, o andare “oltre Cristo”. La vita cristiana è una “vita nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3). Questo cristocentrismo paolino non attenua l’orizzonte trinitario della fede ma lo esalta, perché per Paolo tutto il movimento parte dal Padre e ritorna al Padre, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. L’espressione “in Cristo” è intercambiabile, nei suoi scritti, con l’espressione “nello Spirito”.
Il bisogno di superare l’umanità di Cristo, per accedere direttamente al Logos eterno e alla divinità, nasceva da una scarsa considerazione della risurrezione di Cristo. Questa veniva vista nel suo significato apologetico, come prova della divinità di Gesù, e non abbastanza nel suo significato misterico, come inaugurazione della sua vita “secondo lo Spirito”, grazie alla quale l’umanità di Cristo appare ormai nella sua condizione spirituale e dunque onnipresente e attuale.
Cosa ne deriva sul piano pratico? Che noi possiamo fare ogni cosa “in Cristo” e “con Cristo”, sia che mangiamo, sia che dormiamo, sia che facciamo qualsiasi altra cosa: “Tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (Col 3,17; 1 Cor 10,31).
Il Risorto non è presente solo perché lo pensiamo, ma è realmente accanto a noi; non siamo noi che dobbiamo, con il pensiero e la fantasia, riportarci alla sua vita terrena e rappresentarci gli episodi della sua vita (come ci si sforzava di fare nella meditazione dei “misteri della vita di Cristo”); è lui, il risorto, che viene verso di noi. Non siamo noi che, con l’immaginazione, dobbiamo diventare contemporanei di Cristo; è Cristo che si fa realmente nostro contemporaneo. “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. (A proposito, perché non fare subito un atto di fede? Egli è qui, in questa cappella, più presente di quanto lo sia ciascuno di noi; cerca lo sguardo del nostro cuore e gioisce quando lo trova).
Una testo che riflette meravigliosamente questa visione della vita cristiana è la preghiera attribuita a san Patrizio: “Cristo con me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, Cristo in me! Cristo sotto di me, Cristo sopra di me, Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra!”[6]
Quale nuovo e più alto significato acquistano le parole di san Luigi Grignon de Montfort, se applichiamo allo “Spirito di Cristo” ciò che egli dice dello “spirito di Maria”:
“Dobbiamo abbandonarci allo Spirito di Cristo per essere mossi e guidati secondo il suo volere. Dobbiamo metterci e restare fra le sue mani come uno strumento tra le mani di un operaio, come un liuto tra le mani di un abile suonatore. Dobbiamo perderci e abbandonarci in lui come pietra che si getta in mare. È possibile fare tutto ciò semplicemente e in un istante, con una sola occhiata interiore o un lieve movimento della volontà, o anche con qualche breve parola” [7].
5. Dimentico del passato
Concludiamo tornando al testo di Filippesi 3. San Paolo termina le sue “confessioni” con una dichiarazione:
“Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3, 13-14).
“Dimentico del passato”. Quale passato? Quello di fariseo, di cui ha parlato prima? No, il passato di apostolo, nella Chiesa! Ora il guadagno da considerare perdita è un altro: è proprio l’aver già una volta considerato tutto una perdita per Cristo. Era naturale pensare: “Che coraggio, quel Paolo: abbandonare una carriera di rabbino così ben avviata per una oscura setta di galilei! E che lettere ha scritto! Quanti viaggi ha intrapreso, quante chiese fondato!”
L’Apostolo ha avvertito confusamente il pericolo mortale di rimettere tra sé e il Cristo una “propria giustizia” derivante dalle opere - questa volta le opere compiute per Cristo -, e ha reagito energicamente. “Io non ritengo -dice- di essere arrivato alla perfezione”. San Francesco d’Assisi, verso la fine della vita, tagliava corto a ogni tentazione di autocompiacenza, dicendo: “Cominciamo, fratelli, a servire il Signore, perché finora abbiamo fatto poco o niente”[8].
Questa è la conversione più necessaria per noi che abbiamo già seguito Cristo e siamo vissuti al suo servizio nella Chiesa. Una conversione tutta speciale, che non consiste nell’abbandonare il male, ma, in certo senso, nell’abbandonare il bene! Cioè nel distaccarsi da tutto ciò che si è fatto, ripetendo a se stessi, secondo il suggerimento di Cristo: “Siamo servi inutili; abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10).
Questo svuotarci le mani e le tasche di ogni pretesa, in spirito di povertà e umiltà, è il modo migliore per prepararci al Natale. Ce lo ricorda una simpatica leggenda natalizia che mi piace citare di nuovo. Narra che tra i pastori che accorsero la notte di Natale ad adorare il Bambino ce n’era uno tanto poverello che non aveva proprio nulla da offrire e si vergognava molto. Giunti alla grotta, tutti facevano a gara a offrire i loro doni. Maria non sapeva come fare per riceverli tutti, dovendo tenere in braccio il Bambino. Allora, vedendo il pastorello con le mani libere, prende e affida a lui Gesù. Avere le mani vuote fu la sua fortuna e, su un altro piano, sarà anche la nostra.