Gesù nostro contemporaneo
Comitato per il progetto culturale della CEI
Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione.
di J. Ratzinger / Benedetto XVI
Card. Angelo Scola
Arcivescovo di Milano
Se vuol essere esauriente, qualsiasi riflessione o dialogo su Gesù di Nazaret non può evitare la sconvolgente “pretesa” dell’annuncio della Sua risurrezione. Dalla mattina di Pasqua, infatti, una catena ininterrotta di testimoni ha consegnato alla storia l’annuncio di Gesù Risorto, primizia della risurrezione dai morti. Tutto il cristianesimo sta o cade sulla verità di tale pretesa e sulla decisione rispetto ad essa. Infatti annunciare Gesù Risorto è annunciare Gesù come contemporaneo, cioè, affermare la possibilità di incontrarLo e di seguirLo qui ed ora. In una parola, di essere da Lui salvati oggi. Lo aveva già visto Sören Kierkegaard quando scrisse:
«l’unico rapporto etico che si può avere con la grandezza (così anche con Cristo) è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette di ammirarlo… e mi lascia anche vivere in tutt’altre categorie: non mi costringe a giudicare in senso definitivo»[1].
È evidente, allora, che sulla risurrezione si gioca l’esperienza credente di ogni cristiano. Questo spiega perché sia la proposta metodologica, sia lo sviluppo dei contenuti dell’opera che Joseph Ratzinger-Benedetto XVI dedica a Gesù di Nazaret trovino il loro adeguato orizzonte nella considerazione della risurrezione del Signore. Il capitolo 9 del secondo volume – La risurrezione di Gesù dalla morte – con le sue Prospettive – È salito al cielo. Siede alla destra di Dio Padre e di nuovo verrà nella gloria – rappresenta il fulcro della ricerca ratzingeriana e, nello stesso tempo, il fattore decisivo per cogliere la contemporaneità dell’evento Gesù Cristo all’uomo di ogni tempo e luogo.
Rispetto all’annuncio di “Gesù nostro contemporaneo” - per dirla col titolo di questo evento internazionale promosso dal Comitato per il Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Italiana - noi ci troviamo allo stesso crocevia in cui si trovarono gli apostoli. La morte in croce di Gesù, infatti, provocò lo scandalo nei Suoi. E non poteva non provocarlo, poiché nessuno aveva mai parlato di un Messia crocefisso: «In un primo momento, la fine di Gesù sulla croce era stata semplicemente un fatto irrazionale, che metteva in questione tutto il suo annuncio e l’intera sua figura»[2]. Per noi oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, è consuetudine riferirci al Carme del servo sofferente di Isaia (Is 53) o ai Salmi “della Passione” come ad anticipazioni o prefigurazioni della morte del Messia. Ma l’enigmatica figura del servo sofferente non era mai stata concepita come messianica. Non era infatti una figura regale. E come c’entravano, almeno a prima vista, i lamenti del salmista nei Salmi 22 o 69 col Messia figlio di Davide?
Si impone, a questo punto, una domanda: come sono arrivati i discepoli a cogliere nel Crocifisso il compimento delle promesse messianiche? Come si spiega che quei primi, sconvolti dalla croce nonostante tre anni di convivenza con il loro “rabbi”, abbiano cominciato a cogliere nelle Scritture l’annuncio di quanto si sarebbe effettivamente adempiuto nella singolare vicenda di Gesù? Come mai Pietro ha potuto concludere il suo discorso la mattina di Pentecoste affermando: «Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36)?
È stato un avvenimento clamoroso e del tutto sorprendente, la risurrezione di Gesù, del Crocifisso apparso a loro vivo - proprio Lui, come indica il sepolcro vuoto -, a condurre la loro ragione a “capire” ciò che era già contenuto nelle Scritture: «Non sono state le parole della Scrittura a suscitare il racconto dei fatti, ma i fatti in un primo tempo incomprensibili hanno condotto ad una nuova comprensione della Scrittura»[3]. Infatti «“la fede cristiana tiene o si perde a seconda che si creda o no alla risurrezione del Signore”, la quale è un “evento”, non un’idea. L’idea non può produrre eventi. Viceversa un evento, oltre che produrre altri eventi, può produrre una rete interminabile di idee»[4].
La stessa dinamica - e in questo si vede la genialità metodologica della proposta del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger – è rintracciabile in ogni istante della storia del cristianesimo. Infatti, scrive il nostro autore: «Il processo del divenire credenti si sviluppa in modo analogo a quanto è avvenuto nei confronti della croce. Nessuno aveva pensato ad un Messia crocifisso. Ora il “fatto” era lì, e in base a tale fatto occorreva leggere la Scrittura in modo nuovo… La nuova lettura della Scrittura, ovviamente, poteva cominciare soltanto dopo la risurrezione, perché solo in virtù di essa Gesù era stato accreditato come inviato di Dio»[5].
Quali sono le implicazioni della proposta ratzingeriana per un’adeguata lettura dei Vangeli che conduca il fedele al riconoscimento della contemporaneità di Gesù?
2. Il Gesù reale e la comunità confessante
L’autore parte dalla preoccupazione esplicita di «presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il “Gesù storico” in senso vero e proprio. Io sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. Io ritengo che proprio questo Gesù - quello dei Vangeli - sia una figura storicamente sensata e convincente»[6]. È proprio questa «figura storicamente sensata e convincente», rintracciata da Joseph Ratzinger nei Vangeli, che riconosciamo come a noi contemporanea. A questa condizione è ragionevole seguirLo, qui ed ora.
Ratzinger intende in tal modo esplicitare la struttura propria dell’annuncio evangelico. Potremmo anche dire: la struttura essenziale della cristologia, così come essa è espressa negli stessi Vangeli, che mette immediatamente in campo il rapporto fede-storia.
Per illustrare adeguatamente questa affermazione, è utile far ricorso alla figura geometrica dell’ellisse. Sono i due fuochi che, nella loro reciprocità, danno forma all’ellisse. La testimonianza evangelica rivela una reciprocità tra due fuochi: il Gesù reale (contenuto della testimonianza) e la comunità apostolica confessante (forma della testimonianza). Ha quindi una struttura ellittica. Si parla di reciprocità perché, se sono gli occhi della fede del soggetto ecclesiale (secondo fuoco) a permettere l’accesso alla conoscenza del Verbo di Dio incarnato, il Gesù reale (primo fuoco), è quest’ultimo (primo fuoco) che continuamente plasma il soggetto che testimonia (secondo fuoco).
a) La critica illuminista
Come sappiamo fino al 1700 l’assunzione di questa struttura ellittica dell’annuncio evangelico è stata pacifica: si è spontaneamente accettata la corrispondenza tra contenuto testimoniato (Gesù reale) e fede testimoniale (comunità apostolica confessante).
Tuttavia, dalle origini della critica storica in ambito illuminista, questa convinzione è stata messa in crisi al punto che, col tempo, si è giunti fino ad affermare la tesi opposta: l’impossibilità di accedere al Gesù reale attraverso la comunità apostolica confessante, cioè attraverso la forma testimoniale della fede[7]. È paradigmatico in proposito il punto di partenza metodologico di un eminente esegeta, il cattolico americano John P. Meier. Nella sua opera in quattro volumi, A marginal Jew[8]: «Il “Gesù reale” (...) nel senso usato (...) di una ragionevole testimonianza completa di parole e azione pubbliche, è sconosciuto e non conoscibile. Il lettore che volesse conoscere il Gesù reale dovrebbe chiudere questo libro immediatamente, poiché il Gesù storico non è il Gesù reale, né la facile via che a lui conduce. Il Gesù reale non è accessibile e non lo sarà mai. Questo è vero non perché Gesù non sia esistito - certamente è esistito -, ma piuttosto perché le fonti rimaste non hanno mai avuto l’intenzione di registrare tutto o la maggior parte delle parole e delle azioni del suo ministero pubblico - per non parlare del resto della sua vita -»[9]. Secondo Meier, noi non possiamo, dunque, conoscere il “Gesù reale”, possiamo invece, conoscere il “Gesù storico”. Chi è questo Gesù storico? «Per “Gesù della storia” intendo il Gesù che possiamo “recuperare” ed esaminare usando gli strumenti scientifici della moderna ricerca storica (...) Per sua natura, questa ricerca può ricostruire solo frammenti di un mosaico, il pallido profilo di un affresco sbiadito che consente molte interpretazioni (…) Il Gesù storico può darci frammenti della persona “reale”, ma niente di più»[10].
È ragionevole domandarci: dove porta l’affermazione dell’impossibilità di arrivare al Gesù reale attraverso la testimonianza della comunità apostolica confessante così come ci è attestata dai Vangeli? Essa conduce inesorabilmente alla negazione della capacità della comunità testimoniante di “conoscere” Gesù di Nazaret e, a fortiori, impedisce di relazionarsi a Lui come a noi contemporaneo[11].
In altri termini: la separazione tra “ciò che riesco a conoscere su Gesù tramite lo studio e il ragionamento” e “ciò che sostengo tramite la fede”, lascia veramente spazio alla fede adeguatamente intesa? Se le certezze sul Gesù vissuto nella Palestina del primo secolo sono affidate solo all’analisi storico-critica, a cosa serve la fede? Ratzinger rileva il pericolo di una simile separazione tra conoscenza storica e fede: «Come risultato comune di tutti questi tentativi [si riferisce alle ricostruzioni del Gesù storico realizzate dalla ricerca scientifica soprattutto a partire dagli anni Cinquanta] è rimasta l’impressione che, comunque, sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo in seguito la fede nella sua divinità abbia plasmato la sua immagine. Questa impressione, nel frattempo, è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto»[12].
b) Come uscire dall’impasse
È possibile offrire una critica adeguata all’assolutizzazione del pur necessario metodo storico-critico che sembra imporre il divieto di accedere al Gesù reale attraverso la comunità apostolica confessante? Ci sono a mio avviso due strade, necessarie e complementari, per mostrare l’insufficienza di questa assolutizzazione.
La prima di esse poggia sulla considerazione del “testo” in quanto tale[13]. Un certo uso del metodo storico-critico, infatti, prescinde da quanto hanno messo in evidenza autori come Gadamer, parlando della Wirkungsgeschichte (storia dell’efficacia) del testo. Lo spazio che si apre tra il testo e il lettore non è vuoto, ma carico degli effetti esercitati lungo il tempo dal testo stesso[14]. Questo dato non è estraneo né al testo né al lettore contemporaneo del testo. Inoltre le scienze linguistiche si sono soffermate sulla distinzione tra il linguaggio informativo e il linguaggio performativo (che propone enunciati nuovi in dialogo con gli ascoltatori e i lettori)[15]. Di questa natura sarebbero le confessioni di fede cristiane[16].
Questi rilievi, se riferiti ai Vangeli, già di per sé consentono di riconoscere che è stata la confessione di Gesù da parte della comunità apostolica (forma testimoniante) «a fondare il racconto della sua [di Gesù] storia, mentre chi non ha creduto in lui non ha neppure sentito la necessità di raccontare la sua storia»[17]. Nel caso di Gesù fede e storia sono inseparabilmente intrecciate. Non si comprende, allora, su quale base critica si possa escludere l’apporto della fede per la conoscenza della storia del Galileo. Non è possibile rinunciare alla struttura ellittica della cristologia prescindendo dall’uno o dall’altro dei due fuochi (contenuto della testimonianza- forma testimoniale, ovvero Gesù reale – comunità apostolica confessante): è stata infatti la comunità confessante dei testimoni a raccontare la storia di Gesù, a rendere conto del contenuto della testimonianza, il Gesù reale.
La seconda strada, ancor più radicale, per mostrare l’inadeguatezza dell’assolutizzazione del metodo storico-critico, ci porta a riconoscere che l’inseparabile intreccio tra fede e storia si evince anche dalle più avvedute riflessioni sulla natura della storia. Se dobbiamo pensare ad un qualche senso della storia, non possiamo ridurla ad una somma di fatti bruti tra loro giustapposti. Se la storia ha un senso è perché, in un certo modo, in essa si attua il destino dell’uomo. La storia è res gestae, cioè espressione di azioni significanti. Questo dato emerge con chiarezza dalla considerazione dell’intenzione generativa dei testi che raccontano la storia. Questi, infatti, non consentono di essere spogliati da tale intenzione da parte di una pretesa oggettività storica, sotto pena di rimanere in totale balìa della ricerca soggettiva. Va indubbiamente riconosciuta l’esistenza di uno scarto tra l’analisi critica di un testo e l’intenzione generativa del medesimo, tuttavia questo scarto sta a garantire l’originalità dell’intenzione fondativa del testo, impedendo al lettore o allo scienziato di appropriarsene come se fosse un suo prodotto. L’intenzione, sempre soggiacente al racconto storico, è la solida manifestazione di come le circostanze e i rapporti che fanno la storia orientino la libertà a prendere posizione, a decidere. Proprio per questa ragione, la storia e il testo che la racconta chiedono adesione, la fede, non la pura credenza, ma la fede come dimensione “critica” della ragione[18].
Nel caso dell’evento di Gesù Cristo risorto, evento che incomincia nella storia (attraverso il Suo darsi a vedere) ma si proietta escatologicamente nel “nuovo eone”, la libertà interpellata è quella testimoniante del credente. La testimonianza evangelica della comunità apostolica confessante ha come intenzione profonda quella di offrirci l’accesso alla verità di Gesù, al Gesù reale. Così sia il Gesù reale (contenuto delle fede) che la comunità apostolica confessante (forma testimoniale) hanno una qualità storica, non si trovano oltre e fuori della storia, in modo che per fare storia si debba eliminare la figura ellittica della cristologia. In questo modo nell’incontro con la comunità ecclesiale confessante, l’uomo può decidere per la verità del Gesù reale, proprio perché essa si offre storicamente alla sua libertà[19]. Questa è l’intenzione dei Vangeli: permettere, a partire dai testimoni, di arrivare al Testimone fedele (cf. Ap 1,5) perché la libertà possa prendere posizione su di Lui[20].
c) L’accesso al Gesù reale
La struttura propria dell’annuncio trasmesso dai Vangeli, impone ad un’ermeneutica autenticamente critica di mantenere salda l’ellissi nei suoi due fuochi: il contenuto della testimonianza (il Gesù reale) e l’attestarsi nella Scrittura della forma testimoniante ad opera della comunità apostolica.
Questa struttura rispetta la genesi storica della Sacra Scrittura: essa è l’attestarsi del rapporto che la comunità confessante ha con il Testimone fedele (cf. Ap 1,5). La comunità cristiana, soggetto vitale, di cui gli apostoli, radunati intorno al Sì immacolato di Maria[21], sono il nucleo costitutivo, in forza della risurrezione, è diventata testimone di quanto è accaduto: i discepoli hanno trasmesso ciò che hanno vissuto, ciò che essi «hanno udito, quello che hanno veduto con i loro occhi, quello che hanno contemplato e che le loro mani toccarono del Verbo della vita» (cf. 1Gv 1,1). La Scrittura pertanto non può essere letta e compresa al margine del soggetto vivo che l’ha generata come forma normativa (ispirata e canonica) di testimonianza. Afferma in proposito Ratzinger: «Il popolo di Dio – la Chiesa – è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della Bibbia sono sempre presenza»[22].
Una lettura equilibrata della Scrittura che la mantenga organicamente correlata ai diversi significati analogici della Parola di Dio - il Verbo eterno, la persona di Gesù Cristo, la predicazione degli Apostoli, la Parola trasmessa dalla Tradizione viva della Chiesa e quella attestata e divinamente ispirata che è la Sacra Scrittura, Antico e Nuovo Testamento[23] - consente l’accesso alla persona storica di Gesù Cristo, alla Sua predicazione e alle Sue azioni, alla Sua morte e risurrezione, alle Sue apparizioni e al Suo ingresso nell’eone definitivo. Permette, cioè, di avere accesso al Gesù reale.
Una corretta ermeneutica, pertanto, deve accettare che proprio il carattere storico della rivelazione, attestato dalla Scrittura, richieda di non squalificare la forma testimoniale della comunità confessante, ma di valorizzarla al massimo. La dimensione teologica dell’ermeneutica consente una realistica assunzione della forma testimoniante, cioè di uno dei due ineliminabili poli dell’ellisse. Scopo ultimo dell’ermeneutica non potrà essere quello di ridurre il fuoco della comunità apostolica confessante (forma testimoniale) a ricerca della “nuda verità storica”, al fine di verificare cosa può resistere del primo fuoco, il Gesù reale (il contenuto della testimonianza). Anche se questo lavoro ha una sua utilità, esso dovrà inserirsi nell’orizzonte compiuto della comunità apostolica confessante che, per poter accedere al contenuto testimoniato, il Gesù reale, necessita di fede e ricerca storico-critica.
Se non è possibile prescindere dalla comunità apostolica confessante (forma testimoniale), sarà però anche necessario verificare le condizioni di affidabilità di tale forma. E questo proprio in ordine alla possibilità di raggiungere il Gesù Cristo reale (contenuto della testimonianza). In quest’ottica ermeneutica, compiuta ed unitaria, la dimensione storico-critica del metodo risulta decisiva, qualora non si presuma l’impossibile, cioè, l’obliterazione della “fede testimoniante” per il timore che comprometta la scientificità dell’ermeneutica stessa. La dimensione storico-critica è resa necessaria dalla condizione storica del contenuto della testimonianza. A rivelare Dio è l’umanità singolare di Gesù di Nazaret con la sua storia. Tale singolarità storica di Gesù ha un valore universale proprio perché si tratta dell’umanità del Figlio unico di Dio. L’aspetto storico-critico e quello teologico-spirituale sono distinguibili, ma inseparabilmente correlati. In questo contesto appare la fecondità degli apporti della Terza Ricerca, in particolare di quelli che indagano l’ebraicità di Gesù.
L’ermeneutica adeguata alla Scrittura si dà solo se vengono assunti integralmente i due fuochi dell’ellisse propri dell’annuncio evangelico.
La dinamica descritta ridona alla categoria di testimonianza il suo ruolo primario. L’annuncio evangelico incontra, in ogni tempo e luogo, l’esperienza di una persona tramite il testimone e la sua testimonianza. Prende da qui avvio l’avventura dell’interpretazione o verifica, in cui tutti i fattori in gioco vengono valorizzati: la qualità dell’esperienza del testimone, il contenuto della testimonianza, l’apertura della ragione di chi la dona e di chi la riceve, come la loro moralità o responsabilità. Si capisce allora che anche l’akribeia dell’esegeta non si giochi soltanto nella sua padronanza dei metodi di critica letteraria, ma nella sua responsabilità morale di fronte a quella testimonianza che ha raggiunto la sua esperienza.
3. Due implicazioni culturali della contemporaneità di Gesù
Alla luce della proposta del Gesù di Nazaret di Ratzinger vorrei mettere brevemente in evidenza due implicazioni “culturali”.
La prima può essere così formulata: l’ermeneutica biblica proposta da Joseph Ratzinger nel Gesù di Nazaret rappresenta una perspicua documentazione dell’incessante richiamo del Papa ad allargare la ragione per rispettarne tutta l’ampiezza. Infatti, riconoscere la necessità di attenersi all’intima connessione del “contenuto della testimonianza” (il Gesù reale) con la “forma testimoniale” (la comunità apostolica confessante) significa mettere in valore l’ “istanza critica” della ragione. Questo, come abbiamo visto, è congruo con la natura stessa della storia che mai può eludere l’appello della libertà.
La ragione, infatti, è chiamata ad essere aperta al contenuto trasmesso dalla testimonianza, senza pre-giudicarne la possibilità. L’annuncio evangelico favorisce questa apertura quando narra l’ingresso del Mistero nella storia. Invece l’ipotesi della Rivelazione costituisce spesso uno scandalo per la ragione moderna. Ne dà prova lo stesso Ratzinger a proposito delle testimonianze sulla Risurrezione: «Ma può veramente essere stato così? Possiamo noi -soprattutto in quanto persone moderne- dar credito a testimonianze del genere? Il pensiero ‘illuminato’ dice di no (…) Nelle testimonianze sulla resurrezione, certo, si parla di qualcosa che non rientra nel mondo della nostra esperienza (…) Ci viene detto piuttosto: esiste un’ulteriore dimensione rispetto a quelle che finora conosciamo. Ciò sta forse in contrasto con la scienza? Può veramente esserci solo ciò che è esistito da sempre? Non può esserci la cosa inaspettata, inimmaginabile, la cosa nuova?»[24]. Il cristianesimo annuncia proprio questo novum. Ed è proprio qui che si salva il principio di analogia nella sua verità radicale: col novum cristiano un evento è entrato nella storia: «Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo / Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato»[25]. Un evento passato anticipa l’evento presente e questo sempre ripropone l’evento passato. Ed il novum dell’avvenimento inaspettato che si fa presente allarga la ragione: la realtà è più grande di quanto io potessi immaginare. È ragionevole supporre che il Mistero che fa tutto il reale possa irrompere nella mia storia presente come fece, nel passato, in quella di Maria e Giuseppe, dei pastori, dei Magi e di coloro che seguirono Gesù.
La seconda implicazione culturale si rifà alla qualità propria della storia e, in questo caso, della storia di Gesù. La storia chiede decisione, chiede libertà. Emerge con forza il celebre imperativo di Kierkegaard nel suo Diario: «la verità è che è stato completamente dimenticato l’imperativo cristiano: tu devi. Che il cristianesimo ti è stato annunciato significa che tu devi prendere posizione di fronte a Cristo. Egli, o il fatto che Egli esiste, o il fatto che sia esistito è la decisione di tutta la esistenza»[26]. Non c’è storia che possa prescindere dalla decisione del singolo uomo, né uomo che possa pretendere di decidere al posto di un altro. Ogni censura fatta alla storia, è condannata a fallire, proprio perché è una sorta di attentato oggettivo contro la libertà.
4. Oggi come ad Emmaus
Il cammino che porta oggi alla confessione di fede nel Risorto, abbiamo affermato all’inizio, è lo stesso che dovettero percorrere i primi. L’episodio di Emmaus ne descrive paradigmaticamente la dinamica. Come chiarisce Ratzinger-Benedetto XVI: «Il racconto circa i discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35) descrive il cammino fatto insieme, la conversazione nella comune ricerca, come un processo in cui il buio delle anime pian piano si rischiara grazie all’accompagnamento di Gesù (cfr v. 15). Si rende evidente che Mosè e i Profeti, che “tutte le Scritture” avevano parlato degli eventi di questa passione (cfr. v. 26s): l’ “assurdità” si rivela ora nel suo profondo significato. Nell’avvenimento apparentemente privo di senso si è in realtà schiuso il vero senso del cammino umano; il senso ha riportato la vittoria sulla potenza della distruzione e del male»[27].
Un avvenimento che non si poteva prevedere illumina tutte le Scritture. I due discepoli lo riconoscono. Sperimentano una sorprendente corrispondenza tra il rimprovero di Gesù e la loro ragione (per l’antropologia ebraica il “cuore”): «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). Tutte le cose cui Gesù faceva riferimento erano già presenti nelle Scritture, ma essi non se ne erano resi conto. Infatti, Gesù “denuncia” la loro incapacità di ragionare: «Sciocchi e tardi di cuore [lenti nel ragionare] nel credere alla parola dei profeti!» (Lc 24,25).
L’episodio di Emmaus ci inoltra nel cammino della fede, e previene il rischio, sempre incombente, di una riduzione intellettualistica dell’interpretazione. È il gesto “sacramentale” di Gesù, lo spezzare il pane, quello che apre gli occhi ai discepoli che possono così riconoscerlo (cf. Lc 24,31). Oggi, come allora, la testimonianza della risurrezione di Gesù ci raggiunge in “gesti e parole intrinsecamente unite”. Per la potenza dello Spirito, a noi oggi accade di fare la stessa esperienza dei due di Emmaus, attraverso parole vere e gesti sacramentali che in modo efficace realizzano quello che significano[28].
Per questo l’Eucaristia - che non si dice in modo compiuto se non si arriva ad affermare la sua res, cioè, l’unità del popolo di Dio, della Chiesa - è il luogo proprio dell’interpretazione delle Scritture, cioè, dell’accesso al Gesù reale[29]. Nell’Eucaristia il Risorto si rende contemporaneo alla libertà di ogni uomo e lo urge a dar “forma eucaristica” a tutta la sua esistenza.
La contemporaneità eucaristica del Risorto all’umana libertà, assicurata sacramentalmente per l’opera dello Spirito, è espressione della novità della risurrezione, da non confondere mai con la mera sopravvivenza. Infatti, come afferma Ratzinger-Benedetto XVI, «potremmo considerare la risurrezione quasi come una specie di radicale salto di qualità in cui si dischiude una nuova dimensione della vita, dell’essere uomini»[30]. Questa nuova dimensione dell’essere è caratterizzata dal superamento della spazialità che noi sperimentiamo, ma il corpo del Risorto è veramente corpo, e per sempre «l’Uomo Gesù appartiene ora anche con lo stesso suo corpo totalmente alla sfera del divino e dell’eterno»[31]. In questo senso il vero Corpo del Risorto - il corpo cosmico di cui parlano le Lettere ai Colossesi (cfr 1, 12-23) e agli Efesini (cfr 1,3-23) - è «il luogo in cui gli uomini entrano nella comunione con Dio e tra loro e così possono vivere definitivamente nella pienezza della vita indistruttibile»[32]. Si comprende, allora, perché la Chiesa, fin dall’inizio, parli dell’Eucaristia come pignus futurae gloriae e perché l’abbia sempre considerata come la testimonianza per eccellenza della Presenza di Cristo in mezzo a noi.
Il cuore di ogni uomo di ogni tempo e luogo, per quanto confuso possa essere il suo incedere lungo la strada della vita, grida il bisogno di salvezza. Che enigma mai sono io che ora sono, ieri non ero e domani non sarò? Ogni uomo, magari nelle più profonde e poco sondabili fibre del suo essere, invoca un Salvatore. Ma la questione delle questioni è che può salvare solo uno che sia vittorioso per sempre sulla morte e che nel presente si relazioni gratuitamente con me. L’ha intuito Kafka in una celebre lettera a Milena: «Lei continuamente impara a proprie spese che si può salvare un altro soltanto mediante la propria esistenza. Ed ora mi ha già salvato con la sua esistenza e cerca ancora di farlo in un secondo tempo con altri mezzi, infinitamente minori. Se uno salva l’altro dall’affogare, compie beninteso una grandissima azione, ma se in seguito dona al salvato anche un abbonamento a lezioni di nuoto, a che serve? Perché cerca, questo salvatore, di alleggerirsi il compito, perché non vuol continuare a salvare l’altro ancora con la sua esistenza, con la sua esistenza sempre pronta, perché vuol scaricare il compito sulle spalle di maestri di nuoto?»[33].
Gesù il Crocifisso Risorto, Colui che ha affermato «Io ed il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30), ha il potere di salvarmi, di liberarmi dal peccato e dalla morte perché continua ad offrirsi tangibilmente alla libertà di ogni uomo attraverso la Sua Chiesa con la consolante promessa: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).
Egli è il contemporaneo Salvatore che ci raggiunge qui ed ora, e nel presente ci fa pregustare l’eterno.
[3]«Nella luce della risurrezione, nella luce del dono di un nuovo camminare in comunione col Signore, si doveva imparare a leggere l’Antico Testamento in modo nuovo: “Nessuno, infatti, si era aspettato una fine in croce del Messia (...) Non sono state le parole della Scrittura a suscitare il racconto dei fatti, ma i fatti in un primo tempo incomprensibili hanno condotto ad una nuova comprensione della Scrittura», ibid., 228.
[6] Id., Gesù di Nazaret I, Rizzoli, Milano 2007, 18. La proposta di Ratzinger vuol superare l’impoverimento della figura di Gesù a cui ha condotto l’assolutizzazione del metodo storico-critico. Afferma l’autore nella prefazione al libro di cui ci occupiamo oggi: «Il “Gesù storico”, come appare nella corrente principale dell’esegesi critica sulla base dei suoi presupposti ermeneutici, è troppo insignificante nel suo contenuto per aver potuto esercitare una grande efficacia storica; è troppo ambientato nel passato per rendere possibile un rapporto personale con Lui», ibid., 8-9.
[7] Una sintesi delle ricerche su Gesù in: G. Segalla, Sulle tracce di Gesù, Cittadella, Assisi 2006, 146-193; G. Theissen – A. Merz, Il Gesù storico, Queriniana, Brescia 1999, 13-29.
[10] Ibid., 31-32. A partire da tali presupposti si arrivato a sostenere che il cristianesimo nasce dal rifiuto di una riforma [della casa d’Israele] e propriamente parlando la sua figura fondatrice [Gesù] non gli appartiene. In proposito cf. D. Marguerat, La ricerca del Gesù storico tra storia e teologia: nessi e tensioni, in “Teologia” 33 (2008) 37-54.
[11] Cf. P. Beauchamp, L’uno e l’altro testamento. Saggio di lettura, Paideia, Brescia 2000; Id., L’uno e l’altro testamento. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001; G. Angelini (a cura di), La rivelazione attestata. La Bibbia fra testo e teologia, Glossa, Milano 1998.
[13] Faccio qui mio, in buona parte, il quadro sintetico proposto in: R. Penna, Gesù di Nazaret. La sua storia, la nostra fede, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, 16-21.
[14] Cf. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1995; J. D. G. Dunn, Gli albori del cristianesimo. 1. La memoria di Gesù, Paideia, Brescia 2006, 34-152.
[16] A queste considerazioni sul testo in quanto tale si possono aggiungere altri limiti dell’assolutizzazione del metodo storico-critico applicato al Nuovo Testamento: il rischio di lasciar ancorata nel passato la parola biblica, la tendenza a ridurre le parole bibliche a semplici parole umane e la perdita dell’unità della Bibbia come dato storico immediato. In proposito cf.: Ratzinger, Gesù di Nazaret I, 12-15.
[19] «Non esistono un Gesù della storia ed un Cristo della fede, di competenza, rispettivamente, della ricerca storico/archeologica e della elaborazione teologica. Solamente la fede può decidere della verità di Gesù, proprio perché quella di Gesù è una storia e come tale può essere restituita e compresa adeguatamente –non solo spiegata- soltanto prendendo posizione», G. Trabucco, A proposito di due libri discutibili, in Quale storia a partire da Gesù? Conversazioni di G. Barbaglio e A. Bodrato, Esodo Servitium, Venezia-Troina 2008, 97.
[24] Ratzinger, Gesù di Nazaret II, 274-275. In questo modo Ratzinger risponde ad una formulazione estrema del cosiddetto “principio di analogia”, formulato da Ernst Troeltsch nel celebre articolo Sul metodo storico e dogmatico in teologia (cf. E. Troeltsch, Gesammelte Schriften. Vol II. Zur religiösen Lage, Religionphilosophie und Ethik [Tübingen 1922] 729-753). Inoltre la formulazione del principio di analogia da parte di Troeltsch è stata sottomessa a rigorosa critica. A questo proposito cf.: V. A. Harvey, The Historian and the Believer. The Morality of Historical Knowledge and Christian Belief (New York 1966) 3-9, 14-19; W. Pannenberg, Grundfragen systematischer Theologie. Gesammelte Aufsätze (Göttingen 1967) 45-57; M. Hengel, “Historische Methoden und theologische Auslegung des Neuen Testaments”, KuD 19 (1973) 85-90; T. Peters, “The Use of Analogy in Historical Method”, CBQ 35 (1973) 475-482; G. Maier, Das Ende der historisch-kritischen Methode (Wuppertal 1974) 48; E. Krentz, The Historical-Critical Method (Philadelphia 1975) 55-61; W.J. Abraham, Divine Revelation and the Limits of Historical Criticism (Oxford 1982) 92-115.
[28] «La liturgie chrétienne est un lieu où le livre devient Parole. Et la théologie chrétienne fait même de cette parole la manifestation d’une présence. Quand une parole frappe mon oreille je cherche instinctivement celui qui parle. S’il veut être entendu, celui-ci ne craint pas d’attirer l’attention sur sa présence. L’acte de parole comporte un «je» qui se s’adresse à un «tu» ou à un «vous»; il est appel, convocation à l’écoute. Et le cadre de la liturgie chrétienne est tout entier fait pour donner vie à la «Parole». Il se vit comme un dialogue car il y a parole et réponse de l’assemblée» P. Béguerie, “La Bible née de la liturgie”, in La Maison-Dieu 126 (1976) 108-116, qui 111.
[29] «La Chiesa sacramento che vive dalla e nell’Eucaristia illuminata dalle Scritture, lette, in ultima analisi interpretate autenticamente nella liturgia garantita dal Magistero della Chiesa, è questa mediazione intrinseca» A. Scola, Eucaristia, incontro di libertà, Cantagalli, Siena 2005, 51.
Card. Angelo Scola
Arcivescovo di Milano
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