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mercoledì 21 maggio 2014

«Io non ho paura» - Francesca Pedrazzini

-E quando tuo figlio ti chiede… «Ma morire è una cosa bella?», tu come gli rispondi? Mamma Francesca ha risposto ai suoi figli dicendo loro che sarebbe andata in un posto bellissimo, in Paradiso.
Mamma Francesca, all’anagrafe Francesca Pedrazzini è stata una moglie e una madre, aveva sogni e progetti, ma aveva anche un tumore.
Suo marito, Vincenzo e i suoi tre figli, Carlo, Sofia e Cecilia erano la sua famiglia erano la sua vita e lei si chiese:
«Perché proprio a me?»
E non è che ci sia una risposta a questa domanda… Francesca ha scoperto la malattia nel Gennaio 2010, un nodulo di 5 centimetri nel seno. Operata e apparentemente guarita quando a Settembre 2011 dopo le vacanze al mare…. Metastasi alle ossa e al fegato.
La sorella Sara racconta: «Francesca è passata da tutti gli stati d’animo. La ribellione, l’ansia, l’angoscia… Ma il primo istante è stato un sì. Ha detto: va bene così. Non piangeva. Me lo ricordo bene, perché io ero disperata, ma avevo davanti una che non lo era [...] Aveva un’umanità ricca, sempre in lotta. Ed era consegnata a Gesù. Completamente».
Il Marito Vincenzo racconta: «Diciassette anni sulla stessa strada e gli ultimi giorni, i più belli. Era talmente splendente. Contenta. Mi ha trascinato dentro la sua certezza. E con me, i figli, gli amici. Ci ha contagiato. Capita anche adesso che qualcuno quando racconto di lei tema che mi si riapra una ferita. Invece, per me, è esattamente il contrario. Quando posso ricordare la sua certezza e la sua fede degli ultimi giorni sono più in pace. So dov’è la Franci in questo momento. So che è piena di gioia. Si era preparata. Ci aveva preparati».
Già, Francesca ha abbracciato letteralmente la morte con un coraggio esemplare datole dalla fede, fede che ha lasciato fuori dalla sua vita la disperazione, quella data da una malattia terribile, quella data dal perdere e lasciare le persone che si amano.
E Francesca stava male, Sara racconta che: «C’è stato un periodo in cui esageravano con gli antidolorifici. Lei ha chiesto di ridurli: “Preferisco avere mal di schiena, ma capire mio figlio quando mi parla”…».

Vincenzo scopre che manca poco:
«Quando i medici mi spiegano che manca poco, cado in uno stato di angoscia. Cosa faccio, glielo dico o no? Pensavo: ora scopre che mancano pochi giorni da vivere, e crolla. Come dire: tutto quello che c’è stato prima, non regge. Parlo con i parenti. Con i dottori. Un giorno e mezzo di crisi, totale. Lei a un certo punto mi guarda e fa: “Vince, vieni qui“. Mi siedo. E lei: “Guarda, devi stare tranquillo. Io sono contenta. Sono in pace. Sono certa di Gesù. Non ho paura, va bene così. Anzi, sono curiosa di quello che mi sta preparando il Signore”. Ma non sei triste? “No, sono tranquilla. Mi spiace solo per te, perché la tua prova è più pesante della mia, sarebbe stato meglio il contrario”.
Lì c’è stata una trasformazione. Io dopo quelle parole ero un altro. Ribaltato. L’angoscia era sparita. Le ho detto sorridendo: sì e vero, sarebbe stato meglio il contrario, soprattutto per i bambini. Poi lei riparte in quarta: “Voglio essere sepolta a Chiaravalle, mi raccomando! E poi ricordati che bisogna iscrivere la Ceci alle medie. Devo assolutamente segnare tutte le cose organizzative che si devono fare …”. Chiede di parlare con la dottoressa. Si fa spiegare tutto. E il giorno dopo domanda di vedere i bambini, uno per uno. “Guardate, io vado in Paradiso. È un posto bellissimo, non vi dovete preoccupare. Avrete nostalgia, lo so. Ma io vi vedro e vi curerò sempre. E mi raccomando, quando vado in Paradiso dovete fare una grande festa”».
Francesca aveva solo due strade: la disperazione, o la fede.
L’ultimo giorno lo vuole trascorrere in ospedale con i figli senza medici senza medicine… e senza lacrime. «Vado in un posto bellissimo, in Paradiso. Dovete fare festa».
Poi le ultime parole al marito: «Io non ho paura»
Ed è con queste parole che Davide Perillo ha titolato il libro che racconta la storia di Francesca e della sua fede.




martedì 8 maggio 2012

La malattia non si risolve eliminando il malato – Card. Angelo Bagnasco

«La malattia non si risolve eliminando il malato, ma curandolo e accompagnandolo. La malattia più temuta e il dolore più grande sono la solitudine e l’abbandono», scandisce all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana. Inaugurando la fondazione «Flyings Angels», Bagnasco lancia un pubblico appello contro l’eutanasia.
In privato, a colloquio in una saletta dell’ambasciata con i ministri del Welfare Elsa Fornero e della Salute, Renato Balduzzi, mette in guardia da tagli eccessivamente drastici alla spesa sociale e alla sanità, ribadendo la centralità della persona. A fornire l’occasione per l’incontro «fuori programma» con i due esponenti dell’esecutivo è stata la nascita della fondazione «Flyings Angels», istituita con lo scopo di trasferire rapidamente i bambini malati nei vari ospedali pediatrici, tra i quali l’Istituto «Gaslini» di Genova.
Nel presentare la conferenza, l’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, Francesco Maria Greco ricorda che la precedente visita del presidente della Cei coincideva con le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità nazionale. «Da allora la crisi economica ha reso ancora più urgente un’etica condivisa», evidenzia Greco. In sala, tra gli altri, il cardinale Giovanni Battista Re, il direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, il direttore di «Avvenire», Marco Tarquinio e i testimonial dell’iniziativa: il presidente dell’associazione italiana calciatori e il campione argentino Hernan Crespo, appena passato dal Parma ad una squadra indiana. «Perché la sofferenza umana, ma soprattutto perché la sofferenza dei bambini?- si chiede il cardinale Bagnasco-. Entrare con la propria sofferenza nella sofferenza di Cristo, significa dunque partecipare in modo unico alla redenzione dell'universo. Dio è amore, e l'amore genera e chiede libertà, proprio per questa ragione Gesù non ha tolto il dolore e la morte dal mondo, ma l’ha redenta abbracciandola Lui stesso, facendone luogo privilegiato del suo essere sulla terra, del suo incontro con gli uomini, perché il dolore non sia una strada senza uscita, di disperazione, ma diventi spazio di speranza».
E qui entra in campo il ruolo della società che «deve partecipare alla vita dei cittadini con rispetto e responsabilità, sia nelle gioie (ad esempio il matrimonio che fonda una nuova famiglia) come nelle difficoltà e nei dolori (ad esempio il lavoro, la casa, la malattia, la morte). Il rapporto però deve essere reciproco, nel senso che il soggetto ha verso la società dei diritti e dei doveri e così lo Stato. «Non è né coerente né corrispondente alla costituzione dell'uomo avere delle pretese nei confronti della società, e nello stesso tempo tenerla fuori totalmente invocando la privatezza assoluta- ammonisce il porporato-. Una società di individui-monadi è solo un agglomerato, un coacervo di interessi, di sensibilità, di scopi individuali, dove la legge avrà il compito di tenere a bada i privati appetiti, anziché promuovere il bene comune. Questo richiede sempre leggi giuste ed eque, ma esige anche un'anima che non dipende dalla norma, ma dal cuore: l'amore».
Per questa ragione,«nessuna buona legislazione potrà fare a meno della "caritas", di quella legge non scritta che nella storia ha generato forme di dedizione, volontariato, eroismo». La vita di ogni persona è «un bene per il soggetto, ma anche per la società intera, è un tesoro per tutti». La persona non appartiene alla società come la parte al tutto, poiché ognuno, per principio, ha «un valore per se stesso e non può essere strumentalizzato da nessuno», ma nello stesso tempo, di fatto, «ognuno si realizza con e grazie agli altri». Dunque, «la sofferenza di uno tocca tutti, non solo l'interessato e i suoi cari, tocca la società intera nella sua legislazione e nei suoi apparati».
Come a dire, in sintesi, che bisogna portarlo insieme. Si apre l'orizzonte della solidarietà tra uomini, famiglie, società e Stato. Infatti, «il malato, colui che ha bisogno degli altri per uscire dalla difficoltà o semplicemente per portarla, di per sé è una provocazione, è una chiamata affinché la società stessa assuma lui così com'è». Se la società è fatta di persone, e senza di loro non sarebbe nulla, essa «ha il dovere di accogliere se stessa nelle singole persone che la compongono e che la fanno essere, così come le persone sono, senza selezioni di intelligenza, di censo, di salute: in una parola di efficienza». Altrimenti non sarebbe una società umana, ma una struttura che discrimina in base alla legge dei più forti. Questa accoglienza operosa che cura e si prende cura «non è frutto solo della giustizia, ma è animata dall'amore», mette in guardia Bagnasco. La presenza dell'altro che, con la sua indigenza si presenta a noi, è un richiamo, una richiesta di amore: stimola e rende possibile lo sprigionarsi di quella riserva di dedizione e sacrificio, di fedeltà e dono, che (se non ci fosse la sollecitazione concreta e urgente) resterebbe «rinchiusa e forse addirittura sconosciuta a noi stessi». Di fronte alla sofferenza altrui «non dobbiamo avere paura di non essere capaci di risposte»: in ciascuno esistono, a volte latenti, potenzialità inesplorate e sorprendenti di bene «La società nel suo insieme, e lo Stato nelle sue proprie forme, devono accettare la sfida: ciò significa non lasciare soli i malati e i loro familiari, consapevoli che l'unica risposta coerente è farsi carico in ogni modo e con ogni mezzo di un patrimonio unico e irrinunciabile che è la vita di ogni persona”precisa il capo della Chiesa italiana-.
Non ci sono scorciatoie, anche se spesso sono presentate e propagate col volto di una falsa pietà. La malattia non si risolve eliminando il malato, ma curando e accompagnando, sapendo che la malattia più temuta e il dolore più grande sono la solitudine e l'abbandono».
(GIACOMO GALEAZZI)