Così
racconta Don Giovanni Barbareschi: Sono stato con don Carlo giorno e notte nel
corso dell’ultimo mese, fino alla sua morte: per me è stata l’esperienza più
forte e più significativa della mia umana vicenda. Quando la gravità del male
fece capire che ormai i giorni erano pochi, don Carlo volle celebrare quella
che sarebbe stata la sua ultima Messa.
Lui a letto con addosso la vestaglia blu
che metteva solo e unicamente nei momenti più importanti, io all’altarino da
campo, sul quale c’erano come calice la sua
teca e una piccola reliquia di Santa Teresa del Bambino Gesù - oggetti a lui
molto cari, perché li aveva sempre tenuti con sé quando era cappellano militare
in Grecia e in Russia - e il crocefisso che la mamma gli aveva regalato per la
sua prima Messa.
«Adesso domandiamo perdono a Dio con le nostre parole», e
ciascuno disse le sue parole. Iniziammo con la parola dell’uomo.
Leggemmo un
passo di Teilhard de Chardin. Gesuita, teologo, scienziato, aveva espresso un
desiderio: «Sarei felice di poter morire il giorno di Pasqua». Fu proprio così:
morì la domenica di Pasqua, 15 marzo 1955.
E don Carlo mi disse: «Io a Pasqua
non ci arrivo». Era la fine di febbraio. Poi volle che leggessi il capitolo 13
della lettera ai Corinti, l’Inno alla carità, e il Vangelo di Giovanni 15,13:
«Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per le persone che
ama». Prima della consacrazione, secondo il vecchio canone, il memento dei
vivi. Ciascuno ricordò una persona e lui i suoi mutilatini, «la mia baracca».
Usava proprio queste parole. Poi il memento dei morti: la mamma e il papà («non
l’ho conosciuto bene, lo conoscerò in Paradiso»). I commenti li faceva durante
la celebrazione. «E poi - disse a me -, e poi il tuo papà».
E i preti che
avevamo conosciuto, ricordava ciascuno.
Terminata la consacrazione, volle che
io portassi la cassetta con inciso un coro di monaci che cantava: adoro Te
devote latens Deitas. Chiese che venissero ripetute le parole in cruce latebat
sola Deitas. Finita la Messa, dopo dieci minuti di silenzio contemplativo, mi
disse: «Manca ancora qualcosa». Allora gli feci ascoltare Stelutis alpinis, la
canzone dei morti, dei suoi alpini morti. Così fu l’ultima Messa di don Carlo.
da:
“Don Gnocchi. Il prete che cercò Dio tra gli uomini”. Edito dal Centro
Ambrosiano e curato da Emanuele Brambilla