È un’esperienza forte visitare un paese straniero, soprattutto quando si prende contatto con i residenti, si soggiorna nelle loro case, condividendo la vita di semplici contadini che vivono circondati dalla foresta equatoriale, lontani da quella che noi definiamo la civiltà moderna delle grandi metropoli.
Mi soffermo a descrivere brevemente qualche quadretto della mia permanenza di un mese nel paesino di Brooke’s Point nel sud dell’isola di Palawan.
Lo spettacolo della cordigliera montuosa tutta rivestita di vegetazione che attraversa per il lungo tutta l’isola è semplicemente affascinante, come lo sono i verdi campi di riso e le piantagioni di palma da cocco. Ma ad animare il paesaggio che mi si offre dalla terrazza della casa nella quale sono ospite sono varie casupole, sparse lungo la strada sterrata che si inoltra nella foresta verso le montagne, sulle cui pendici vivono famiglie di contadini, nelle loro piccole abitazioni fatte di bambù e di foglie di banano intrecciate.
Il suono di fondo è prodotto dagli animali da cortile: galli, galline, capre, mucche e anatre, ma ciò che vivacizza maggiormente l’atmosfera è il vociare dei bambini che, quando sono liberi dalla scuola, si cimentano nei giochi più fantasiosi, come rincorrere un vecchio copertone d’auto o un pallone mezzo sgonfio.
Un famoso film del 1941, interpretato dall’attrice Green Garson, ricostruisce la vicenda di una donna di nome Edna Gardney che dedicò la sua vita, dopo la morte del marito, ad accogliere in un istituto da lei fondato i poveri orfani, che lei chiamava fiori nella polvere e tale è il titolo del film.
È appunto di uno di questi “ fiori nella polvere “ che vi voglio parlare.
Si tratta di un orfano, adottato dai parenti della famiglia di cui sono ospite e che abitano nella casa vicina.
Il suo nome è Balong, un ragazzino undici anni, magro come tutti i bimbi che vivono nella foresta anche se non emaciato, col suo caschetto di capelli neri e due occhioni, ugualmente neri che si aprono in un viso contratto a metà tra tristezza e preoccupazione.
L’ho avvicinato per medicargli una piccola abrasione sulla guancia quando mi sono accorto che sul petto, all’altezza dell’avambraccio aveva un’ampia ustione di 3° grado, col tessuto connettivale esposto attraverso il quale si intravedevano le fibre del muscolo pettorale. Il tutto era parzialmente coperto da una maglietta sporca e mezza straccia.
Non potendolo portare ad un pronto soccorso l’ho medicato con la cassetta di medicazione che avevo con me. Ed ecco ripetersi il racconto evangelico del “ buon samaritano “, riportato nel capitolo X° di Luca, che si china a medicare le ferite del viandante percosso.
I miei occhi si incontrano con lo sguardo penetrante del ragazzo, che, abituato alle prove ed alle sofferenze, non piange e non si lamenta neanche quando gli lavo la ferita con l’alcool isopropilico e la cospargo di aureomicina. Nei giorni successivi ho continuato regolarmente a medicarlo con apposite garze ed antibiotici fornitimi dal locale presidio ospedaliero. Ogni volta faticavo a vedermi calato nei panni del buon samaritano, come fossi un attore alle prime armi che fatica ad interpretare un personaggio; dall’altra parte c’era quel ragazzo che forse si chiedeva ch’io veramente fossi.
Forse un giorno quando sentirà nella chiesa cattolica proclamare quella pagina di Vangelo penserà a me, mentr’io continuerò sempre a sentirmi inferiore ed inadeguato rispetto non solo a quel Samaritano, ma tanto più ai santi sociali che la Chiesa eleva agli onori degli altari.
Sono certo però che in quei momenti Gesù era presente, come lo è durante l’Eucaristia che si celebra ogni giorno nelle chiese e che si rende presente nelle strade e nelle case della nostra Milano quando qualcuno di noi, cari fratelli e sorelle in Cristo, sappiamo fermare la nostra attenzione sulle povertà e sui bisogni del nostro prossimo, bianco o nero di carnagione, cristiano o no, ma comunque figlio di Dio.
Auguro a ciascuno di voi di fare personalmente o nell’ambito dei gruppi di cui si compone la Caritas parrocchiale questa essenziale esperienza di vita; infatti il futuro nostro e dell’intera umanità non dipende dal vocabolo sicurezza, ma dalla solidarietà cristiana.
Walter Covini