sabato 18 aprile 2015

Il Cristo della Passione e della Risurrezione - don Antonio Berera

Ho sempre pensato alla regalità di Cristo con un certo imbarazzo e inquietudine, imbarazzo perché chi non è credente non capisce come sia possibile conciliare regalità con amore e servizio, inquietudine perché non si capisce che necessità ci sia di ribadire la regalità di Cristo. Forse la risposta la possiamo trovare guardando al crocefisso, ma non uno qualunque, ma a quello che fa bella mostra di se sull’altar maggiore di S. Pio V a Milano.
Subito a prima vista si nota che rispetto ai crocefissi che normalmente abbiamo appesi in casa o che sono nelle nostre chiese, qui la figura di Gesù non è appesa alla croce manifestando tutta la sofferenza di un crocifisso.
Il peso del corpo spinge verso il basso, le braccia tese comprimono i polmoni che non riescono a dilatarsi per respirare e così la morte arriva per soffocamento.
In questo crocefisso, Gesù e come appoggiato alla croce e il piolo dove appoggia i piedi è una sorta di pedana che sorregge il corpo che è pacificato e con le braccia aperte quasi in una sorta di abbraccio universale. 
Richiama tutti quei crocefissi medievali tanto cari all’arte fiorentina del due e trecento. 
“Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro” (Mt. 11,28).
Il volto è sereno come di chi sa che ha fatto ciò che doveva per offrire l’abbraccio di speranza e di futuro a tutti, e l’ha fatto con sofferenza certo, ma anche con la scelta di chi è consapevole che la sofferenza è feconda e si trasforma in gioia e luce della resurrezione, in certezza della salvezza. 
I segni della passione ci sono tutti: i fori dei chiodi nelle mani e nei piedi, la ferita sul costato, ma sono i segni di un passaggio e non di una permanenza, quasi a dire che: la croce non è la fine ma una sorta di passaggio, di porta che apre a una vita nuova eterna, redenta, luminosa con Dio, una vita salvata che ci viene donata a piene mani e che noi, che contempliamo, siamo chiamati a fare nostra superando l’angoscia delle nostre croci e delle nostre ferite, per apparire pacificati nella quotidianità dalla speranza cristiana.
Questo Cristo, che è certamente quello della passione e della morte in croce, è però anche quello glorioso della resurrezione.
Ecco che i segni della regalità si sovrappongono a quelli sottostanti della passione, ne compiono il senso, ne danno la visione definitiva e ultima, ne fanno scaturire il vero significato, dandone ragione anche a noi, che con sgomento abbiamo contemplato un Dio che muore ignominiosamente in croce come un malfattore. I segni che vengono imposti al Cristo crocifisso danno anche il senso della regalità e del potere, perchè non disgiungono mai e in nessun modo la passione dalla gloria della resurrezione.
Ecco i segni della regalità sul Cristo sofferente: la veste rossa, la veste del Re, la cintura d’oro, la cintura del Re, la corona, la corona del Re, corona che sostituisce quella di spine: chi incorona è Dio stesso.
Gli angeli, nella tradizione biblica, sono la presenza di Dio nella vita: anche qui sono il segno che Dio è presente nella croce-resurrezione, sono gli angeli che incoronano, sono loro che all’estremità della croce sono presenza che sostiene, che da senso e radica l’evento della Pasqua in un disegno di salvezza, voluto dagli uomini, nella loro invidia e superbia, come evento di morte e di assassinio per liberarsi di Dio, accettato da Dio e da Gesù, il Cristo, e trasformato da Dio in un evento di vita e di salvezza rigeneratrice. E tutto questo si compie sulla croce che non è più un patibolo di morte, ma è ormai un trono di gloria. La regalità di Gesù, il Cristo, è ormai la regalità di un Dio che non chiede agli uomini di servirlo, che non vuole nulla dall’uomo, ma che si fa dono totale all’uomo, che si fa tutto a tutti. 

La croce diventa il trono della regalità di Dio e il trono diventa il luogo del servizio gratuito e totale di Dio all’uomo. “Anche il figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”(Mc. 10,45). “Voi che mi chiamate il maestro e il Signore e dite bene, perchè lo sono. Se dunque io il Signore e il maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni gli altri” (Gv. 13,14). 
Dal trono della croce, Dio ci insegna una regalità di servizio, e sotto la croce, a cogliere questo insegnamento, sta l’umanità intera, rappresentata da Maria e da Giovanni. 

La scrittura ci consegna queste due figure sotto la croce; Maria, la madre che immersa nel dolore soffre con il figlio fino essere la “corredentrice” come la definisce Paolo VI nella “Marialis Cultus”, e Giovanni, il discepolo che Gesù amava, come immagine della chiesa che partecipa con la sua presenza alla sofferenza del suo Signore. Maria e Giovanni sono anche segno dell’umanità che assieme a Cristo soffre sulla croce, segno di tutti i crocifissi della storia che solo guardando al Crocifisso del Calvario possono sapere che la loro sofferenza non è fine a se stessa, non è l’ultima parola ma la penultima, perchè l’ultima parola è la regalità offerta a tutti coloro che soffrono. Giovanni è il prototipo di tutti i credenti, il discepolo perfetto, che non fugge davanti alla sofferenza e alla morte, ma ha il coraggio di guardarle in faccia, non perché è un eroe o perchè è un masochista, o perché pensa che qualche Dio le risolverà, ma perché è capace, grazie al crocefisso, di redimere le sue sofferenze e quelle degli uomini come lui, e trasformarle in una dimensione di regalità e di vittoria.
E Maria, non è semplicemente la “Mater dolorosa”, ma è colei che davanti all’enormità della proposta di Dio, di essere la madre del Messia, non si tira indietro e accetta, sapendo che questo sarà un dono che la segnerà per sempre, e non solo nella gioia e nella speranza, ma anche nel dolore, nella fatica e nel non senso. Maria diventa qui la madre, di quell’umanità, che soffre e che spera che la croce di trasformi in trono di gloria.
Ecco cos’è il crocifisso di S. Pio, un’icona di sofferenza, della sofferenza dell’uomo, ma nello stesso tempo un’icona della gloria regale dell’uomo che accoglie la redenzione offerta da Dio.
Ecco cos’è la regalità per i credenti; non potere, sfarzo e pompa, non dominio e autorità, ma umiltà e  servizio, capacità di discernimento del senso della sofferenza quotidiana e lettura, attraverso questa sofferenza, della regalità che vi sta dentro. A tutti coloro che detengono un potere, e che esercitano una regalità, il richiamo a essere come il Cristo, è fondante; non solo per la propria salvezza e realizzazione vera, ma anche per la credibilità dell’annuncio di speranza per il quale dobbiamo rendere conto. 

A Te, re crocifisso,
alzo lo sguardo, come Giovanni e Maria,
non solo per comprendere, la tua offerta di sofferenza,
ma per cogliere la tua grandezza,
grandezza di un Dio che si fa servo dell’uomo
e in questo servizio ci dimostra tutta la sua regalità.
Aiuta tutti noi servi redenti, figli amati, a essere
re, regnanti dalle croci della storia,
per offrire al mondo senso e speranza.
Amen.


 Don Antonio Berera


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