sabato 29 giugno 2013

papa Francesco, 28 giugno 2013


“Il Signore sceglie sempre il suo modo di entrare nella nostra vita. Tante volte lo fa tanto lentamente, che noi siamo nel rischio di perdere un po’ la pazienza: ‘Ma Signore, quando?’ E preghiamo, preghiamo… 
E non viene il suo intervento nella nostra vita. Altre volte, quando pensiamo a quello che il Signore ci ha promesso, è tanto grande che siamo un po’ increduli, un po’ scettici e come Abramo - un po’ di nascosto - sorridiamo… 

Papa Francesco, 28 giugno 2013



venerdì 28 giugno 2013

I PECCATI CONTRO IL PRIMO COMANDAMENTO: Le comunione sacrileghe

Il senso del primo comandamento è l’affermazione chiara, netta e decisa dell’esistenza e dell’assoluta sovranità di Dio, che vuole e deve essere riconosciuto come unico e vero Dio, essere adorato come a Lui conviene, ricevere il culto ed i sacrifici che gli sono dovuti. L’esame sul primo comandamento dovrebbe essere condotto in materia molto seria e coscienziosa, perché i peccati contro di esso sono commessi da molti ma confessati da molto pochi. 
I principali peccati gravi contro il primo comandamento sono: uso sacrilego dei sacramenti (eucaristia e confessione); rifiuto di rendere a Dio l’adorazione, anche esterna, che gli è dovuta; rifiuto di rendere a Dio il doveroso ossequio della preghiera; ateismo; agnosticismo; incredulità e contestazione delle verità di fede, disperazione, odio di Dio, idolatria, pratiche occulte e superstizione. 
Analizzeremo ora nel dettaglio ciascuna di queste singole condotte gravemente peccaminose.
L’uso sacrilego dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia è purtroppo un fenomeno oggi diffusissimo. Volendo mutuare un’espressione del beato Antonio Rosmini, si tratta di una vera e propria piaga della Chiesa, che indebolisce enormemente il vigore dei suoi figli e, per contro, accresce il potere del Nemico dell’umana salvezza. 
Oggi, nelle nostre chiese, assistiamo a vere e proprie interminabili processioni di gente che si accosta alla santa comunione, in un clima che spesso indulge a un malinteso senso di gioia e di festa, nella più piena inconsapevolezza di ciò che si va a ricevere e, talora, con una leggerezza che lascia a dir poco sconcertati. Le nostre nonne ci raccontavano che, quando erano giovani, ben pochi osavano accostarsi alla santa comunione, pur essendo vastissima la percentuale di cattolici che regolarmente frequentavano la santa Messa domenicale (oltre l’80%). 
Questo non perché, come qualcuno tuttora insinua, si aveva un’idea di Dio terribile e inadeguata, ma perché era chiaro quanto veniva insegnato, in modo semplice e chiaro, dall’immortale catechismo di san Pio X, secondo cui per accostarsi alla santa comunione, oltre che aver osservato il digiuno eucaristico, occorre essere in grazia di Dio e pensare e considerare Chi è Colui che si va a ricevere. 
Oggi, purtroppo, abbiamo una frequenza regolare alla santa Messa domenicale che in Italia oscilla tra l’8 e il 15 (massimo 20%), una scarsissima frequentazione del sacramento della confessione e un vero e proprio “arrembaggio” all’altare quando si tratta di ricevere la comunione. 
Molte persone si accostano alla comunione ridendo e scherzando, qualcuno “porta a spasso” la sacra particola, che viene masticata e deglutita quasi come fosse una caramella e terminata la santa Messa si affretta a scappare fuori immediatamente, anche perché, purtroppo, qualora si volesse soffermare (come doveroso) nel ringraziamento a Gesù eucaristico, si imbatterebbe nella triste realtà di Chiese trasformate in una specie di foro, dove si chiacchiera, si ride e si scherza senza alcuna considerazione della sacralità del luogo, della presenza di Colui che abita nel Tabernacolo e della giusta esigenza di coloro che desiderano, nel silenzio e nel raccoglimento, ringraziarlo, adorarlo, lodarlo, benedirlo e supplicarlo. 
Sono parole crude e tristi, ma amaramente costatabili da chiunque si limiti semplicemente ad osservare. 
Ed è ancora più triste considerare che quasi nessuno si renda conto dell’enormità e della gravità di tali peccati.
Si pensi ancora al tristissimo e quanto mai diffuso fenomeno di fedeli che, in occasione di funerali di qualche persona cara, osano accostarsi alla santa comunione, pensando di fare cosa buona o addirittura doverosa per il defunto, quando magari si tratta di persone che non mettono piede in Chiesa da anni e sono lontane dal confessionale da più anni ancora. 
Non è senz’altro un caso che nel lontano 1916, in previsione dell’attuale stato di grave e continua profanazione del più grande e del più santo dei sacramenti, l’Angelo del Portogallo, apparendo in visione ai tre pastorelli di Fatima, li invitò a guardare un’Ostia consacrata di nostro Signore “orribilmente oltraggiato” nel santissimo sacramento ed a prostrarsi in atto di riparazione verso così grave crimine, che a detta di una schiera innumerevole di santi, è in assoluto il più grave dei peccati che si possa commettere, il meno perdonabile e quello che produce le peggiori conseguenze sia nella singola persona che nella Chiesa intera, dando un potere enorme al Nemico dell’umana salvezza, che riesce in questo modo a trasformare il sacramento che è “farmaco di immortalità” (per chi vi si accosta degnamente) in veleno mortale, come ci avverte con monito severo l’Apostolo delle genti, secondo cui chi si accosta indegnamente alla mensa del Signore mangia e beve la sua condanna (cf 1Cor 11,27-29).
Non minore è la trascuratezza dell’altra condizione per una comunione degna e fruttuosa, ovvero pensare e considerare Chi è Colui che si va a ricevere. 
Il raccoglimento orante, la rinnovazione del proprio pentimento con un atto di dolore, la cura di infervorare e accendere i desideri del cuore con qualche breve e fervente giaculatoria e comunione spirituale, unitamente ad una grande compostezza e dignità del portamento e dei gesti soprattutto nell’atto di ricevere nostro Signore, dovrebbero essere la norma in tutti i fedeli. 
Quello che invece ordinariamente accade nelle “processioni” per la comunione e nel modo di ricevere le Sacre Specie è sotto gli occhi di tutti. Ringraziamo il Pontefice emerito Benedetto XVI, per aver avuto il coraggio di rompere un muro di silenzio dinanzi ad “abusi al limite del sopportabile” e di aver inaugurato, con l’esempio e con la parola, un modo di accostarsi a nostro Signore che esprima l’adorazione che gli è dovuta e che ricordi a tutti che altro è ricevere un pezzo di pane, altro è ricevere Gesù Cristo nostro Dio vivo e vero, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. 
Esempio che appare condiviso e seguito dal suo successore e che si spera faccia sempre più breccia nel cuore di tutti i pastori.


giovedì 27 giugno 2013

COME SI FA PER SAPERE SE L’INFERNO C'È? - don Giuseppe Tomaselli

Che cos'è questo inferno del quale oggi si parla troppo poco (con grave danno per la vita spirituale degli uomini) e che invece sarebbe bene, anzi, doveroso conoscere nella giusta luce?

È il castigo che Dio ha dato agli angeli ribelli e che darà anche agli uomini che si ribellano a Lui e disobbediscono alla sua legge, se muoiono nella sua inimicizia.

Prima di tutto conviene dimostrare che c'è e poi cercheremo di capire che cosa è.

Così facendo, potremo arrivare a delle conclusioni pratiche. Per abbracciare una verità la nostra intelligenza ha bisogno di solide argomentazioni.

Trattandosi di una verità che ha tante e così gravi conseguenze per la vita presente e per quella futura, prenderemo in esame le prove della ragione, poi le prove della divina Rivelazione e infine le prove della storia.

LE PROVE DELLA RAGIONE

Gli uomini, anche se molto spesso, poco o tanto, si comporta­no ingiustamente, sono concordi nell'ammettere che a chi fa il be­ne spetta il premio e a chi fa il male spetta il castigo.

Allo studente volonteroso spetta la promozione, allo svogliato la bocciatura. AI soldato coraggioso si consegna la medaglia al valor militare, al disertore è riservato il carcere. II cittadino onesto è premiato col riconoscimento dei suoi diritti, il delinquente va colpito con una giusta punizione.

Dunque, la nostra ragione non è contraria ad ammettere il ca­stigo per i colpevoli.

Dio è giusto, anzi, è la Giustizia per essenza.

II Signore ha dato agli uomini la libertà, ha impresso nel cuore di ognuno la legge naturale, che impone di fare il bene e di evita­re il male. Ha dato anche la legge positiva, compendiata nei Dieci Comandamenti.

È mai possibile che il Legislatore Supremo dia dei Comanda­menti e poi non si curi se vengono osservati o calpestati?

Lo stesso Voltaire, filosofo empio, nella sua opera “La legge na­turale” ebbe il buon senso di scrivere: "Se tutto il creato ci dimo­stra l'esistenza di un Ente infinitamente sapiente, la nostra ragio­ne ci dice che deve pur essere infinitamente giusto. Ma come po­trebbe essere tale se non sapesse né ricompensare né punire? Il dovere di ogni sovrano è di castigare le azioni cattive e di premia­re quelle buone. Volete che Dio non faccia ciò che la stessa giu­stizia umana sa fare?".

LE PROVE DELLA RIVELAZIONE DIVINA

Nelle verità di fede la nostra povera intelligenza umana può dare soltanto qualche piccolo contributo. Dio, Suprema Verità, ha voluto svelare all'uomo cose a lui misteriose; l'uomo è libero di accettarle o di rifiutarle, ma a suo tempo renderà conto al Creato­re della sua scelta.

La divina Rivelazione è contenuta anche nella Sacra Scrittura così come è stata conservata e viene interpretata dalla Chiesa. La Bibbia si distingue in due parti: Antico Testamento e Nuovo Te­stamento.

Nell'Antico Testamento Dio parlava ai Profeti e questi erano i suoi portavoce presso il popolo ebreo.

II re e profeta Davide scrisse: "Siano confusi gli empi, tacciano negli inferi" (Sa 13 0, 18).

Degli uomini che si sono ribellati contro Dio il profeta Isaia disse: "Il loro verme non morirà, il loro fuoco non si spegnerà" (Is 66,24).

Il precursore di Gesù, San Giovanni Battista, per disporre gli animi dei suoi contemporanei ad accogliere il Messia, parlò an­che di un compito particolare affidato al Redentore: dare il premio ai buoni e il castigo ai ribelli e lo fece servendosi di un paragone: "Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibi­le" (Mt 3, 12).

GESU’ HA PARLATO MOLTE VOLTE DEL PARADISO

Nella pienezza dei tempi, duemila anni fa, mentre a Roma im­perava Cesare Ottaviano Augusto, fece la sua comparsa nel mon­do il Figlio di Dio, Gesù Cristo. Ebbe allora inizio il Nuovo Te­stamento.

Chi può negare che Gesù sia veramente esistito? Nessun fatto storico è così tanto documentato.

II Figlio di Dio dimostrò la sua Divinità con molti e strepitosi miracoli e a tutti quelli che ancora dubitavano lanciò una sfida: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Gv 2, 19). Disse inoltre: "Come Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt 12, 40).

La risurrezione di Gesù Cristo è indubbiamente la prova più grande della sua Divinità.

Gesù faceva i miracoli non solo perché, mosso dalla carità, voleva soccorrere dei poveri ammalati, ma anche perché tutti, vedendo la sua potenza e comprendendo che veniva da Dio, po­tessero abbracciare la verità senza alcuna ombra di dubbio.

Gesù disse: "lo sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Gv 8,12). La missione del Redentore era quella di salvare l'umanità, re­dimendola dal peccato, e di insegnare la via sicura che porta al Cielo.

I buoni ascoltavano con entusiasmo le sue parole e praticava­no i suoi insegnamenti.

Per invogliarli a perseverare nel bene, spesso parlava del gran­de premio riservato ai giusti nell'altra vita.

"Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, men­tendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli" (Mt 5, 11-12).

"Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria... e dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, rice­vete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione dei mondo" (cfr. Mt 25, 31. 34).

Disse inoltre: "Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli" (Lc 10, 20).

"Quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti" (L c 14, 13-14).

“Io preparo per voi un regno, come il Padre mio l'ha preparato per me” (Lc 22, 29).

GESU’ HA PARLATO ANCHE DEL CASTIGO ETERNO

A un buon figlio, per obbedire, basta conoscere cosa desidera il padre: obbedisce sapendo di fargli piacere e di godere del suo affetto; mentre a un figlio ribelle si minaccia una punizione.

Così ai buoni basta la promessa del premio eterno, il Paradiso, mentre ai malvagi, vittime volontarie delle proprie passioni, è ne­cessario presentare il castigo per scuoterli.

Vedendo Gesù con quanta malvagità tanti suoi contemporanei e persone dei secoli futuri avrebbero chiuso gli orecchi ai suoi in­segnamenti, desideroso com'era di salvare ogni anima, parlò del castigo riservato nell'altra vita ai peccatori ostinati, cioè la puni­zione dell'inferno.

La prova più forte dell'esistenza dell'inferno è data dunque dalle parole di Gesù.

Negare o anche solo dubitare delle terribili parole del Figlio di Dio fatto Uomo, sarebbe come distruggere il Vangelo, cancellare la storia, negare la luce del sole.

È DIO CHE PARLA

Gli ebrei credevano di aver diritto al Paradiso soltanto perché erano discendenti di Abramo.

E siccome molti resistevano agli insegnamenti divini e non vo­levano riconoscerlo come il Messia inviato da Dio, Gesù, minac­ciò loro la pena eterna dell'inferno.

"Vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e sie­deranno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno (gli ebrei) saranno cacciati fuori nel­le tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti" (Mt 8, 11-12).

Vedendo gli scandali del suo tempo e delle generazioni future, per far rinsavire i ribelli e preservare dal male i buoni, Gesù parlò dell'inferno e con toni molto forti: "Guai al mondo per gli scan­dali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!" (Mt 18, 7).

"Se la tua mano o il tuo piede ti scandalizzano, tagliali: è me­glio per te entrare nella vita monco o zoppo, piuttosto che essere gettato con due mani e due piedi nell'inferno, nel fuoco inestin­guibile" (cfr. Mc 9, 43-46. 48).

Gesù, dunque, ci insegna che bisogna essere disposti a qua­lunque sacrificio, anche il più grave, come l'amputazione di un membro del nostro corpo, pur di non finire nel fuoco eterno.

Per sollecitare gli uomini a trafficare i doni ricevuti da Dio, co­me l'intelligenza, i sensi del corpo, i beni terreni... Gesù raccontò la parabola dei talenti e la concluse con queste parole: "Il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti" (Mt 25, 30).

Quando preannunciò la fine del mondo, con la risurrezione universale, accennando alla sua gloriosa venuta e alle due schie­re, dei buoni e dei cattivi, soggiunse: "... a quelli posti alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli" (Mt 25, 41).

II pericolo di andare all'inferno c'è per tutti gli uomini, perché durante la vita terrena tutti corriamo il rischio di peccare grave­mente.

Anche ai suoi stessi discepoli e collaboratori Gesù fece pre­sente il pericolo che correvano di finire nel fuoco eterno. Erano andati in giro per le città e i villaggi, annunziando il regno di Dio, guarendo gli infermi e cacciando i demoni dal corpo degli ossessi. Ritornarono lieti per tutto questo e dissero: "Signore, anche i de­moni si sottomettono a noi nel tuo nome". E Gesù: "Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore" (Lc 10, 17-18). Voleva raccomandare loro di non insuperbirsi per quanto avevano fatto, perché la superbia aveva fatto piombare Lucifero all'inferno.

Un giovane ricco si stava allontanando da Gesù, rattristato, perché era stato invitato a vendere i suoi beni e a darli ai poveri. II Signore così commentò l'accaduto: "In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”. E Gesù, fissando su di loro lo sguardo disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”. (Mt 19, 23-26).

Con queste parole Gesù non voleva condannare la ricchezza che, in sé, non è cattiva, ma voleva farci comprendere che chi la possiede si trova nel grave pericolo di attaccarvi il cuore in modo disordinato, fino a perdere di vista il paradiso e il rischio concreto della dannazione eterna.

Ai ricchi che non esercitano la carità Gesù ha minacciato un maggior pericolo di finire all'inferno.

"C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Persino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato da­gli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: 'Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura'. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora inve­ce lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra voi e noi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono pas­sare da voi non possono, né da lì si può attraversare fino a noi”. E quegli replicò: 'Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non ven­gano anch'essi in questo luogo di tormento'. Ma Abramo rispose: 'Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro'. E lui: “No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvedranno”. Abra­mo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi”. (Lc 16, 19-31 ).

I MALVAGI DICONO...

Questa parabola evangelica, oltre a garantirci che l'inferno esi­ste, ci suggerisce anche la risposta da dare a chi osa dire sciocca­mente: "lo crederei all'inferno soltanto se qualcuno, dall'aldilà, venisse a dirmelo!".

Chi si esprime così, normalmente è già sulla via del male e non crederebbe neanche se vedesse un morto risuscitato.

Se, per ipotesi, oggi venisse qualcuno dall'inferno, tanti cor­rotti o indifferenti che, per continuar a vivere nei loro peccati senza rimorsi, hanno interesse che l'inferno non esista, sarcasti­camente direbbero: "Ma questo è matto! Non diamogli ascolto!".


mercoledì 26 giugno 2013

UNA GRANDE CONVERSIONE A LOURDES



“Vergine dolce che soccorri gli infelici, proteggimi. Io credo in Te. (…) Il Tuo nome è più dolce del sole del mattino. Prendi Tu il peccatore inquieto dal cuore in tempesta che si consuma nella ricerca delle chimere. Sotto i consigli profondi e duri del mio orgoglio intellettuale giace, ancora soffocato, il più affascinante di tutti i sogni, quello di credere in Te, di amarti come i frati dall’anima candida.” 

Questa bella preghiera è stata composta da un grande scienziato, il medico francese Alexis Carrel, premio Nobel nel 1912 grazie alla scoperta di un particolare punto di sutura che poi ha permesso la pratica della trasfusione di sangue, pratica che ha salvato e che salva tante vite umane. Il dottor Carrell era agnostico, ma fu convertito grazie ad un viaggio a Lourdes dove poté constatare ciò che egli riteneva inconstatabile. 

Alexis Carrel nacque a Lione nel 1873. La sua famiglia era di commercianti benestanti. Rimasto orfano di padre, a cinque anni lasciò Lione per andare a vivere in campagna con la mamma. Tornò poi a Lione per gli studi liceali e per frequentare la Facoltà di Medicina. Furono propri gli studi universitari a spingerlo ad abbandonare le convinzioni religiose ricevute dall’educazione familiare per abbracciare la filosofia positivista e materialista. Conservò però sempre una forte nostalgia verso le certezze della sua fanciullezza, soprattutto avvertiva l’inquietudine che gli procuravano quelle nuove convinzioni positiviste, incapaci di dare una persuasiva risposta al senso della vita e della morte. Lui stesso, dopo la conversione, scrisse di quel periodo parlando di sé in terza persona: “Assorbito dagli studi scientifici, affascinato dallo spirito della critica tedesca, (Carrel) s’era convinto a poco a poco che al di fuori del metodo positivo, non esisteva certezza alcuna. 
E le sue idee religiose, distrutte dall’analisi sistematica, l’avevano abbandonato, lasciandogli il ricordo dolcissimo di un sogno delicato e bello. S’era allora rifugiato in un indulgente scetticismo…La ricerca delle essenze e delle cause gli sembrava vana, solo lo studio dei fenomeni, interessante. Il razionalismo soddisfaceva interamente il suo spirito; ma nel fondo del suo cuore si celava una segreta sofferenza, la sensazione di soffocare in un cerchio troppo ristretto, il bisogno insaziabile di una certezza. 
In quegli anni, negli ambienti medici, si discuteva molto di Lourdes e dei suoi miracoli. C’era chi ci credeva e c’era chi era profondamente scettico. Nel 1894, il famoso scrittore Emile Zola, dopo esser stato a Lourdes e pur essendo stato testimone di fatti inspiegabili, aveva scritto un libro in cui negava decisamente la veridicità delle apparizioni. 
Anche Carrel, nel suo positivismo, era convinto che quelli di Lourdes fossero solo sedicenti “miracoli”, in realtà guarigioni frutto di autosuggestione. Volle però andare a constatare di persona e nel 1902 partecipò come medico ad un pellegrinaggio, occasione che gli fu offerta da un collega che aveva dovuto rinunciare all’ultimo momento. Da questo viaggio venne fuori un libro che ebbe il titolo di Viaggio a Lourdes. 
Alexis Carrel era in incognito. Solo pochi conoscevano la sua identità. Voleva solo constatare e aiutare qualche malato. Nel suo scompartimento giaceva una giovane donna, Marie Ferrand (chiamata così nel libro, ma in realtà si chiamava Marie Bailly). Era gravissima: ventre gonfio, pelle lucida, costole sporgenti, addome teso da materia solide, sacca di liquido che occupava la regione ombelicale, febbre alta, gambe gonfie, cuore veloce. Si trattava di peritonite tubercolare. Dolori tremendi! Il dottor Carrel le praticò un’iniezione di morfina. “Avete ancora i genitori?” le domandò. “No, sono morti di tubercolosi da alcuni anni.” Rispose la donna. Dall’età di quindici anni, ella era tubercolotica. I medici che la tenevano in cura dicevano che ormai era all’ultimo stadio. Ella però, pur sentendosi alla fine, era convinta che la Vergine, a Lourdes, le avrebbe concesso qualcosa d’importante: se non la guarigione, almeno la forza per morire in pace.
Arrivato a Lourdes, Carrel incontrò un suo vecchio compagno di collegio, nel suo libro-diario ne riporta solo le iniziali: A.B. Gli chiese: “Sai se qualche malato è guarito, stamane, nelle piscine?” “No, nessuno. Però vidi un miracolo davanti alla grotta. Una suora che camminava con le stampelle. Arrivò, si fece una gran segno di croce, bevve l’acqua della fonte miracolosa…Subito il suo viso s’illuminò, buttò via le stampelle, corse agile alla Grotta, gettandosi in ginocchio davanti alla Vergine…Era guarita.” “La sua guarigione -commentò Carrel- è un caso interessante di autosuggestione!” L’amico ribatté: “Quali sono le guarigioni che, se le constatassi, ti farebbero riconoscere l’esistenza del miracolo?” Il medico rispose: “La guarigione improvvisa di una malattia organica. Una gamba tagliata che rinasce. Un cancro scomparso, una lussazione congenita che improvvisamente guarisce. Allora sì che crederei!..Se mi fosse concesso di vedere un fenomeno tanto interessante, tanto nuovo, sacrificherei tutte le teorie e le ipotesi del mondo. Ma non il minimo timore di arrivare a questo…C’è una ragazza, Marie Ferrand, presso la quale mi hanno chiamato dieci volte ed è in pericolo di vita. E’ tisica, ha una peritonite tubercolare all’ultimo stadio. E’ in uno stato pietoso. Temo che mi muoia tra le mani. Se questa ammalata guarisce, sarebbe veramente un miracolo. Io crederei a tutto e mi farei frate.”
Nella Sala dell’Immacolata (riservata ai malati più gravi) tutto era pronto per la funzione presso le piscine. Il dottor Carrel si avvicinò al lettino della “sua” ammalata, Marie Ferrand. La visitò rapidamente: il cuore stava per cedere, era alla fine. Il medico le praticò un’iniezione di caffeina, poi disse ai presenti senza farsi sentire dall’ammalata: “E’ una peritonite polmonare all’ultimo stadio. Figlia di genitori morti di tubercolosi in giovane età, è tisica dall’età di 15 anni. Può darsi che viva ancora per qualche giorno, ma è finita.” Anche un altro medico confermò la diagnosi nefasta di Carrel. 
Alla piscina non fu possibile immergere Marie Ferrand. Le fecero alcuni lavaggi al ventre. La portarono davanti alla Grotta. L’aspetto della donna era sempre cadaverico. Erano circa le 14.30. Carrel osservava il volto dell’ammalata: gli parve più normale, meno livido. Gli sembrava di avere un’allucinazione, continuò ad osservarla. Le contò le pulsazioni. La respirazione sembrava rallentata. Il volto di Marie Ferrand continuava a cambiare. I suoi occhi sembravano catalizzati verso la Grotta. C’era in lei un sensibile miglioramento, non lo si poteva negare. Lo stupefacente, però, avveniva adesso: Carrel vide a poco a poco la coperta abbassarsi al livello del ventre. Il gonfiore spariva. Si sentì impallidire. Alle 15 la tumefazione era ormai scomparsa. Carrel credeva d’impazzire. Si avvicinò alla donna, ne osservò la respirazione, guardò il collo. Il cuore batteva regolarmente. Le domandò: “Come vi sentite?” Marie rispose sottovoce: “Benissimo. Non sono molto in forze, ma sento che sono guarita.” Carrel così ha scritto, sempre parlando di se stesso in terza persona: “Il medico non parlava più; non pensava più. Il fatto inatteso era totalmente contrario a tutte le previsioni, che egli credeva di sognare…Si alzò, traversò le file serrate dei pellegrini, i quali gridavano invocazioni che egli a stento sentiva, e se ne andò. Erano circa le 16. Quel ch’era accaduto era la cosa impossibile, la cosa inattesa, il miracolo.”
Marie Ferrand, guarita, fu portata all’ospedale diretto dal dottor Boissaire, lo scienziato che difendeva la veridicità di Lourdes. Carrel tornò a visitarla e dovette constatarne la inspiegabile guarigione. Lo stesso fecero altri medici. Marie era felice e diceva: “Andrò dalle suore di San Vincenzo, loro mi accoglieranno e io assisterò i malati.” Carrel era commosso. Uscì dall’ospedale. Era ormai notte. Si recò alla Basilica e vi entrò. Scorse il suo amico A.B. e cominciarono a parlare. Mentre il medico fissava la statua dell’Immacolata, l’amico gli chiese: “Sei convinto, ora, filosofo incredulo?” Carrel si limitò a rispondere: “Una giovane moribonda è stata guarita sotto i miei occhi in pochi istanti. E’ una cosa meravigliosa, è un miracolo.” A.B. concluse ironizzando: “Ma non è meno vero che ora sei obbligato a vestire il saio! Addio.” Carrel rimase solo e fu allora che pronunziò quelle parole che abbiamo posto all’inizio: “Vergine dolce che soccorri gli infelici, proteggimi. Io credo in Te…”
Il medico positivista, diventato credente, dedicò poi l’intera sua vita alla scienza (come abbiamo già detto, fu insignito del Nobel nel 1912) e a propagare la devozione alla Vergine di Lourdes. In tarda età fu ingiustamente accusato di collaborazionismo con il governo filonazista di Vichy. Fu un’accusa che lo prostrò molto e lo condusse, il 5 novembre 1944, ad un infarto che gli fu fatale. 
A Carrel si deve una famosa frase che esprime bene il realismo cristiano e l’umiltà che dovrebbe contrassegnare ogni ricerca scientifica: “Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità.” 

martedì 25 giugno 2013

Cristo re e sacerdote in eterno - Faustino Luciferiano, sacerdote

Il nostro Salvatore divenne veramente «cristo» secondo la carne e nello stesso tempo vero re e vero sacerdote. Egli è l’una e l’altra cosa insieme, perché nulla manchi al Salvatore di quanto aveva come Dio. Egli stesso afferma la sua dignità regale, quando dice: Io sono stato consacrato re da lui sul suo santo monte Sion (cfr. Sal 2, 6). Il Padre inoltre attesta la dignità sacerdotale del Figlio con le parole: «Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek» (Sal 109, 4).
Nell’antica legge il primo ad essere consacrato sacerdote col crisma dell’unzione fu Aronne. Non si dice però «secondo l’ordine di Aronne», perché non si creda che anche il sacerdozio del Salvatore gli sia stato conferito per successione. Il sacerdozio di Aronne si trasmetteva per via ereditaria, non così invece quello del Cristo, perché egli stesso resta eternamente sacerdote. Si dice infatti: «Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek». Il Salvatore dunque, secondo la carne, è re e sacerdote. L’unzione però da lui ricevuta non è materiale, ma spirituale. Infatti coloro che presso gli Israeliti erano consacrati re e sacerdoti con l’unzione materiale dell’olio, diventavano re e sacerdoti, non però tutte e due le cose insieme, ma ciascuno di loro era o re o sacerdote. Solo a Cristo compete la perfezione e la pienezza in tutto, poiché era venuto ad adempiere la legge.
Quantunque tuttavia nessuno di loro fosse re e sacerdote insieme, quelli che erano consacrati con l’unzione materiale, o re o sacerdoti, erano chiamati «cristi». Il Salvatore però, che è il vero Cristo, fu unto dallo Spirito Santo, perché si adempisse quanto era stato scritto di lui: Per questo «Dio, il tuo Dio ti ha consacrato con olio di letizia a preferenza dei tuoi eguali» (Sal 44, . La sua unzione eccelle al di sopra di quella di tutti i suoi compagni perché egli è stato unto con l’olio di letizia, che altro non significa se non lo Spirito Santo.
Che questo sia vero lo sappiamo dallo stesso Salvatore, il quale, preso il libro di Isaia e avendovi letto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione» (Lc 4, 18), proclamò davanti a quelli che lo ascoltavano che la profezia si era adempiuta allora nella sua persona.
Anche Pietro, principe degli apostoli, dichiara che quel crisma, da cui il Salvatore è stato manifestato, è lo Spirito Santo, cioè la stessa potenza di Dio, quando negli Atti degli Apostoli tra le altre cose dice al centurione Cornelio, uomo pieno di fede e di misericordia: «Incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni, Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo» (At 10, 37-38).
Anche Pietro, dunque, come hai potuto renderti conto, afferma che Gesù uomo è stato unto di Spirito Santo e di potenza. È vero perciò che lo stesso Gesù è diventato «cristo» in quanto uomo, perché con l’unzione dello Spirito Santo è stato consacrato re e sacerdote in eterno.

Dal trattato «Sulla Trinità» di Faustino Luciferiano, sacerdote
(Nn. 30-40; CCL 69, 340-341)


lunedì 24 giugno 2013

La croce di ogni giorno: l'impegno per il bene, Domenica: 23 giugno 2013 - XII Domenica del Tempo Ordinario-

Quando Gesù parlava della sua croce la gente che lo ascoltava non sapeva ancora che Egli sarebbe morto sulla croce. Lui lo sapeva, e noi ora lo sappiamo, ma i suoi ascoltatori non lo sapevano.
Quindi in quel momento Gesù non può essersi riferito alla croce sul­la quale sarebbe morto. Era una croce ben determinata quella croce.
C'è un'altra cosa. Gesù disse ai discepoli che doveva­no portare la sua croce tutti i giorni. Ma Gesù non portava quotidianamente quella croce. La portò alla fine della sua vita forse per qualche ora, e anche allora ebbe bisogno di essere aiutato da un uomo che veniva da una città chiamata Cirene: Simone. Quando parlava della croce che i suoi ascoltatori e noi dobbiamo portare ogni giorno insieme con lui, Gesù non stava parlando della croce che vediamo sopra l'altare. Deve aver parlato della croce che stava portando nel momento in cui parlava: le cose che compiva giorno dopo giorno.
Sappiamo quali erano le sue attività. Erano la sua lotta costante contro il peccato, che era attorno a lui in ogni sua forma. Il peccato e l'ingiustizia nel servizio del tempio, dove alcuni approfittavano della pietà e dei sensi di colpa dei poveri e dei miserabili. Il peccato e l'ingiustizia nelle relazioni umane, come quando difese la donna adultera contro i suoi ipocriti persecutori e le disse di non peccare più. Il peccato e l'ingiustizia nel campo politico e nella vi­ta economica. La corruzione, le bustarelle, l'abbandono dei bambini. Il fallimento delle famiglie, dove i mariti ri­pudiavano le mogli, a loro capriccio, e così via.
Di fronte a ogni peccato, davanti a ogni ingiustizia, vediamo Gesù combattere contro tutto questo, non con la violenza, ma in modo potente, ogni giorno, ogni ora.
Fu in questo modo che si fece dei nemici, che voleva­no inchiodarlo alla croce. Fu in questo modo che portò la sua croce ogni giorno, molto prima della sua morte di fat­to sulla croce.
E' in questo modo che dobbiamo seguirlo, rifiutando ogni ipocrisia e ogni male che è tale davanti a Dio e davanti al prossimo. 

Omelia di don Roberto Rossi 
È l'amore disarmato quello che salva
Le folle chi dicono che io sia? La risposta è bella e sbagliata. Dicono che sei un profeta: una creatura di fuoco e di luce, voce di Dio e suo respiro.
La seconda domanda arriva diretta, esplicita: Ma voi chi dite che io sia? Preceduta da un «ma», come se i Dodici appartenessero ad un'altra logica. Scrive Cristina Cam­po: ci sono due mondi / noi siamo dell'altro.
La terza domanda, sottinte­sa, è diretta a me: ma tu chi dici che io sia?
Gesù non chiede una rispo­sta astratta: «chi è Dio», o «chi sono io»; mette in que­stione ciascuno di noi: tu, con il tuo cuore, la tua fati­ca, il tuo peccato e la tua gioia, «Chi sono io per te?» Non è la definizione di Cri­sto che è in gioco, ma quan­to di lui vive nella tua esi­stenza. Allora chiudere tutti i libri e aprire la vita. Gesù ci educa alla fede attraverso domande, perché niente è ovvio, né Dio né l'uomo, né il bene né il male.
Non servono studi, letture, catechismi, ma fame di pa­ne e di assoluto. Ciascuno, che ha Dio nel sangue, deve dare la sua risposta.
Ed è una risposta in-finita, mai finita. Cristo non è ciò che dico di lui, ma ciò che vi­vo di lui; non è le mie paro­le ma la mia passione. La ve­rità è ciò che arde. «Il Tuo no­me brucia su tutte le labbra: Tu ardi» canta Efrem Siro.
Se Cristo non è io non sono.
Gesù stesso offre l'inizio del­la risposta: il Figlio dell'uo­mo deve soffrire molto, veni­re ucciso e poi risorgere. Ec­co chi è: un Crocifisso amo­re, dove non c'è inganno. Che inganno può nascon­dere uno che morirà di do­lore e di amore per te?
Disarmato amore che non è mai entrato nei palazzi dei potenti se non da prigioniero, che non ha assoldato guardie, che i nemici non li teme, li ama.
Amore vincente. Pasqua è la prova che Dio procura vita a chi produce amore.
Amore indissolubile, da cui «nulla mai ci separerà» (Rom 8,38). Nulla mai: due parole assolute, perfette, totali. Niente fra le cose, nessuno fra i giorni.
Se qualcuno vuol venire die­tro a me, prenda la sua croce e mi segua. Non è un invito alla rassegnazione, non oc­correva Gesù per questo. La Croce è invece la sintesi del­la sua storia: scegli per te u­na vita che sia il riassunto della mia vita.
Prendi su di te la tua porzio­ne d'amore, altrimenti non vivi. Accetta la porzione di croce che ogni passione por­ta con sé, altrimenti non a­mi.
Non un invito a patire di più, ma a far fiorire di più la zol­la del cuore, a conquistare la sua infinita passione per Dio e per l'uomo, per tutto ciò che vive sotto il sole, e oltre il grande arco del sole. 

Omelia di padre Ermes Ronchi

Croce sinonimo di vittoria

" E ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno". Tale proibizione si ripete più volte da parte di Gesù e avviene talora in occasione di alcuni esorcismi (quando comanda ai demoni di non riferire a nessuno che egli è il Cristo), di qualche miracolo, di alcuni insegnamenti e ora nel presente episodio evangelico in cui Pietro gli rivolge l'importantissima confessione: "Tu sei il Cristo di Dio". Essa viene definita "segreto messianico"e a detta di alcuni studiosi non sarebbe neppure originaria di Gesù, ma sarebbe stata aggiunta successivamente dai redattori dei Vangeli o sarebbe stata addirittura inventata da alcuni studiosi! Personalmente sono convinto che non sia affatto un'invenzione, ma che Gesù abbia davvero imposto questo "segreto" nelle predette circostanze, poiché ciò era necessario. Gesù infatti non voleva essere conosciuto come un grande personaggio fautore di prodigi, e nemmeno si accontentava che qualcuno come Pietro capisse per altre vie la sua vera identità di Messia Unto di Dio, ma voleva che essa fosse accolta da tutti in forza della sua Parola e del suo stesso annuncio del Regno. In particolare, voleva che la sua messianicità emergesse nell'ora suprema della passione e della morte di croce. E' lì infatti che egli si rivelerà come il Figlio di Dio, Signore della gloria. Quindi imponeva loro di non dirlo a nessuno fino a quando tale annuncio non fosse stato reso evidente con la morte e con la risurrezione.
E della croce parla infatti la versione di Luca relativa al presente episodio, che si collega immediatamente al profeta Zaccaria (I Lettura): "guarderanno a colui che hanno trafitto", poiché il Figlio dell'Uomo deve tanto patire, essere rifiutato dalle autorità giudaiche, essere ucciso e poi risorgere dopo tre giorni poiché proprio la sua morte concedere all'uomo il riscatto dal peccato e la salvezza e compirà definitivamente il disegno del Padre a vantaggio dell'uomo. La croce è stata indispensabile perché il Cristo umiliato fosse poi esaltato dal Padre dopo la resurrezione e di conseguenza entrasse nella gloria per non morire più; la morte di Cristo, preceduta dalla condanna e dal disprezzo degli uomini era l'unico mezzo necessario perché egli riscattasse l'umanità addossandosi sulle sua spalle i peccati di tutti e comprando tutti noi a caro prezzo (1 Cor 6, 20); è stato indispensabile perché dall'umiltà si passasse alla gloria e all'esaltazione. E infatti questa è la pedagogia che, secondo lo scritto di Luca, seguita immediatamente al segreto messianico: "chi vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la propria croce ogni giorno e mi segua".
Se la nostra fede fosse incentrata sui soli dati miracolistici, forse la nostra religione non sarebbe differente dall'Ebraismo o da qualche altro Credo lontano da noi. Se dovessimo entusiasmarci solamente per i miracoli e per gli avvenimenti straordinari e restare affascinati dalle apparizioni mariane (molte volte fittizie e infondate) non ci allontaneremmo di molto dal paganesimo e vanificheremmo la morte stessa di Cristo sulla croce.
Certo, i segni esteriori possono sempre essere di supporto alla nostra fede, aiutarci nell'accettare il mistero del Messia e del resto anche i miracoli e gli esorcismi assumono nei vangeli la loro grande importanza, perché rivelano in Cristo la misericordia di Dio e parlano essi stessi del Regno che Cristo ha già realizzato con la sua incarnazione.
Tuttavia è il suo donarsi estremo al supplizio che determinerà definitivamente che Gesù è il Salvatore nonché Messia e cosa vi è infatti di più affascinante e degno di nota del fatto di un Dio che si lascia uccidere per noi? Nella croce del Suo Figlio Dio ci ragguaglia che non siamo noi a cercare Lui, ma che è da sempre Lui che ci viene incontro cercandoci in ogni luogo e raggiungendoci fino all'estrema profondità. La croce dovrebbe esaurire ogni dubbio intorno alla validità della rivelazione e della nostra fede, dovrebbe estinguere ogni incertezza e ogni inquietitudine quando ci sorprenda il dubbio e la perplessità se valga la pena accettare l'umiliazione e la sconfitta nella vita.
La croce che abbracciamo tutti i giorni prende il nome di malattia, sofferenza, patimenti e ingiustizie subite da altri, persecuzioni e frustrazioni a cui siamo costretti anche a motivo della nostra stessa fede; per alcune persone corrisponde alla tortura materiale e alla morte fisica, come nel caso dei cristiani perseguitati in terre di esasperato fanatismo religioso. La croce assume i connotati di sacrificio, sofferenza, lotta... Il più delle volte il gravame che essa comporta per le nostre spalle, il suo peso e la sua insostenibilità ci inducono a rifiutarla come inutile e illusoria e vi è la tentazione di considerarla semplicemente un dato astratto. Paolo però suggerisce parole confortanti in merito alla croce: "Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la fame,, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori, in virtù di Colui che ci ha amati." (Rm 8, 35 - 37) Parole che non mettono in discussione l'amara realtà del male e della vessazione a cui tutti si è costretti, ma che infondono fiducia e coraggio con la garanzia che, dal momento che Cristo ha vinto la morte con l'amore, anche noi con il suo amore trionferemo.
La nostra croce è sempre sproporzionata in difetto rispetto a quella che ha abbracciato Cristo ed è soprattutto per questo che, quando essa ci sembra insostenibile e assillante, siamo invitati a metterla a confronto con quella dello stesso Signore risorto: si trova sempre consolazione nel dolore quando lo si relativizza pensando a quanti sperimentano un dolore più pesante, considerando tutte quelle persone che soffrono molto più di noi; gettare uno sguardo sulla croce di Cristo mentre ci accingiamo a portare ciascuno la nostra ci darà consolazione, costanza e fiducia. Soprattutto perché lo stesso destino del Signore è riservato a noi: se con lui andiamo al patibolo, con lui anche risorgeremo.
Il cristiano non fugge le ansie e i pericoli del mondo; non si aliena dalla realtà e non si rifugia in chimeriche consolazioni inesistenti quando debba affrontare l'esperienza della prova e l'assillo della croce. Piuttosto, egli condivide lo stesso destino del Maestro nella croce che diventa risurrezione e nella risurrezione che presuppone il dolore e la crocifissione, senza sottrarsi né alla prima né alla seconda. Non c'è sacrificio immolativo, infatti, al quale non faccia seguito il premio della gloria nella Risurrezione e poiché Cristo è risorto primizia di coloro che sono morti, anche noi siamo destinati a risorgere, cioè a gioire, nel quotidiano trionfo che di volta in volta fa seguito all'apparente sconfitta.
Guardare a Colui che hanno trafitto e che non ha ricusato l'immolazione e il sepolcro ci è di sprone e di incoraggiamento e il luogo della speranza, prima che si cada nella disperazione, è appunto la croce di Cristo. Essa è la speranza che è diventata certezza nella gloria. 


Omelia di padre Gian Franco Scarpitta 


domenica 23 giugno 2013

Adorniamoci di modestia e sobrietà … - San Pio da Pietrelcina

Padre Pio aveva molto a cuore la virtù della purezza, messa, già ai suoi tempi, a dura prova dalle prime minigonne ed abiti scollati e sbraciati. Egli era, infatti, ben consapevole degli effetti nefasti della moda indecente, che induce molte anime ad acconsentire al peccato grave.

San Pio esercitò durante tutta la sua vita la virtù della purezza in grado eroico e, conoscendone il sommo valore per il raggiungimento del Regno dei Cieli, voleva che anche gli altri la conservassero intatta da ogni contaminazione di peccato e la custodissero gelosamente.

Della donna Padre Pio aveva un concetto altissimo e ciò lo spingeva a denunciare tutto ciò che denigrava e sviliva la dignità femminile e che riduceva la donna ad un puro oggetto di piacere, in particolare la moda. 
Già prima degli anni sessanta, quando ancora non imperava la moda delle minigonne, prevedendo le future tendenze della moda che avrebbero svestito le donne, Padre Pio si preoccupava di instillare in loro l’amore alla modestia e la decenza nel vestire. Esigeva quindi in modo intransigente che le donne fossero vestite decentemente, come conviene a persone timorate di Dio, prendendo come riferimento di condotta la Madonna, insigne modello di purezza immacolata. Il Santo soffrì molto per le mode scandalose, che definiva «un tremendo male» per le anime, perché inducono gli uomini al peccato, ai cattivi pensieri e ai torbidi desideri. Non poteva sopportare che le donne mercificassero il loro corpo vestendo in modo provocante per attirare su di sé l’attenzione maschile.

Padre Pio aveva tanto a cuore il problema della purezza che le norme di condotta cristiana riguardo all’abbigliamento diventarono anche oggetto di lettere ai suoi figli spirituali.

Tra i suoi molti scritti si legge infatti:

«Le donne che cercano la vanità delle vesti non possono mai vestirsi della vita di Gesù Cristo e codeste perdono ogni ornamento dell’anima,non appena entra questo idolo nei loro cuori. Il loro abito, come vuole san Paolo, sia decentemente e modestamente ornato, senza vesti che abbiano sentore di lusso e ostentazione di fasto».

In questo, il Santo del Gargano si riallacciava mirabilmente al messaggio della Madonna di Fatima, che aveva preannunciato alla beata Giacinta, la più piccola dei tre pastorelli, la venuta di mode che avrebbero offeso Nostro Signore.

Tutte le figlie spirituali di Padre Pio seguirono il suo accorato consiglio di allungare l’orlo della gonna fin sotto il ginocchio per controbilanciare il male che facevano le altre donne col portare le minigonne e abiti indecenti. In confessionale, Padre Pio sbatteva molto spesso lo sportello in faccia alle penitenti che si presentavano in abiti disdicevoli alla sacralità del luogo …

Redarguiva con durezza anche quelle donne che, prima di presentarsi a lui, aprivano la cerniera e facevano scendere la gonna perché sembrasse più lunga. Spesso si sentivano frasi simili: «Pagliaccio … », «Vestiti da cristiana!», «Sciagurata, va’ a vestirti!», «Ti segherei le braccia … perché soffriresti di meno di quello che soffriresti in Purgatorio … le carni scoperte bruceranno!»

Un giorno, una signora, per andare a confessarsi da lui, si allungò occasionalmente la gonna, ma il Santo se ne accorse e la mandò via.

Il pomeriggio la stessa signora fu presentata al Padre come una grande benefattrice, ed egli dispiaciuto disse: «E io stamattina ti ho dato il benservito ma sappi, Signora, lo rifarei anche ora». Ma la signora, che aveva imparato la lezione, lo ringraziò amabilmente per la riprensione.

Neppure gli uomini uscirono indenni dalla crociata di Padre Pio sulla decenza nel vestire. Ad un uomo, che era andato a confessarsi da lui in maglietta senza maniche, intimò con una fermezza che non ammetteva repliche: «Vagliò, o ti allunghi le maniche o ti accorci le braccia!»

“Desidero che voi tutti, miei carissimi figli spirituali, attacchiate con l’esempio e senza alcun rispetto umano una santa battaglia contro la moda indecente. Dio sarà con voi e vi salverà! Le donne che cercano la vanità nelle vesti non possono mai appartenere a Cristo, e codeste perdono ogni ornamento dell’anima non appena questo idolo entra nei loro cuori. Si guardino da ogni vanità nei loro vestimenti, perché il Signore permette la caduta di queste anime per tali vanità”.

San Pio da Pietralcina


venerdì 21 giugno 2013

21 giugno, San Luigi Gonzaga, Gesuita - Preghiera del beato Papa Giovanni Paolo II

S. Luigi, povero in spirito, a te con fiducia ci rivolgiamo benedicendo il Padre celeste perché in te ci ha offerto una prova eloquente del suo amore misericordioso.
Umile e confidente adoratore dei disegni del Cuore divino, ti sei spogliato sin da adolescente di ogni onore mondano e di ogni terrena fortuna.
Hai rivestito il cilizio della perfetta castità, hai percorso la strada dell’obbedienza, ti sei fatto povero per servire Iddio, tutto a lui offrendo per amore.

Tu, puro di cuore, rendici liberi da ogni mondana schiavitù.
Non permettere che i giovani cadano vittime dell’odio e della violenza; non lasciare che essi cedano alle lusinghe di facili e fallaci miraggi edonistici.
Aiutali a liberarsi da ogni sentimento torbido, difendili dall’egoismo che acceca, salvali dal potere del Maligno.

Rendili testimoni della purezza del cuore.

Tu, eroico apostolo della carità, ottienici il dono della divina misericordia che smuova i cuori induriti dall’egoismo e tenga desto in ciascuno l’anelito verso la santità.

Fa’ che anche l’odierna generazione abbia il coraggio di andare contro corrente, quando si tratta di spendere la vita, per costruire il Regno di Cristo.

Sappia anch’essa condividere la tua stessa passione per l’uomo, riconoscendo in lui, chiunque egli sia, la divina presenza di Cristo.

Con te invochiamo Maria, la Madre del Redentore.

A lei affidiamo l’anima e il corpo, ogni miseria ed angustia, la vita e la morte, perché tutto in noi, come avvenne in te, si compia a gloria di Dio, che vive e regna per tutti i secoli dei secoli". 
Amen.!

...auguri a quanti/e..celebrate l'onomastico..auguri di santità!



giovedì 20 giugno 2013

CELIBATO DEI SACERDOTI. PERCHÉ ESISTE NELLA CHIESA LATINA? - Monsignor Raffaello Martinelli

IL CELIBATO DEI SACERDOTI È UN DOGMA NELLA CHIESA?

L’obbligo del celibato per i sacer­doti non è un dogma, ma una legge disciplinare della Chiesa. Tale legge è tuttavia molto antica, poggia su una tradizione consolidata e su forti moti­vazioni.

Certamente la verginità non è ri­chiesta dalla natura stessa del sacer­dozio. La riprova è che il celibato vale per la Chiesa Latina, ma non per i riti orientali, dove, anche nelle comunità unite alla Chiesa Cattolica, è norma che vi siano sacerdoti sposati. Questi peraltro si possono sposare prima e non dopo di essere ordinati sacerdoti.

Tuttavia anche nella Chiesa Orientale vige il celibato per i Vescovi, oltre che per i monaci. E inoltre si consente che uomini già sposati siano ordinati preti; chi poi rimanesse vedovo, non può risposarsi.

La Chiesa è fermamente convinta che la vi­gente legge del sacro celibato debba ancor oggi, per i sacerdoti latini, accompagnarsi al ministero ecclesiastico. Essa, pertanto, ritiene tutt'ora che la via della donazione nel celibato sia la scelta esem­plare per il sacerdozio ministeriale latino.

D'altra parte, non va sottaciuto che i giovani, che chiedono ed accettano liberamente di essere consacrati sacerdoti nella Chiesa latina, ben sanno di doversi impegnare anche nel celibato e assumo­no questo impegno liberamente e solennemente davanti a Dio e alla Chiesa.

DA QUANDO IL CELIBATO È STATO INTRODOTTO NELLA CHIESA?

Fra gli Apostoli, scelti da Cristo stesso, al­cuni erano sposati, altri no, come ad esempio l'apostolo Giovanni.

Risulta che l'obbligo del celibato sacer­dotale sia in vigore fin dal IV secolo. Ma nello stesso tempo, va rilevato che i legislatori del IV sec. sostenevano che questa legge ecclesiastica fosse fondata su una tradizione apostolica. Di­ceva per esempio il Concilio di Cartagine (del 390): "Conviene che quelli che sono al servizio dei divini misteri siano perfettamente continenti (continentes esse in omnibus), affinché ciò che hanno insegnato gli Apostoli e ha mantenuto l'antichità stessa, lo osserviamo anche noi".

Successivamente il Magistero della Chiesa, attraverso Concili e documenti, ha sempre riba­dito ininterrottamente le disposizioni sul celibato ecclesiastico. Lo stesso Concilio Ecumenico Va­ticano II ha riaffermato, nella dichiarazione Pre­sbyterorum ordinis (n. 16), lo stretto legame tra celibato e Regno di Dio, vedendo nel primo un segno che annuncia in modo radioso il secondo.

IN QUALI BRANI EVANGELICI SI PARLA DI CELIBATO?

Ne parlano Marco 10,29, Matteo 19,12 ("eunuchi per il regno dei cieli") e Luca 18,28-30. «Pietro allora disse: "Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito". Gesù rispose: "In ve­rità vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o geni­tori o figli per il regno di Dio che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà"» (Lc 18,28-30).

IN CHE SENSO IL CELIBATO È UN DONO?

È anzitutto un dono inestimabile di Dio, "un dono particolare di Dio, me­diante il quale i ministri sacri possono aderire più facilmente a Cristo con cuore indiviso e sono messi in grado di dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini" (CIC, Can. 277, § 1). In tal senso, presuppone una vo­cazione particolare, una chiamata spe­ciale da parte di Dio, e pertanto è un carisma.

È anche un dono prezioso della persona a Dio e al prossimo. Il radicale amore del sacerdote celibe verso Dio si manifesta e si attua nel generoso amo­re verso i fratelli, nel servizio disponi­bile verso di essi.

Questo dono, se accolto e vissuto con amore, gioia e gratitudine, è sor­gente di felicità e di santità, per il sa­cerdote stesso e per tutta la Chiesa.

QUALI SONO I MOTIVI A FAVORE DEL CELIBATO?

Va subito detto che le ragioni sola­mente pragmatiche, funzionali, come ad esempio il riferimento alla mag­giore disponibilità, non bastano. Tanto più sono inaccettabili motivazioni col­legate in qualche modo sia a elementi di prestigio, di potere, di promozione sociale o di benefici economici, sia al rifiuto o alla paura o al disprezzo del matrimonio.

Occorre nello stesso tempo ricor­dare che, come disse Cristo stesso, il celibato, con le sue autentiche motiva­zioni, "non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso" (Mt 19,11).

I motivi veri, profondi sono princi­palmente tre: teocentrico-cristologico, ecclesiologico, escatologico. Essi mo­tivano la convenienza profonda che esiste tra sacerdozio e celibato.

1) Motivo teocentrico-cristologico: Il celibato poggia sulla Fede in Dio e sull'amore di Dio e per Dio: è acco­gliere Dio come terra su cui si fonda la propria esistenza. Illuminanti, a que­sto proposito, sono le parole del santo padre Benedetto XVI: "Il vero fon­damento del celibato può essere rac­chiuso solo nella frase: Dominus pars (mea) - Tu, Signore, sei la mia parte. Può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prende­re dalla passione per Dio, ed imparare poi, grazie ad un più intimo stare con lui, a servire pure gli uomini. Il celi­bato deve essere una testimonianza di Fede: la Fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a parti­re da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e per­ciò posso portarlo agli uomini" (Be­nedetto XVI, Discorso in occasione dell'udienza alla Curia Romana per la presenta­zione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2006).

Il sacerdote non è dunque una persona priva di amore, anzi egli vive di passione per Dio. Il suo vivere non è da scapolo, ma da sposato in maniera indissolubile a Dio e alla sua Chiesa. Il celibato è una via all'amore e dell'amore; favorisce lo stile di una speciale vita sponsale da parte del sacerdo­te. Il sacerdote è uomo di Dio perché di lui vive, a lui parla, con lui discerne e decide, di lui è sempre più innamorato. L’inadirimento della vita spiritua­le molto spesso precede la crisi del celibato.

Ma Dio si è reso visibile e si è fatto presen­te in Gesù, il Figlio unigenito del Padre, inviato nel mondo: egli "si fece uomo affinché l'umanità, soggetta al peccato e alla morte, venisse rigene­rata e, mediante una nascita nuova, entrasse nel Regno dei cieli. Gesù compì mediante il suo mi­stero pasquale questa nuova creazione" (SC, 19). Gesù Cristo è dunque la novità di Dio. Egli realiz­za una nuova creazione. Il suo sacerdozio è nuovo. Egli rinnova tutte le cose. Un aspetto importante di questa novità è la vita nella verginità, che Gesù stesso ha vissuto. Egli, infatti, rimase per tutta la vita nello stato di verginità, dedicandosi totalmen­te al servizio di Dio e degli uomini. Il celibato consente pertanto una totale dedizione al Signore, una configurazione più piena con il Signore Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa, una imitazione del suo stato di vita, una immedesimazione con il cuore di Cristo Sposo che dà la vita per la sua Sposa, una maggiore disponibilità all'ascolto del­la sua Parola e al dialogo con lui nella preghiera. Spiega ancora l'Enciclica Sacerdotalis Celibatus: "Cristo rimase per tutta la sua vita nello stato di verginità, il che significa la sua totale dedizione al servizio di Dio e degli uomini. Questa profonda connessione tra la verginità e il sacerdozio di Cri­sto si riflette in quelli che hanno la sorte di parte­cipare alla dignità e alla missione del Mediatore e Sacerdote eterno, e tale partecipazione sarà tanto più perfetta, quanto più il sacro ministero sarà li­bero da vincoli di carne e di sangue" (SC, 21).

La verginità per il Regno di Dio esiste pertanto nella Chiesa, perché esiste Cristo che la rende possibile, con il dono del Suo Spirito. "In questo legame tra il Signore Gesù e il sacerdote, legame ontologico e psicologico, sacramentale e morale, sta il fondamento e nello stesso tempo la forza per quella `vita secondo lo Spirito' e per quel 'radica­lismo evangelico' al quale è chiamato ogni sacer­dote e che viene favorito dalla formazione perma­nente nel suo aspetto spirituale" (Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, 72).

2) Motivo ecclesiologico

Simile a Cristo e in Cristo, il sacerdote si unisce con amore esclusivo alla Chiesa, sposan­dosi misticamente con essa. "La verginità consa­crata dei sacri ministri manifesta infatti l'amore verginale di Cristo per la Chiesa, e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio"(SC 26). La nuzialità del celibato ecclesiastico espri­me ed incarna proprio questo rapporto tra Cristo e la Chiesa.

E in virtù di questo esclusivo legame sponsale, il sacerdote celibe si dedica totalmente al servi­zio generoso e disinteressato di Cristo e della sua Chiesa, con una ampia libertà spirituale e verso tutti gli uomini, senza alcuna distinzione o discri­minazione.

Nella Presbyterorum Ordinis leggiamo che i sa­cerdoti "si dedicano più liberamente a Lui e per Lui al servizio di Dio e degli uomini, servono con maggiore efficacia il suo Regno e la sua opera di rigenerazione divina e in tal modo si dispongono meglio a ricevere una più ampia paternità in Cri­sto" (n.16).

L'esperienza comune insegna e conferma come sia più semplice, per chi non è legato da al­tri affetti, aprire il cuore ai fratelli pienamente e senza riserve.

3) Motivo escatologico

Il celibato sacerdotale è segno e profezia del­la nuova creazione, ossia, del Regno definitivo di Dio nella Parusia, quando, alla fine di questo mondo, tutti risorgeremo dalla morte. Di questi tempi ultimi, la verginità, vissuta per amore del Regno di Dio, costituisce un segno particolare, poiché il Signore ha annunziato che: "Alla risur­rezione non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo" (Mt 22,30). Nella Chiesa, fin d'ora è presente il Regno futuro: essa non solo lo annun­cia, ma lo realizza sacramentalmente contribuendo alla "creazione nuova". Di questo Regno, la Chiesa costitui­sce quaggiù il germe e l'inizio, come ci insegna il Concilio Vaticano II (cfr. LG. 5). Il celibato sacerdotale è uno dei modi con cui la Chiesa annuncia e contribuisce a realizzare tale novità del Regno di Dio.

L'ABOLIZIONE DEL CELIBATO AUMENTEREBBE IL NUMERO DEI SACERDOTI?


Come ha anche affermato il Sinodo dei Vescovi del 2005, un allargamento della regola del celibato non sarebbe una soluzione neppure per il problema della scarsità delle vocazioni, come dimostra l'esperienza anche delle al­tre confessioni cristiane, che hanno sacerdoti o pastori sposati. La scarsità numerica dei sacerdoti è da collegarsi piuttosto ad altre cause, a cominciare dalla cultura secolarizzata moderna.

QUAL È IL RAPPORTO TRA IL CE­LIBATO SACERDOTALE E IL SA­CRAMENTO DEL MATRIMONIO?

È un rapporto complementare: l'uno integra, completa l'altro.

Ecco al riguardo tre autorevoli te­stimonianze:

1) "L'amore sponsale del Risorto per la sua Chiesa, sacramentalmen­te elargito nel matrimonio cristiano, alimenta, nello stesso tempo, il dono della verginità per il Regno. Questa, a sua volta, indica il destino ultimo dello stesso amore coniugale" (Gio­vanni Paolo II, Discorso al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, 31 mag­gio 2001).

2) "La scelta della verginità per amo­re di Dio e dei fratelli, che è richiesta per il sacerdozio e la vita consacrata, sta infatti insieme con la valorizzazione del ma­trimonio cristiano: l'uno e l'altra, in due maniere differenti e complementari, rendono in qualche modo visibile il mistero dell'alleanza tra Dio e il suo popolo" (Benedetto XVI, Discorso alla dio­cesi di Roma, 6 giugno 2005).

3) "Entrambi, il sacramento del Matrimonio e la verginità per il regno di Dio, provengono dal Si­gnore stesso. È lui che dà loro senso e concede la grazia indispensabile per viverli conformemente alla sua volontà. La stima della verginità per il Regno e il senso cristiano del Matrimonio sono inseparabili e si favoriscono reciprocamente" (CCC, 1620).

Il celibe rende consapevoli gli sposati del fat­to che essi non sono solamente in funzione di un rapporto, bensì hanno un loro valore proprio. E gli sposati testimoniano al celibe la necessità di dare alla propria vita una dimensione d'amore incarnato.

IL SACERDOTE È UN UOMO SOLO?

"È vero: il sacerdote, per il suo celibato, è un uomo solo; ma la sua solitudine non è il vuoto, perché è riempita da Dio e dall'esuberante ricchezza del suo Regno. Inoltre, a questa solitudine, che dev'esse­re pienezza interiore ed esteriore di carità, egli si è preparato, se l'ha scelta consapevolmente e non per l'orgoglio di essere differente dagli altri, non per sottrarsi alle comuni responsabilità, non per estra­niarsi dai suoi fratelli o per disistima del mondo. Segregato dal mondo, il sacerdote non è separato dal popolo di Dio, perché è costituito a vantaggio degli uomini, consacrato interamente alla carità e all'opera per la quale lo ha assunto il Signore. A volte la soli­tudine peserà dolorosamente sul sacer­dote, ma non per questo egli si pentirà di averla generosamente scelta. Anche Cristo, nelle ore più tragiche della sua vita, restò solo" (SC, 58-59).

CHE COSA OCCORRE AL SACERDOTE PER MANTENERSI CELIBE?

Occorre:

• una preparazione accurata du­rante il cammino verso questo obiettivo; e dunque una adeguata formazione:

*sia remota, vissuta in famiglia, sia soprattutto prossima, negli anni del Seminario;

• l'esigenza di una solida forma­zione umana e cristiana, sostenu­ta da una buona direzione spiri­tuale, sia per i seminaristi sia per i sacerdoti;

• un'esperienza sempre più pro­fonda di Cristo: dalla qualità e profondità di tale relazione con il Signore dipende la tipologia dell'intera esistenza sacerdotale;

• una condivisione sempre più am­pia e radicale dei sentimenti e degli atteggiamenti di Gesù Cri­sto;

• una preghiera costante, che invo­ca senza tregua Dio come il Dio vivente e si appoggia a lui nel­le ore di confusione come nelle ore della gioia. La celebrazione Eucaristica quotidiana, l'Ufficio divino, la Confessione frequen­te, l'adorazione del Santissimo Sacramento, il rapporto affettuoso con Maria Santissima, gli Esercizi Spirituali, la recita possibilmente quotidiana del santo Rosario... sono alcune forme di questa pre­ghiera che non deve mai mancare nella vita sacerdotale;

• disponibilità a seguire Cristo an­che sulla via del Calvario: l'esi­stenza sacerdotale comporta an­che l'accettazione dell'ottica del Crocifisso. La sofferenza, talvolta la fatica, lo sconforto, le delusio­ni, la noia, perfino lo scacco... hanno il loro posto nell'esistenza di un sacerdote, che tuttavia sa e deve reagire a tutto questo con l'aiuto di Dio;

• un'osservanza puntuale dei "di­versi consigli evangelici, che Gesù propone nel Discorso della Montagna e tra questi i consigli, intimamente coordinati tra loro, d'obbedienza, castità e povertà: il sacerdote è chiamato a viver­li secondo quelle modalità, e più profondamente secondo quelle fi­nalità e quel significato originale, che derivano dall'identità propria del presbitero e la esprimono" (Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, 27);

• accompagnamento persistente da parte del Vescovo, di amici sacer­doti e di laici, che sostengano in­ sieme questa testimonianza sacerdotale, con la stima, l'amicizia, il consiglio e la preghiera;

• una vigilanza continua e una prudente cautela nelle sue relazioni con le altre persone;

• una permanente capacità di lavorare senza ri­sparmiarsi perché Cristo sia conosciuto, amato e seguito;

• una vita comunitaria con altri sacerdoti: sant'Agostino riteneva consigliabile che i sa­cerdoti celibi vivessero insieme in una stessa casa.

Il sacerdote deve utilizzare, in modo continuo e complementare, questi mezzi e modalità, per vivere con serenità e gioia il proprio celibato.

Alla luce di quanto esposto sopra, non sarà perciò difficile condividere quanto scrive il papa Benedetto XVI, nell'Esortazione Apostolica post­sinodale Sacramentum Caritatis sull'Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa (22 febbraio 2007), n. 24: "In unità con la grande tradizione ecclesiale, con il Concilio Vati­cano II e con i Sommi Pontefici miei predecessori, ribadisco la bellezza e l'importanza di una vita sa­cerdotale vissuta nel celibato come segno espressi­vo della dedizione totale ed esclusiva a Cristo, alla Chiesa e al Regno di Dio, e ne confermo quindi l'obbligatorietà per la tradizione latina. Il celibato sacerdotale vissuto con maturità, letizia e dedizione è una grandissima benedizione per la Chiesa e per la stessa società".


Monsignor Raffaello Martinelli

ODIO AL PECCATO




1. Gesù innocente.

Era Dio; dunque il peccato nulla aveva da fare con Lui; nella Purifìcazione di Maria, Gesù veniva ricomprato con due colombe, simbolo di candore. Predicando, sfidava i Farisei: Chi può incolparmi di un solo peccato? (Gv. 8,26). Nel condannarlo a morte. Pilato lo afferma innocente; gli stessi crocifissori si convinsero che era veramente giusto. E tu quanto presto hai perduta l'innocenza battesimale! Dopo la Confessione quanti giorni sai vivere senza peccato?

2. Gesù morì per il peccato.

Odiando il peccato in sé, l'odia pure in noi, suoi figli. Quando mi si annida in seno un solo peccato mortale, divengo odioso, ripugnante al Cuor di Gesù... Morendo con il peccato in cuore, mai più Gli sarò amico, per tutta l'eternità, Un solo peccato veniale raffredda e indebolisce già l'amore di Gesù per me... Gesù morì sulla Croce per liberarmi da tanto mostro; perciò io me ne curo così poco, e ripeto tanti peccati?

3. Il primo gradino della scala del Cielo.

L'odio e la fuga del peccato sono il primo passo sulla via della virtù, della santità, della perfezione. 

Lo disse Gesù: "Se vuoi entrare alla vita, osserva i comandamenti". Invano preghi, fai penitenze, t'accosti ai Sacramenti, se non fuggi il peccato; odialo, detestalo come il maggior male del mondo, come offesa al Cuor di Gesù, come il massimo impedimento ad entrare in Cielo.





PRATICA: Fa un atto di contrizione e un atto di carità, in riparazione dei peccati commessi.

laparola.it

mercoledì 19 giugno 2013

"LA CHIESA DEVE PARLARE DEL DEMONIO" – Cardinale Georges Cottier

La Chiesa deve parlare del demonio. Peccando, l'angelo decaduto non ha perso ogni potere che aveva, secondo il piano di Dio, nel governo del mondo.
Ormai usa questo potere per il male.
Il Vangelo di Giovanni lo chiama "il principe di questo mondo" (Gv 12,31) e nella prima Epistola dello stesso Giovanni si legge: "Tutto il mondo giace nel potere del Maligno" (Gv 5,19). Paolo parla della nostra battaglia contro le potenze spirituali (cfr. Ef. 6,10-17). Possiamo anche rimandare all' Apocalisse.
Abbiamo da combattere contro forze del male non soltanto umane ma sopraumane nella loro origine ed ispirazione: basta pensare a Auschwitz, ai massacri di popoli interi, a tutti i crimini orrendi che si commettono, agli scandali dei quali sono vittime i piccoli e gli innocenti, al successo delle ideologie di morte, ecc..
È opportuno ricordare alcuni principi. Il male del peccato è fatto da una volontà libera.
Dio solo può penetrare nel cuore profondo della persona, il demonio non ha il potere di entrare in questo sacrario. Agisce soltanto all'esterno, sull'immaginazione e sugli affetti di radice sensibile.
Inoltre, la sua azione è limitata dal permesso di Dio onnipotente.
Il diavolo opera generalmente attraverso la tentazione e l'inganno, è mentitore (cfr. Gv 8,44).
Può ingannare, indurre all'errore, illudere e, probabilmente più che suscitare, può assecondare i vizi e i germi di vizi che sono in noi.
Nei Vangeli sinottici, la prima apparizione del demonio è la tentazione nel deserto, quando sottopone a varie incursioni Gesù (cfr. Mt 4, 11 e Lc 4,1-13).
Questo fatto è di grande importanza.
Gesù guariva malattie e patologie.
Si riferiscono nell'insieme al demonio, perché tutti i disordini che affliggono l'umanità sono riducibili al peccato, del quale il demonio è istigatore. Fra i miracoli di Gesù ci sono liberazioni da possessioni diaboliche, nel senso preciso.
Vediamo in particolare in san Luca che Gesù comanda ai demoni che lo riconoscono come il Messia.
Il demonio è molto più pericoloso come tentatore che attraverso segni straordinari o straordinarie manifestazioni esteriori, perché il male più grave è il peccato.
Non a caso nella preghiera del Signore, domandiamo: Non ci indurre in tentazione. Contro il peccato, il cristiano può lottare vittoriosamente con la preghiera, la prudenza, nell'umiltà conoscendo la fragilità della libertà umana, il ricorso ai sacramenti, prima di tutto della Riconciliazione e dell'Eucaristia.
Deve anche chiedere allo Spirito Santo il dono di discernimento, sapendo che i doni dello Spirito Santo sono ricevuti con la grazia del Battesimo.
San Tommaso e San Giovanni della Croce affermano che abbiamo tre tentatori: il demonio, il mondo (lo ravvisiamo certamente nella nostra società), noi stessi, ossia l'amor proprio.
San Giovanni della Croce sostiene che il tentatore più pericoloso siamo noi stessi perché ci inganniamo da soli.
A fronte dell'inganno, è da auspicare nei fedeli cattolici una sempre più profonda conoscenza della dottrina cristiana. Si deve promuovere l'apostolato per il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, di straordinaria utilità per combattere l'ignoranza. Il demonio forse è fautore di questa ignoranza: distrarre l'uomo da Dio è una grande perdita che si può arginare promuovendo un congruo apostolato nei mezzi di comunicazione sociale, in particolare televisivi, considerando la quantità di tempo che molte persone spendono nel seguire i programmi della televisione, sovente dai contenuti culturalmente inconsistenti o immorali.
Anche contro gli uomini di Chiesa si scatena l'azione del diavolo: nel 1972, il Sommo Pontefice Paolo VI parlò del "fumo di Satana entrato nel tempio di Dio", alludendo ai peccati dei cristiani, allo svilimento della moralità dei costumi e alle decadenze (consideriamo la storia degli Ordini e delle Congregazioni religiose, nei quali si è sempre sentita l'esigenza di riforme per reagire alla decadenza), al cedimento nelle tentazioni nella ricerca della carriera, del denaro e della ricchezza nei quali possono incorrere gli stessi membri del Clero, commettendo peccati che danno scandalo.
L'esorcista può essere un Buon Samaritano - ma non è il Buon Samaritano - poiché il peccato è una realtà più grave.
Un peccatore che rimane fissato nel suo peccato è più misero di un possesso. La conversione del cuore è la più bella vittoria sull'influenza di Satana, contro la quale il Sacramento della Riconciliazione ha una importanza assolutamente centrale perché nel mistero della Redenzione Dio ci ha liberato dal peccato, e ci dona, quando siamo caduti, di ritrovare la Sua amicizia.
I Sacramenti hanno invero una priorità sui sacramentali, categoria nella quale sono annoverati gli esorcismi, che sono richiesti dalla Chiesa ma in ordine non prioritario. Se non si considera questa impostazione, sussiste il rischio di turbare i fedeli. Non si può considerare l'esorcismo come l'unica difesa contro l'azione del demonio, ma un mezzo spirituale necessario, dove si è constatato l'esistenza di specifici casi di possessione diabolica.
Sembra che i possessi siano più numerosi nei Paesi pagani, dove il Vangelo non è stato diffuso e dove sono più diffuse le pratiche magiche. Altrove un elemento culturale permane là dove i cristiani conservano una tendenza ad indulgere a vecchie forme di superstizione. Inoltre occorre considerare che presunti casi di possessione possono essere spiegati dalla medicina attuale e dalla psichiatria e che la soluzione a determinati fenomeni può consistere in una buona cura psichiatrica.
Allorché si manifesti nella pratica un caso difficile, bisogna prendere contatto con uno psicologo e un esorcista; è consigliabile avvalersi di psichiatri di formazione cattolica.
Al Pontificio Ateneo "Regina Apostolorum" è stato istituito recentemente un corso su queste tematiche.

Su di esse appare opportuna una formazione adeguata nei Seminari, in una dimensione di equilibrio e di saggezza, evitando eccessi e forzature.

Cardinale Georges Cottier, O.P. Pro-teologo della Casa Pontificia