giovedì 28 febbraio 2013

Ciao Santo Padre














"State uniti, ma non rinchiusi. Siate umili, ma non pavidi. Siate semplici, ma non ingenui. Siate pensosi, ma non complicati. Entrate in dialogo con tutti, ma siate voi stessi". 

(Papa Benedetto XVI, Incontro con i giovani in piazza Matteotti, Genova, 18 maggio 2008)







‎"Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito.
Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia.
Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!"

Papa Benedetto XVI, 27 febbraio 2013

Tempo di silenzio

Spesso abbiamo paura del silenzio: ci sembra che indichi solitudine e depressione. 
Il silenzio ci pare un abisso vuoto che dobbiamo riempire ad ogni costo con un rumore qualsiasi. 
Così usiamo televisione, radio, telefono, cellulare, internet, per affollare le nostre giornate di suoni, immagini, parole spesso inutili e banali. Scrive don Bruno Ferrero:

"Miliardi di parole, ogni giorno, ci investono, ci trafiggono, ci soffocano. Saper parlare è un gran dono. Perché l'uomo non dica troppi spropositi, Dio gli ha donato dieci dita perché possa ricordare i suoi saggi consigli:"

Che la tua prima parola sia buona,
che la tua seconda parola sia vera,
che la tua terza parola sia giusta,
che la tua quarta parola sia generosa,
che la tua quinta parola sia coraggiosa,
che la tua sesta parola sia tenera,
che la tua settima parola sia consolante,
che la tua ottava parola sia accogliente,
che la tua nona parola sia rispettosa.
E la tua decima parola sia saggia.
Poi, taci!


E’ vero che esistono silenzi che hanno le radici nel male: silenzi di antipatia, di rancore, di risentimento, di odio; oppure silenzi di vigliaccheria, di omertà, di complicità. Tuttavia esiste anche un silenzio altamente positivo, che è condizione necessaria per ascoltare gli altri e soprattutto l’Altro.

La Quaresima è il tempo più opportuno per abbattere i nostri muri di silenzi egoistici e per costruire invece quel Silenzio del cuore che ci permette di svuotarci delle parole inutili e riempirci della Parola, che ci permette di liberarci dei suoni frastornanti per ascoltare il dolce soffio dello Spirito.


da Meditazioni per la Quaresima






mercoledì 27 febbraio 2013

Quando nasce l’istituzione del conclave? Verso il grande appuntamento dell'elezione del nuovo Papa. Storie e aneddoti


La regola della maggioranza dei due terzi per l’elezione del papa stabilita nel 1179 (costituzione Licet de vitanda di Alessandro III) aveva portato all’eliminazione di numerosi inconvenienti, ma ebbe come conseguenza alcuni effetti collaterali quali periodi di vacanza lunghissimi e una resistente ingerenza da parte del potere imperiale che in alcuni casi arrivò a trattenere come prigionieri i cardinali ostili ai propri disegni. Anche il popolo della cristianità romana trovò il modo di fare sentire l’esigenza di vedere garantito il vertice ecclesiastico in tempi rapidi: se la chiesa doveva essere governata regimen unius personae, chi doveva provvedervi andava piuttosto costretto a farlo.

Mutuando un rude sistema di accelerazione delle pratiche da altri procedimenti civili, nel 1216 i cittadini di Perugia, alla morte di Innocenzo III, costrinsero i cardinali a eleggere il pontefice mediante una clausura forzata; nel 1241, alla morte di Gregorio IX, il senato romano guidato da Matteo Rosso Orsini, rinchiuse nei ruderi carcerari del Septizonio di Settimio Severo, alle pendici del Palatino, i dieci cardinali presenti a eleggere il papa, poiché non trovavano un accordo sul nome. Quasi torturati da guardiani violenti, i cardinali dovettero superare le esitazioni che erano state indotte da Federico II di Svevia che voleva un papa favorevole al suo disegno di unificare la corona imperiale e quella di Sicilia. Fu questo il primo caso di conclave, ma l’indisponibilità ad accettare e a formalizzare tale metodo come regola fu totale.
Alla morte di Clemente V (1268), dopo diciotto mesi di deliberazioni, i diciassette cardinali aventi diritto furono murati nel palazzo papale di Viterbo e portati allo stremo fisico, con limitazioni nel cibo, ridotto a pane e acqua e introdotto dall’alto dopo che era stato rimosso il tetto per ordine del podestà della città. La manovra fu subita, ma solo dopo la fine del blocco e il restauro del palazzo, dopo due anni, nove mesi e due giorni, i cardinali elessero il nuovo papa Gregorio X. Alcuni anni più tardi, attraverso la costituzione Ubi periculum nel 1274 (concilio di Lione) fu regolata la reclusione e fu istituito il conclave: i cardinali elettori del papa dovevano essere rinchiusi nel luogo della morte del papa, dopo un massimo di dieci giorni di lutto.

Dovevano avere vita comune durante gli scrutini e una dieta regolata in progressione di austerità (trascorsi tre giorni in cui erano nutriti in modo ordinario si passava a un pasto al giorno per cinque giorni, per arrivare a un digiuno di pane e acqua). Fu inoltre limitata la corrispondenza con l’esterno e vietata la possibilità di manovre finanziarie, di accesso alla cassa e di assunzione di impegni di spesa. Tali norme furono tuttavia abolite per l’eccessivo rigore nel giro di pochi anni e ripristinate soltanto alla fine del XIII secolo.

Maria Chiara Giorda, Ricercatrice di storia del cristianesimo
ROMA 23 FEBBRAIO 2013
vatican insider



I cardinali verso il conclave del 2005

martedì 26 febbraio 2013

Catechesi quaresimale: Il silenzio liturgico


Il Signore risiede nel suo tempio santo; taccia davanti a lui tutta la terra" (Ab 2, 20)

Durante la celebrazione della Messa sono previsti alcuni momenti di silenzio, necessari per una vera e completa partecipazione alla liturgia. Purtroppo a volte questi momenti di silenzio sono trascurati dal celebrante; altre volte sono rispettati, ma i fedeli li vivono con un certo imbarazzo e qualcuno si distrae perché non sa che fare o pensare. Conoscerne il significato, quindi, è utile per scoprirne il valore prezioso e così beneficiarne.

I momenti più importanti del silenzio liturgico durante la Messa sono:

• all’atto penitenziale (quando il sacerdote invita a riconoscerci peccatori): il silenzio ci aiuta a entrare nel profondo della nostra anima, per misurare il nostro peccato davanti all’immensità dell’Amore di Dio;

• prima della Colletta (quando il sacerdote dice “Preghiamo”): il silenzio ci aiuta a raccogliere le nostre personali intenzioni di preghiera per presentarle al Signore tramite il sacerdote;

• durante la liturgia della Parola: prima, durante e dopo ogni lettura, e in particolare dopo l’omelia, il silenzio ci aiuta a ringraziare il Signore per la Parola che ci dona e ad accoglierla per farla fruttificare in noi; la Parola si ode nel silenzio e in esso produce la sua fecondità;

• dopo la comunione: il silenzio ci aiuta a offrire una preghiera di adorazione, di lode, di benedizione e di ringraziamento al Signore per il dono del suo Corpo e Sangue.

Il silenzio liturgico, dunque, aiuta a creare in noi una vigile presenza, un sacro raccoglimento, un’interiorizzazione della Parola di Dio, un dialogo personale con il Signore che viene ad abitare in noi. Il silenzio liturgico ci tiene per un momento la bocca chiusa perché così, quando la apriamo per dire o cantare con tutta l’assemblea la nostra risposta a Dio, le nostre parole diventino più autentiche e vere.

Durante la celebrazione, il silenzio è segno dello Spirito Santo, della Sua presenza e della Sua azione perché ogni fedele si disponga all’ascolto e alla contemplazione. Lo Spirito parla nel silenzio e apre la mente alla comprensione, invita il cuore ad accogliere, suggerisce le parole nella preghiera, insegna a riconoscere che tutto nella liturgia è un dono del Cielo. Nel silenzio lo Spirito trasforma l’assemblea nel suo complesso e ogni singolo fedele, aiutandoli a incontrare Dio e a portarLo agli altri nella testimonianza della vita di ogni giorno.


lunedì 25 febbraio 2013

L'Anima


1. Hai un'anima.

Guardati dal peccatore che dice: morto il corpo, tutto è finito. Hai un'anima che è alito di Dio; è un raggio della sapienza divina; anima ragionevole che ti distingue dal bruto; anima capace d'immenso amore che t'avvicina agli angeli; anima semplice, spirituale, immortale, che porta in sé l'immagine e la rassomiglianza con Dio: nobile anima!

2. Hai un'anima sola.

Se perdi una mano, l'altra ti soccorre, se perdi un occhio l'altro t'aiuta a vedere: ma un'anima sola t'ha dato il Signore e la libertà di perderla o di salvarla. Se ne avessi due, potresti perderne una, purché l'altra si salvi; ma ciò è impossibile: eppure, tu vivi come se ne avessi dieci! Abbi pietà dell'anima tua.

3. Guai se perdi l'anima tua!

Con un po' d'impegno, con qualche mortificazione, con un po' di riflessione, con poche preghiere ben fatte e costanti, puoi giungere felice alla Casa di Dio, in seno a Lui, immerso nelle delizie di Dio stesso... Ma un solo peccato mortale può allontanare per tutta l'eternità l'anima tua dal sommo bene, può gettarla nel fuoco eterno e nella disperazione... E tu, forse, attualmente sei in peccato!

PRATICA: Rinunzia a tutto piuttosto che perdere l'anima.




domenica 24 febbraio 2013

Le calunnie e le disinformazione sulla santa Chiesa non intaccano la Fede dei credenti né il loro amore per il Signore - Padre Federico Lombardi


Il cammino della Chiesa in queste ultime settimane del Pontificato di Papa Benedetto, fino all’elezione del nuovo Papa attraverso la “Sede vacante” e il Conclave, è molto impegnativo, data la novità della situazione. Non abbiamo – e ce ne rallegriamo – da portare il dolore per la morte di un Papa amato, ma non ci è risparmiata un’altra prova: quella del moltiplicarsi delle pressioni e delle considerazioni estranee allo spirito con cui la Chiesa vorrebbe vivere questo tempo di attesa e di preparazione.

Non manca infatti chi cerca di approfittare del momento di sorpresa e di disorientamento degli spiriti deboli per seminare confusione e gettare discredito sulla Chiesa e sul suo governo, ricorrendo a strumenti antichi – come la maldicenza, la disinformazione, talvolta la stessa calunnia – o esercitando pressioni inaccettabili per condizionare l’esercizio del dovere di voto da parte dell’uno o dell’altro membro del Collegio dei cardinali, ritenuto sgradito per una ragione o per l’altra.

Nella massima parte dei casi chi si pone come giudice, tranciando pesanti giudizi morali, non ha in verità alcuna autorità per farlo. Chi ha in mente anzitutto denaro, sesso e potere, ed è abituato a leggere con questi metri le diverse realtà, non è capace di vedere altro neppure nella Chiesa, perché il suo sguardo non sa mirare verso l’alto o scendere in profondità a cogliere le dimensioni e le motivazioni spirituali dell’esistenza. Ne risulta una descrizione profondamente ingiusta della Chiesa e di tanti suoi uomini. 

Ma tutto ciò non cambierà l’atteggiamento dei credenti, non intaccherà la fede e la speranza con cui guardano al Signore che ha promesso di accompagnare la sua Chiesa. Noi vogliamo, secondo quanto indica la tradizione e la legge della Chiesa, che questo sia un tempo di riflessione sincera sulle attese spirituali del mondo e sulla fedeltà della Chiesa al Vangelo, di preghiera per l’assistenza dello Spirito, di vicinanza al Collegio dei cardinali che si accinge all’impegnativo servizio di discernimento e di scelta che gli è chiesto e per cui principalmente esiste.

In questo ci accompagna anzitutto l’esempio e la rettitudine spirituale di Papa Benedetto, che ha voluto dedicare alla preghiera dell’inizio della Quaresima questo ultimo tratto del suo Pontificato. Un cammino penitenziale di conversione verso la gioia della Pasqua. Così lo stiamo vivendo e lo vivremo: conversione e speranza."
  
Padre Federico Lombardi 



sabato 23 febbraio 2013

L’ostetrica coraggiosa che fece nascere la vita anche ad Auschwitz


Lodz, in Polonia, anno 1896. I Leszczynski sono una famiglia del quartiere più povero della città. Una famiglia, però, ricchissima di fede e di affezione grande alla Madonna. Vi nasce una bambina: i genitori la chiamano Stanislawa, nome bene-augurante di purezza ed eroismo, che ricorda il nome del santo Patrono di Cracovia, Stanislao, vescovo e martire. Stanislawa cresce limpida e forte, libera e obbediente a Dio solo e a sua Madre, l'Immacolata. Nel 1908, con i genitori, emigra in Brasile, alla ricerca di lavoro e di pane. E' serena, felice di vivere: di vivere coerente alla sua Fede cattolica. Pochi anni dopo, ritornano in Polonia. Nel 1914, allo scoppio della "Grande Guerra", Stanislawa ha 18 anni: sospende i suoi studi e comincia a lavorare nel Comitato di aiuto ai poveri. Al mattino presto la Messa, alla sera il Rosario alla Madonna: per tutta la vita, saranno i suoi momenti fondamentali di incontro e di colloquio con Dio, ogni giorno. Nel 1922, raggiunto il diploma di ostetrica, svolto il tirocinio, inizia il suo delicato lavoro - vera missione - a servizio della vita nascente. Ama e stima la sua professione, sapendo di essere collaboratrice di Dio nel far nascere la vita. Ama perdutamente i bambini, in ognuno dei quali vede il volto di Gesù. La conoscono tutte le madri in attesa: a Lodz, dintorni e altri paesi, la chiamano senza tregua e le capita spesso di lavorare anche tre giorni consecutivi senza trovare tempo per dormire. Intanto entra nel Terz'Ordine Francescano e vive nel mondo, umile e semplice come san Francesco d'Assisi. Si incanta davanti alla bellezza della natura, ancor più davanti alla vita nascente. Dice spesso: "L'atto della nascita è la più bella estasi della natura". Si sposa con Bronislaw, un giovane uomo forte e buono: dal loro Matrimonio nascono quattro figli. Ma i suoi bambini - che adora - non le bastano. La sua casa è sempre piena di gente, di diseredati, di persone che la cercano per risolvere i propri fastidi. Stanislawa ha tempo e amore per tutti. Chiamata spesso per il suo servizio, impegnata in tante opere di bene, i suoi bambini sentono tuttavia che la loro mamma è sempre tutta per loro. Sembra impossibile, ma è un miracolo dell'amore sostenuto e alimentato da Gesù. 

OSTETRICA AD AUSCHWITZ
Il 1° settembre 1939, Hitler fa invadere la Polonia. Durante l'occupazione dei tedeschi, la casa di Stanislawa e Bronislaw diventa il rifugio dei ricercati, in primo luogo per gli ebrei perseguitati. Bronislaw, tipografo, prepara di nascosto, per loro, vitto, abiti e documenti per mettersi in salvo. Nessuno ferma quei due coniugi, mossi dalla carità cristiana e dalla preghiera, sostenuti dalla Madonna, "la Vergine sempre fedele". Ma nella notte tra il 19 e il 20 febbraio 1943, la Gestapo scopre quelle attività e arresta Stanislawa e i suoi figli Sylvia, Stanislaw e Henryk. Il marito e il figlio più grande, Bronislaw junior, fuggono saltando dalla finestra. La madre e la figlia vengono deportate nel lager di Auschwitz. I due figli a Mauthausen. Il padre morirà durante l'insurrezione di Varsavia. Nel campo di concentramento Stanislawa riceve il numero 41335. Privata di tutto, riesce però a nascondere il suo certificato di ostetrica. Ad Auschwitz, tra le prigioniere, sono numerose le madri in attesa. I tedeschi hanno dato l'ordine di sopprimere ogni bambino che nasce. C'erano due "ostetriche", Klara e Pfani, e fino al maggio 1943 i bambini nati erano soppressi. 
Nel maggio 1943 si ammala Klara, l'infanticida. Stanislawa ferma il medico delle SS e gli mostra il certificato di ostetrica. L'uomo la guarda stupito, poi la manda nella "sala parto", all'interno di una baracca: al centro corre "una stufa" a forma di canale fatto di mattoni, circondata da trenta letti separati. Le donne partoriscono lì, tra un'indicibile miseria. Il capo del lager ordina a Stanislawa di uccidere tutti i bambini appena nati. 
Di ognuno occorre poter scrivere: "Nato morto". Stanislawa gli risponde, tagliente come una lama: "No, mai! Non si devono uccidere i bambini". Va nella baracca e comincia il suo lavoro. Ha soltanto un paio di forbici, un barattolo di medicinali, qualche benda... e un grande amore, un enorme coraggio insieme a una fiducia senza limiti nella Madonna. Per tremila volte, disubbidisce all'ordine di "Erode", quello di uccidere i bambini, e rischia la camera a gas. Aiuta tutte le mamme a far nascere i loro bambini, anche le donne ebree ai cui figli era persino proibito di tagliare il cordone ombelicale, perché dovevano essere buttati subito nel contenitore delle feci! Al primo bambino nato, Stanislawa dà il nome di Adam, il nome del primo uomo, come augurio di vita. Ella stessa li battezza versando sul loro capo l'acqua e dicendo le parole rituali: "Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Per il Battesimo, è prevista la pena di morte, ma ella non si arrende. Poi quei neonati vengono lasciati morire: dai nazisti che comandano il campo, non da lei! Ella è solo per far vivere! Mamma Stanislawa - così la chiamano nel lager - non si scoraggia e continua nel suo servizio, perché sa che "l'ostetrica, il medico, e i genitori e chiunque devono sempre promuovere la vita". Per le madri in attesa, per i "suoi" bambini, lavora giorno e notte, nessun parto avviene senza di lei ed ella cerca in continuazione lenzuola, bende, fette di pane, medicinali; sempre mite, umile, buona. Non parla mai male di nessuno e ha un'unica "arma": l'amore di Gesù. Ogni giorno Stanislawa, con la sua fede forte e lieta, organizza la preghiera per tutti: spesso è il Rosario alla Madonna e, attorno a lei, lo recitano i detenuti e le detenute di Auschwitz. Così alla domenica si riuniscono ancora per meditare il Vangelo e per pregare, suscitando l'ira delle SS: ella è sempre il centro, una personalità eccezionale, in mezzo a tante crudeltà.

EWA, L'INIZIO DELLA VITA
Tra le donne in attesa, il 20 dicembre 1944, nella "sala parto" del lager giunge Jadwiga Machaj, prigioniera 87263. Presso la lunga stufa due donne stanno già partorendo. Le si avvicina Stanislawa: "E allora, figlia mia?". La sua voce le porta tanta pace. Le accarezza il volto, le chiede quanti anni ha, le racconta della sua famiglia di cui in quel momento ignora la sorte. Qualche momento dopo, la aiuta a partorire: "Hai una bellissima bambina! Come vuoi chiamarla?". "Non lo so". "Allora - dice l'ostetrica - chiamala Ewa, sarà l'inizio della vita". Poi versa sulla sua testolina l'acqua del Battesimo: "Ewa, io ti battezzo...". Per la piccola riesce a trovare una coperta di piume. Ewa sopravvive e le viene dato il numero 89243. Da quel giorno, poco alla volta, il rigore del campo si allenta, perché la guerra volge alla fine e per i nazisti è il tracollo. Stanislawa, nel 1945, torna a casa a Lodz, e riprende la sua missione di servizio alla vita, umile, semplice, senza mai atteggiarsi a eroina. Porta con sè un quaderno: Rapporto di un'ostetrica ad Auschwitz, un documento sconvolgente, tragico. "Fra quegli orribili ricordi - ha scritto - nella mia coscienza è vivo questo pensiero: tutti i bambini nacquero vivi. Soltanto trenta sono sopravvissuti. In centinaia furono trasportati a Naklo per essere snazionalizzati, più di 1500 furono annegati da Klara e Pfani, circa mille morirono di fame e freddo. Offro il mio rapporto in nome di coloro che non poterono parlare al mondo dei torti subiti: in nome della madre, e di ogni bambino". Nel 1957, a Lodz, durante i festeggiamenti per la premiazione di alcune ostetriche, fra le quali Stanislawa, il figlio suo dottor Bronislaw, lesse il "Rapporto" scritto dalla madre, nel silenzio commosso e teso dei presenti. Molti superstiti, testimoni dell'operato della coraggiosa levatrice, confermarono quanto ella vi narrava. 
Un giorno del 1970, Ewa, la bambina nata nel lager, oramai 26enne, nel Teatro grande di Varsavia consegnò a Stanislawa un mazzo di fiori a nome dei bambini sopravvissuti. Stanislawa abbracciò tutti con uno sguardo di amore e di gioia, ripetendo più volte: "Come sono contenta che siate qui, come sono contenta!". Si spense l'11 marzo 1974, a 78 anni di età. Nella bara, la vestirono con l'abito di Terziaria francescana, come aveva voluto. 
Ai suoi funerali, tra migliaia di persone e di fiori, mons. Kulik disse che l'esistenza di Stanislawa era stata tutta un servizio alla vita e che, come Padre Kolbe aveva sacrificato la vita per un prigioniero, ella l'aveva sacrificata per ogni bambino fatto nascere. 
Alcuni anni dopo, le donne polacche, toccate dal suo esempio, fecero preparare un calice prezioso da offrire al Papa nella sua seconda visita in Polonia. Nel santuario della Madonna di Czestochowa, Giovanni Paolo II, un giorno di giugno 1983, ha celebrato la Messa con il grande calice offertogli, ornato di quattro immagini scolpite che rappresentano le donne più luminose della Polonia cattolica: santa Edvige di Slesia, la Beata Edvige Regina, la beata Maria Ledochowska e, ultima in ordine di tempo, ma non di eroismo, Stanislawa Leszczynska. Il calice del Cristo, il calice della Vita che non muore.

BastaBugie

Articolo di Paolo Risso

venerdì 22 febbraio 2013

Suggerimenti per il voto elettorale - Cardinale Carlo Caffarra


La riflessione del Cardinale Carlo Caffarra sul voto elettorale, che mi pare illuminante:

Cari fedeli, 
solo dopo lunga riflessione ho deciso di dirvi parole di orientamento per il prossimo appuntamento elettorale.

Di parole ne avete sentite tante in queste settimane; di promesse ne sono state fatte molte. Io non ho nessuna promessa da farvi. Spero solo che le mie parole non siano confuse con altre, perché non nascono da preoccupazioni politiche.

E’ come pastore della Chiesa che vi parlo.

1. La vicenda culturale dell’Occidente è giunta al suo capolinea: una grande promessa largamente non mantenuta.

I fondamenti sui quali è stata costruita vacillano, perché il paradigma antropologico secondo cui ha voluto coniugare i grandi vissuti umani [per esempio l’organizzazione del lavoro, il sistema educativo, il matrimonio e la famiglia …] è fallito, e ci ha portato dove oggi ci troviamo.
Non è più questione di restaurare un edificio gravemente leso. E’ un nuovo edificio ciò di cui abbiamo bisogno. Non sarà mai perdonato ai cristiani di continuare a essere culturalmente irrilevanti.
2. E’ necessario avere ben chiaro quali sono le linee architettoniche del nuovo edificio; e quindi anche quale profilo intendiamo dare alla nostra comunità nazionale. 
Ve lo indico, alla luce del grande Magistero di Benedetto XVI.

٭ La vita di ogni persona umana, dal concepimento alla sua morte naturale, è un bene intangibile di cui nessuno può disporre. Nessuna persona può essere considerata un peso di cui potersi disfare, oppure un oggetto – ottenuto mediante procedimenti tecnici [procreazione artificiale] – il cui possesso è un’esigenza della propria felicità.
٭ La dicotomia Stato–Individuo è falsa perché astratta. Non esiste l’individuo, ma la persona che fin dalla nascita si trova dentro relazioni che la definiscono. Esiste pertanto una società civile che deve essere riconosciuta.
Lo Stato è un bene umano fondamentale, purché rispetti i suoi confini: troppo Stato e niente Stato sono ugualmente e gravemente dannosi.
٭ Nessuna civiltà, nessuna comunità nazionale fiorisce se non viene riconosciuto al matrimonio e alla famiglia la loro incomparabile dignità, necessità e funzione. Incomparabile significa che nel loro genere non hanno uguali. Equipararle a realtà che sono naturalmente diverse, non significa allargare i diritti, ma istituzionalizzare il falso. «Non parlare come conviene non costituisce solo una mancanza verso ciò che si deve dire, ma anche mettere in pericolo l’essenza stessa dell’uomo» [Platone].
٭ Il sistema economico deve avere come priorità il lavoro: l’accesso al e il mantenimento del medesimo. Esso non può essere considerato una semplice variabile del sistema.
Il mercato, bene umano fondamentale, deve configurarsi sempre più come cooperazione per il mutuo vantaggio e non semplicemente come competizione di individui privi di legami comunitari.
٭ Tutto quanto detto sopra è irrealizzabile senza libertà di educazione, che esige un vero pluralismo dell’offerta scolastica pubblica, statale e non statale, pluralismo che consenta alle famiglie una reale possibilità di scelta.
3. Non possiamo astenerci dal prendere posizione su tali questioni anche mediante lo strumento democratico fondamentale del voto. La scelta sia guidata dai criteri sopraindicati, che sintetizzo: rispetto assoluto di ogni vita umana; costruzione di un rapporto giusto fra Stato, società civile, persona; salvaguardia dell’incomparabilità del matrimonio – famiglia e loro promozione; priorità del lavoro in un mercato non di competizione, ma di mutuo vantaggio; affermazione di una vera libertà di educazione.

Se con giudizio maturo riteniamo che nessun programma politico rispetti tutti e singoli i suddetti beni umani, diamo la nostra preferenza a chi secondo coscienza riteniamo meno lontano da essi, considerati nel loro insieme e secondo la loro oggettiva gerarchia.

4. Raccomando ai sacerdoti e ai diaconi permanenti di rimanere completamente fuori dal pubblico dibattito partitico, come richiesto dalla natura stessa del ministero sacro e da precise norme canoniche.

5. Invochiamo infine con perseveranza e fede i santi patroni d’Italia Francesco e Caterina da Siena affinché, per loro intercessione, la nostra preghiera per il Paese trovi ascolto presso il Padre nostro che ‘ci libera dal male’.

Bologna, 16 febbraio 2013
+ Carlo Card. Caffarra
Arcivescovo





giovedì 21 febbraio 2013

Card. Comastri: dal Papa grande lezione in un mondo di persone arroccate sul potere


" Quando ho appreso la notizia delle inattese dimissioni del Santo Padre Benedetto XVI, ho provato il dolore intenso che si prova nel momento in cui si avverte che una persona cara sta uscendo improvvisamente dal nostro orizzonte. Tutti abbiamo un cuore e il cuore si affeziona alle persone, questo è evidente ed è giusto. Però, subito dopo, mi è sembrato di sentire una brezza soave che veniva da lontano e mi portava il profumo inconfondibile della paglia di Betlemme. Sì, il profumo dell’umiltà di Dio. Ho sentito nitidamente in questo momento le parole di Gesù, parole non invecchiate da 2000 anni di storia ma ancora vive nelle vene della Chiesa. Esse stupendamente ci dicono: imparate da me che sono mite e umile di cuore. Come mi è apparso bello e confortante scoprire che queste parole fresche e giovani uscivano dal gesto delle dimissioni di Benedetto XVI e davano a tutti una grande lezione!
In un mondo popolato da persone arroccate sul potere, incapaci di allentare la morsa dallo scettro, avide di salire e salire sempre di più, come è evangelico e controcorrente il gesto di colui che dice onestamente: perdonatemi non ho più le forze, Gesù chiami un altro al timone della Chiesa, io mi ritiro senza potere nel silenzio e nella preghiera. Il grande oratore francese, Jacques Bénigne Bossuet, sul finire del XVII secolo, amaramente esclamava: vi meravigliate se sembra che Dio si sia nascosto, vi meravigliate? Dio si trova a disagio in un mondo di orgogliosi, perché gli orgogliosi non possono capire il vocabolario dell’umiltà che Dio ha stampato a Betlemme.
Oggi, concludeva Bossuet, trovare una persona veramente umile è un fatto più unico che raro. Ebbene, noi l’abbiamo trovata. Noi possiamo dire che oggi una persona umile c’è. Una persona veramente umile e coraggiosamente umile è Benedetto XVI. Grazie, Papa Benedetto! Hai dato un colpo all’orgoglio di tutti! Il mondo è sorpreso, sì, la Chiesa è edificata, tutti siamo chiamati a tenerne conto e Dio dal cielo sorride perché un raggio della sua luce è riuscito a sciogliere la fitta nebbia della superbia umana.
E la Chiesa continua il suo cammino, sorretta dalla certezza che Gesù resta sempre al timone della barca, senza interruzione, e questo basta per renderci ottimisti.
Papa Benedetto è un uomo che ci ha insegnato a leggere la storia della Chiesa con il criterio della continuità. Alcuni volevano leggere il Concilio Vaticano II come una frattura. Giustamente Papa Benedetto ha detto: no, nella Chiesa non ci sono fratture, c’è una crescita, uno sviluppo, ma sempre nella continuità. Duemila anni di storia sono duemila anni di storia di una comunità che è viva e che è coerente con l’acqua che esce dalla sorgente, che esce da Gesù. Non solo. Papa Benedetto ci ha dato una visione molto spirituale del suo ruolo e del suo pontificato. Non ha fatto altro che richiamarci alla sorgente del Vangelo perché la Chiesa ringiovanisce, non prendendo spunto dalle mode del momento ma ritrovando la freschezza delle origini, ritrovando la fedeltà al Vangelo e quindi purificandosi, togliendo tutta la polvere che i secoli possono aver depositato sul suo volto. La giovinezza della Chiesa è togliere questa polvere e ritrovare il volto giovane della Pentecoste.
La grande bontà, la grande semplicità e anche la capacità di mettere a proprio agio. Ogni volta che mi sono trovato a parlare con il Papa io l’ho sentito veramente come un padre, come un padre buono, un padre desideroso di trasmettere agli altri il fuoco del Vangelo che ha nel cuore e credo che questo è un ricordo che porterò per sempre. 

(Card. Comastri)



mercoledì 20 febbraio 2013

La celebre controversia teologica tra San Bernardo di Chiaravalle e Abelardo nel XII secolo

Cari fratelli e sorelle,

nell’ultima catechesi ho presentato le caratteristiche principali della teologia monastica e della teologia scolastica del XII secolo, che potremmo chiamare, in un certo senso, rispettivamente "teologia del cuore" e "teologia della ragione".
Tra i rappresentanti dell’una e dell’altra corrente teologica si è sviluppato un dibattito ampio e a volte acceso, simbolicamente rappresentato dalla controversia tra san Bernardo di Chiaravalle ed Abelardo.

Per comprendere questo confronto tra i due grandi maestri, è bene ricordare che la teologia è la ricerca di una comprensione razionale, per quanto è possibile, dei misteri della Rivelazione cristiana, creduti per fede: fides quaerens intellectum – la fede cerca l’intellegibilità – per usare una definizione tradizionale, concisa ed efficace.

Ora, mentre san Bernardo, tipico rappresentante della teologia monastica, mette l’accento sulla prima parte della definizione, cioè sulla fides - la fede, Abelardo, che è uno scolastico, insiste sulla seconda parte, cioè sull’intellectus, sulla comprensione per mezzo della ragione.

Per Bernardo la fede stessa è dotata di un’intima certezza, fondata sulla testimonianza della Scrittura e sull’insegnamento dei Padri della Chiesa.
La fede inoltre viene rafforzata dalla testimonianza dei santi e dall’ispirazione dello Spirito Santo nell’anima dei singoli credenti. Nei casi di dubbio e di ambiguità, la fede viene protetta e illuminata dall’esercizio del Magistero ecclesiale. Così Bernardo fa fatica ad accordarsi con Abelardo, e più in generale con coloro che sottoponevano le verità della fede all’esame critico della ragione; un esame che comportava, a suo avviso, un grave pericolo, e cioè l’intellettualismo, la relativizzazione della verità, la messa in discussione delle stesse verità della fede. In tale modo di procedere Bernardo vedeva un’audacia spinta fino alla spregiudicatezza, frutto dell’orgoglio dell’intelligenza umana, che pretende di "catturare" il mistero di Dio. In una sua lettera, addolorato, scrive così: "L’ingegno umano si impadronisce di tutto, non lasciando più nulla alla fede. Affronta ciò che è al di sopra di sé, scruta ciò che gli è superiore, irrompe nel mondo di Dio, altera i misteri della fede, più che illuminarli; ciò che è chiuso e sigillato non lo apre, ma lo sradica, e ciò che non trova percorribile per sé, lo considera nulla, e rifiuta di credervi" (Epistola CLXXXVIII,1: PL 182, I, 353).

Per Bernardo la teologia ha un unico scopo: quello di promuovere l’esperienza viva e intima di Dio. La teologia è allora un aiuto per amare sempre di più e sempre meglio il Signore, come recita il titolo del trattato sul Dovere di amare Dio (De diligendo Deo). In questo cammino, ci sono diversi gradi, che Bernardo descrive approfonditamente, fino al culmine quando l’anima del credente si inebria nei vertici dell’amore.

L’anima umana può raggiungere già sulla terra questa unione mistica con il Verbo divino, unione che il Doctor Mellifluus descrive come "nozze spirituali". Il Verbo divino la visita, elimina le ultime resistenze, l’illumina, l’infiamma e la trasforma. In tale unione mistica, essa gode di una grande serenità e dolcezza, e canta al suo Sposo un inno di letizia. Come ho ricordato nella catechesi dedicata alla vita e alla dottrina di san Bernardo, la teologia per lui non può che nutrirsi della preghiera contemplativa, in altri termini dell’unione affettiva del cuore e della mente con Dio.

Abelardo, che tra l’altro è proprio colui che ha introdotto il termine "teologia" nel senso in cui lo intendiamo oggi, si pone invece in una prospettiva diversa.

Nato in Bretagna, in Francia, questo famoso maestro del XII secolo era dotato di un’intelligenza vivissima e la sua vocazione era lo studio. Si occupò dapprima di filosofia e poi applicò i risultati raggiunti in questa disciplina alla teologia, di cui fu maestro nella città più colta dell’epoca, Parigi, e successivamente nei monasteri in cui visse.
Era un oratore brillante: le sue lezioni venivano seguite da vere e proprie folle di studenti. Spirito religioso, ma personalità inquieta, la sua esistenza fu ricca di colpi di scena: contestò i suoi maestri, ebbe un figlio da una donna colta e intelligente, Eloisa.

Si pose spesso in polemica con i suoi colleghi teologi, subì anche condanne ecclesiastiche, pur morendo in piena comunione con la Chiesa, alla cui autorità si sottomise con spirito di fede. Proprio san Bernardo contribuì alla condanna di alcune dottrine di Abelardo nel sinodo provinciale di Sens del 1140, e sollecitò anche l’intervento del Papa Innocenzo II.

L’abate di Chiaravalle contestava, come abbiamo ricordato, il metodo troppo intellettualistico di Abelardo, che, ai suoi occhi, riduceva la fede a una semplice opinione sganciata dalla verità rivelata. Quelli di Bernardo non erano timori infondati ed erano condivisi, del resto, anche da altri grandi pensatori del tempo. Effettivamente, un uso eccessivo della filosofia rese pericolosamente fragile la dottrina trinitaria di Abelardo, e così la sua idea di Dio.
In campo morale il suo insegnamento non era privo di ambiguità: egli insisteva nel considerare l’intenzione del soggetto come l’unica fonte per descrivere la bontà o la malizia degli atti morali, trascurando così l’oggettivo significato e valore morale delle azioni: un soggettivismo pericoloso. È questo – come sappiamo - un aspetto molto attuale per la nostra epoca, nella quale la cultura appare spesso segnata da una crescente tendenza al relativismo etico: solo l’io decide cosa sia buono per me, in questo momento. Non bisogna dimenticare, comunque, anche i grandi meriti di Abelardo, che ebbe molti discepoli e contribuì decisamente allo sviluppo della teologia scolastica, destinata a esprimersi in modo più maturo e fecondo nel secolo successivo. Né vanno sottovalutate alcune sue intuizioni, come, ad esempio, quando afferma che nelle tradizioni religiose non cristiane c’è già una preparazione all’accoglienza di Cristo, Verbo divino.

Che cosa possiamo imparare, noi oggi, dal confronto, dai toni spesso accesi, tra Bernardo e Abelardo, e, in genere, tra la teologia monastica e quella scolastica?

Anzitutto credo che esso mostri l’utilità e la necessità di una sana discussione teologica nella Chiesa, soprattutto quando le questioni dibattute non sono state definite dal Magistero, il quale rimane, comunque, un punto di riferimento ineludibile.

San Bernardo, ma anche lo stesso Abelardo, ne riconobbero sempre senza esitazione l’autorità. Inoltre, le condanne che quest’ultimo subì ci ricordano che in campo teologico deve esserci un equilibrio tra quelli che possiamo chiamare i principi architettonici datici dalla Rivelazione e che conservano perciò sempre la prioritaria importanza, e quelli interpretativi suggeriti dalla filosofia, cioè dalla ragione, e che hanno una funzione importante ma solo strumentale.

Quando tale equilibrio tra l’architettura e gli strumenti di interpretazione viene meno, la riflessione teologica rischia di essere viziata da errori, ed è allora al Magistero che spetta l’esercizio di quel necessario servizio alla verità che gli è proprio.

Inoltre, occorre mettere in evidenza che, tra le motivazioni che indussero Bernardo a "schierarsi" contro Abelardo e a sollecitare l’intervento del Magistero, vi fu anche la preoccupazione di salvaguardare i credenti semplici ed umili, i quali vanno difesi quando rischiano di essere confusi o sviati da opinioni troppo personali e da argomentazioni teologiche spregiudicate, che potrebbero mettere a repentaglio la loro fede.

Vorrei ricordare, infine, che il confronto teologico tra Bernardo e Abelardo si concluse con una piena riconciliazione tra i due, grazie alla mediazione di un amico comune, l’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, del quale ho parlato in una delle catechesi precedenti.

Abelardo mostrò umiltà nel riconoscere i suoi errori, Bernardo usò grande benevolenza. In entrambi prevalse ciò che deve veramente stare a cuore quando nasce una controversia teologica, e cioè salvaguardare la fede della Chiesa e far trionfare la verità nella carità.

Che questa sia anche oggi l’attitudine con cui ci si confronta nella Chiesa, avendo sempre come meta la ricerca della verità.



martedì 19 febbraio 2013

La Messa è azione divina - Escrivà de Balaguer Josemaria


Non è strano che molti cristiani, posati e persino solenni nella vita di relazione (non hanno fretta), nelle loro poco attive attività professionali, a tavola, nel riposo (neanche in ciò hanno fretta), si sentano incalzati dalla fretta e incalzino il Sacerdote, nella loro ansia di abbreviare, di affrettare il tempo dedicato al Sacrificio Santissimo dell'Altare? (Cammino, 530)

Tutta la Trinità è presente nel sacrificio dell'altare. Per la volontà del Padre e con la cooperazione dello Spirito Santo, il Figlio si offre come vittima redentrice. Impariamo a rivolgerci alla Trinità Beatissima, Dio uno e trino: tre Persone divine nell'unità della loro sostanza, del loro amore, della loro efficace azione santificatrice.

Subito dopo il Lavabo il sacerdote pronuncia questa orazione: Accetta, o Trinità Santa, quest'offerta che ti presentiamo in memoria della Passione, Risurrezione ed Ascensione di nostro Signore Gesù Cristo. E al termine della Messa c'è un'altra orazione di fervente omaggio a Dio uno e trino: Placeat tibi, Sancta Trinitas, obsequium servitutis meae... ti sia gradito, Trinità Santa, l'ossequio del tuo servo: possa questo sacrificio, che io benché indegno ho offerto alla tua Maestà, esserti accetto, e per tua misericordia, attirare il tuo favore su di me e su tutti coloro per i quali l'ho offerto.

La Messa — ripeto — è azione divina, trinitaria, non umana. Il sacerdote che celebra, collabora al progetto del Signore, prestando il suo corpo e la sua voce; ma non agisce in nome proprio, bensì in persona et in nomine Christi, nella persona di Cristo e nel nome di Cristo.

L'amore della Trinità per gli uomini fa si che dalla presenza di Cristo nell'Eucaristia derivino tutte le grazie per la Chiesa e per l'umanità. Questo è il sacrificio predetto da Malachia: Dall'oriente all'occidente grande è il mio nome fra le genti, e in ogni luogo è offerto incenso al mio nome una oblazione pura.

È il sacrificio di Cristo, offerto al Padre con la cooperazione dello Spirito Santo: oblazione di valore infinito, che rende eterna in noi la Redenzione che i sacrifici dell'antica legge non hanno potuto realizzare.
(E' Gesù che passa, 86)




lunedì 18 febbraio 2013

ASTINENZA E DIGIUNO QUARESIMALI SECONDO LA CHIESA - Don Marcello Stanzione


Il Cristianesimo, diversamente da altre fedi, non classifica gli animali in leciti e proibiti. Come in altre religioni, tuttavia, conosce un periodo durante il quale il fedele deve osservare alcune norme alimentari. La costituzione dogmatica Sacrosanctum concilium promulgata il 4 dicembre 1963 al n. 110° invitava l’autorità religiosa a incoraggiare la penitenza quaresimale. Nella costituzione apostolica di Paolo VI Paenitemini del 17 febbraio 1966 e nella nota pastorale dell’episcopato italiano Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza del 4 ottobre 1994 (quest’ultima entrata in vigore la prima domenica di avvento del 1994) si trovano i più recenti interventi volti alla pratica della astinenza e del digiuno.

Esse concordano nel presentare il digiuno nella sua forma positiva e radicata in Dio: “Digiunare per Dio, non per se stessi” (Paenitemini); “Digiuno e astinenza non sono forme di disprezzo del corpo, ma strumenti per rinvigorire lo spirito, rendendolo capace di esaltare, nel sincero dono di sé, la stessa corporeità della persona” (Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza 13). La costituzione apostolica norma così l’uso del digiuno e dell’astinenza: “Perciò si dichiara e si stabilisce quanto segue: Per legge divina tutti i fedeli sono tenuti a far penitenza. Le prescrizioni della legge ecclesiastica, circa la penitenza, vengono totalmente riordinate secondo le seguenti norme. Il tempo di quaresima conserva il suo carattere penitenziale. 
I giorni di penitenza da osservarsi obbligatoriamente in tutta la Chiesa sono i singoli venerdì e il mercoledì delle Ceneri, ovvero il primo giorno della grande quaresima, secondo la diversità dei riti; la loro sostanziale osservanza obbliga gravemente. Salve le facoltà di cui ai nn. VI e VIII, circa il modo di ottemperare al precetto della penitenza in detti giorni, l’astinenza si osserverà in tutti i venerdì che non cadono in feste di precetto, mentre l’astinenza e il digiuno si osservano nel mercoledì delle Ceneri, o – secondo la diversità dei riti – nel primo giorno della grande quaresima, e nel venerdì della passione e morte del Signore”.

Il Codice di diritto canonico ribadisce che “si osservi l’astinenza dalle carni o da altro cibo, secondo le disposizioni della conferenza episcopale, in tutti e singoli i venerdì dell’anno, eccetto che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità; l’astinenza e il digiuno invece, il mercoledì delle Ceneri e il venerdì della passione e morte del Signore nostro Gesù Cristo”.

L’ASTINENZA dal latino “ab-teneo”, tengo lontano, evito, è il precetto secondo il quale è proibito mangiare carne i venerdì di quaresima (purché non coincidano con solennità come 25 marzo), mentre gli altri venerdì durante l’anno l’astinenza dalle carni può essere sostituita con opere di preghiera, carità o altre di natura penitenziale. Prima della nota pastorale del 1994 veniva consentito anche l’uso delle uova, dei latticini e di qualsiasi condimento, anche di grasso di animale. La nota pastorale dell’episcopato italiano introduce nel concetto di astinenza non solo la proibizione delle carni ma anche “dei cibi e delle bevande che, a un prudente giudizio, sono da considerarsi come particolarmente ricercati e costosi”. Prima della costituzione apostolica Paenitemini, la legge dell’astinenza riguardava la carne e il brodo di carne, cioè gli animali a sangue caldo: veniva proibita la loro carne e il loro grasso, il sangue, il cervello, il cuore, il fegato, gli intestini. Erano invece permesse carni di animali a sangue freddo: pesci, lumache, rane, tartarughe, gamberi.

IL DIGIUNO è l’astensione totale o parziale dal cibo, e obbliga il cristiano a fare un unico pasto nella giornata, ma non proibisce di prendere un po’ di cibo al mattino e alla sera.

IL CALENDARIO. Il canone 1251 fissa inoltre il calendario delle astinenze e dei digiuni: tutti i venerdì dell’anno (che non cadano in feste di precetto) il fedele deve astenersi dalla carne. Il mercoledì delle Ceneri e il venerdì santo sono gli unici due giorni di digiuno; per il rito ambrosiano il mercoledì delle Ceneri è sostituito dal primo venerdì di quaresima. Nei primi secoli dell’era cristiana, secondo un testo antico, la Didaché, i fedeli cristiani, diversamente dagli ebrei che praticavano il digiuno il secondo e il quinto giorno della settimana (cioè il lunedì e il giovedì), digiunavano il mercoledì e il venerdì. La scelta del quarto e sesto giorno della settimana, probabilmente, era dovuta anche al tentativo di differenziarsi dalla pratica degli ebrei, che rifiutavano il messaggio di Gesù. Successivamente essa fu giustificata dal ricordo del tradimento di Giuda (avvenuto il mercoledì) e la morte di Gesù (che cade il venerdì) come è possibile leggere nel canone XV sulla Pasqua di Pietro d’Alessandria (morto nel 311): “Non ci sarebbe rimproverato d’osservare i mercoledì e venerdì. Giorni ai quali la tradizione ci prescrive con ragione di digiunare: il mercoledì a causa del consiglio tenuto dagli ebrei in vista del tradimento del Signore; il venerdì a causa della sua passione per noi. Poiché la domenica noi festeggiamo un giorno di gioia a causa di colui che resuscita quel giorno, non pieghiamo più le ginocchia secondo la tradizione ricevuta”. 
Del resto (come per rafforzare questa presa di distanza dal mondo ebraico) il giovedì (soprattutto in ambienti monastici) è vietato il digiuno: mentre gli ebrei osservanti lo praticano, i cristiani lo impediscono in ricordo della festa dell’Ascensione di Gesù. 
E’ interessante ora ricordare che prima del 1966 erano considerati giorni di astinenza, oltre i venerdì, anche i sabati di quaresima, le vigilie di Pentecoste, dell’Immacolata concezione, del Natale. 
La scelta di questi due giorni naturalmente non è casuale. 
Il mercoledì delle Ceneri e il venerdì santo vogliono ricordare alla memoria del fedele due momenti decisivi della vita cristiana.

Don Marcello Stanzione

riscossacristiana.it


domenica 17 febbraio 2013

L’ultima straordinaria Lectio Divina del Santo Padre Benedetto XVI


Aula Paolo VI
Giovedì, 14 febbraio 2013

Eminenza, 

cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!


E’ per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E’ sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa  Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.
Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa” (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,15-16). 
Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.
Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. 
Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno.
Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.
Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse - non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.
Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.
Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”, dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro.
Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.
Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.
Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato - che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente - era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un vescovo protestante parlava del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I.
Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola - forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.
Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, “goim”, del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.
Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa.
Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza.
Qui, la battaglia - come ho detto - era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”, cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte.
Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol. I) - c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.
E, infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro.
La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”. Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.
Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.
Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi con “Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.
Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.
Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!















Come il Santo Padre ci ha indicato, preghiamo nel silenzio e con piena fiducia in Dio, per quest' "ora" presente della Chiesa, per i cardinali chiamati a scegliere il nuovo Pontefice, per il Papa Benedetto... OREMUS PRO PONTIFICE NOSTRO BENEDICTO!

sabato 16 febbraio 2013

Don Vincenzo Carone e Papa Benedetto XVI


Non voglio fare una catechesi come il solito, voglio fare a te una confessione, voglio dirti chi è stato per me Papa Benedetto.
Il suo insegnamento è stato per me un aiuto determinante per la mia fede nella Chiesa in questa nostra storia caratterizzata dalla confusione delle idee e dal tentativo delle forze laiche di vanificare il cristianesimo.
Il Papa mi ha fatto capire che Cristo, nonostante le resistenze è sempre presente nella Chiesa per cui questa Chiesa è la mia Chiesa e tale deve restare.
I media ci hanno sempre presentato una situazione squallida dei cristiani, il Papa mi ha fatto vedere che ci sono tante persone buone, tanti buoni sacerdoti, ci sono tanti che pregano, piangono e soffrono insieme con lui affinché il suo impegno perché la Chiesa superi la crisi della propria identità non venga vanificato.
Il Papa mi ha spiegato la parola di Dio non come professore di teologia, ma come il Padre di tutti i cristiani.
Ho sentito il suo insegnamento come un dovere da praticare, ha reso facile ed accessibile a tutti la pratica della parola di Dio e la fedeltà alla Chiesa.
Molte volte nei suoi discorsi e scritti ha fatto capire chiaramente, senza fare polemiche né giudizi contro chi falsifica la Parola, che l´insegnamento del Vangelo va accolto nella sua integrità.
Mi faceva vedere molti cristiani che accolgono con entusiasmo la parola di Dio, chiedono collettivamente la liberazione dai peccati, chiedono guarigioni strepitose, fanno tutto questo senza tener conto del Magistero della Chiesa che ha il compito di valutare l´opportunità di certe manifestazioni religiose che camminano a ruota libera senza nessun controllo e senza alcuna garanzia.
Ci sono altri invece che accolgono la parola di Dio, frequentano i Sacramenti assiduamente e nello stesso tempo trascurano il comandamento dell´amore al prossimo.
Non è possibile celebrare con gioia ed entusiasmo l´Eucarestia e poi ignorare i propri doveri verso le opere della giustizia e del sostegno dei diritti umani.
Bellissimo è il legame che il Papa fa della mia fede con la comunione ecclesiale. 
La fede è il Leitmotiv di tutto l´insegnamento di Papa Benedetto, i suoi discorsi e i suoi scritti che sono frutto di studi eccezionalmente vasti e approfonditi, non sono rimasti al livello dello studioso, sono diventati vita vissuta da lui e per me esempio da imitare.
Quanto più profondi sono i concetti tanto più semplice è la loro presentazione per cui era impossibile ascoltarlo senza che nel cuore vibrasse il dovere di realizzare l´insegnamento nella vita pratica. 
E questo perché è umile, e proprio perché umile ha potuto capire per se e per me le insondabili ricchezze di Cristo.
Il suo cuore umile ha visto Gesù presente nella Chiesa e nel mondo, in tutti quelli che lo ascoltavano infondeva la speranza. Il suo messaggi di speranza rimarrà nel mondo come forza per non lasciarsi andare, per credere che Cristo è presente in mezzo a noi e ci indica la strada per uscire dal materialismo e dal relativismo.
Proprio perché umile il Papa ha sentito il dovere di lasciare una responsabilità che non era più in grado di portare avanti. Il lavoro del Papa ha un ritmo stressante, ogni giorno deve fare discorsi che deve preparare perché non può dire la stessa cosa a tutti, ogni parola viene spietatamente analizzata e interpretata, è vero che ha chi lo aiuta, costoro però gli danno il materiale utile, il Papa lo tiene presente nel discorso che scrive, il discorso lo deve scriverlo lui.
Tante volte l´ho visto con un biglietto di appunti in mano, non aveva neanche il tempo di scrivere tutto.
Ogni giorno rimbalzavano sulla sua scrivania il problemi della Chiesa in tutto il mondo.
Ogni giorno il suo cuore viene ferito dalla infedeltà di coloro che dovrebbero essere un aiuto indispensabile per le comunità cristiane, tocca a lui dare delle soluzioni a tutti i problemi.
L´età avanzata e molto probabilmente anche la salute cagionevole non gli consentono di continuare questo ritmo di vita, se rimane in carica deve fare quello che fanno altri per lui. 
Quando ho sentito delle sua dimissioni, ho pianto e gli ho detto nel cuore: grazie, il tuo pontificato non è stato inutile per me.

Don Vincenzo