martedì 28 febbraio 2012

Quaresima 2012 - Messaggio dedl Santo Padre Benedetto XVI


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
PER LA QUARESIMA 2012
 

«Prestiamo attenzione gli uni agli altri,
per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone
» (Eb10,24)

 

Fratelli e sorelle,

la Quaresima ci offre ancora una volta l'opportunità di riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità. Infatti questo è un tempo propizio affinché, con l'aiuto della Parola di Dio e dei Sacramenti, rinnoviamo il nostro cammino di fede, sia personale che comunitario. E' un percorso segnato dalla preghiera e dalla condivisione, dal silenzio e dal digiuno, in attesa di vivere la gioia pasquale.

Quest’anno desidero proporre alcuni pensieri alla luce di un breve testo biblico tratto dalla Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24). E’ una frase inserita in una pericope dove lo scrittore sacro esorta a confidare in Gesù Cristo come sommo sacerdote, che ci ha ottenuto il perdono e l'accesso a Dio. Il frutto dell'accoglienza di Cristo è una vita dispiegata secondo le tre virtù teologali: si tratta di accostarsi al Signore «con cuore sincero nella pienezza della fede» (v. 22), di mantenere salda «la professione della nostra speranza» (v. 23) nell'attenzione costante ad esercitare insieme ai fratelli «la carità e le opere buone» (v. 24). Si afferma pure che per sostenere questa condotta evangelica è importante partecipare agli incontri liturgici e di preghiera della comunità, guardando alla meta escatologica: la comunione piena in Dio (v. 25). Mi soffermo sul versetto 24, che, in poche battute, offre un insegnamento prezioso e sempre attuale su tre aspetti della vita cristiana: l'attenzione all'altro, la reciprocità e la santità personale.

1. “Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.

Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

L’attenzione all’altro comporta desiderare per lui o per lei il bene, sotto tutti gli aspetti: fisico, morale e spirituale. La cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, mentre occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince, perché Dio è «buono e fa il bene» (Sal 119,68). Il bene è ciò che suscita, protegge e promuove la vita, la fraternità e la comunione. La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell'altro, desiderando che anch'egli si apra alla logica del bene; interessarsi al fratello vuol dire aprire gli occhi sulle sue necessità. La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di «anestesia spirituale» che rende ciechi alle sofferenze altrui. L’evangelista Luca riporta due parabole di Gesù in cui vengono indicati due esempi di questa situazione che può crearsi nel cuore dell’uomo. In quella del buon Samaritano, il sacerdote e il levita «passano oltre», con indifferenza, davanti all’uomo derubato e percosso dai briganti (cfr Lc 10,30-32), e in quella del ricco epulone, quest’uomo sazio di beni non si avvede della condizione del povero Lazzaro che muore di fame davanti alla sua porta (cfr Lc 16,19). In entrambi i casi abbiamo a che fare con il contrario del «prestare attenzione», del guardare con amore e compassione. Che cosa impedisce questo sguardo umano e amorevole verso il fratello? Sono spesso la ricchezza materiale e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni. Mai dobbiamo essere incapaci di «avere misericordia» verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero. Invece proprio l’umiltà di cuore e l'esperienza personale della sofferenza possono rivelarsi fonte di risveglio interiore alla compassione e all'empatia: «Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione» (Pr 29,7). Si comprende così la beatitudine di «coloro che sono nel pianto» (Mt 5,4), cioè di quanti sono in grado di uscire da se stessi per commuoversi del dolore altrui. L'incontro con l'altro e l'aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine.

Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo. Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna - elenchein - è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recrimina-zione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi.

2. “Gli uni agli altri”: il dono della reciprocità.

Tale «custodia» verso gli altri contrasta con una mentalità che, riducendo la vita alla sola dimensione terrena, non la considera in prospettiva escatologica e accetta qualsiasi scelta morale in nome della libertà individuale. Una società come quella attuale può diventare sorda sia alle sofferenze fisiche, sia alle esigenze spirituali e morali della vita. Non così deve essere nella comunità cristiana! L’apostolo Paolo invita a cercare ciò che porta «alla pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19), giovando al «prossimo nel bene, per edificarlo» (ibid. 15,2), senza cercare l'utile proprio «ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,33). Questa reciproca correzione ed esortazione, in spirito di umiltà e di carità, deve essere parte della vita della comunità cristiana.

I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia, vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò significa che l'altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza. Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione:la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale. Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, si verifica tale reciprocità: la comunità non cessa di fare penitenza e di invocare perdono per i peccati dei suoi figli, ma si rallegra anche di continuo e con giubilo per le testimonianze di virtù e di carità che in essa si dispiegano. «Le varie membra abbiano cura le une delle altre»(1 Cor 12,25), afferma San Paolo, perché siamo uno stesso corpo. La carità verso i fratelli, di cui è un’espressione l'elemosina - tipica pratica quaresimale insieme con la preghiera e il digiuno - si radica in questa comune appartenenza. Anche nella preoccupazione concreta verso i più poveri ogni cristiano può esprimere la sua partecipazione all'unico corpo che è la Chiesa. Attenzione agli altri nella reciprocità è anche riconoscere il bene che il Signore compie in essi e ringraziare con loro per i prodigi di grazia che il Dio buono e onnipotente continua a operare nei suoi figli. Quando un cristiano scorge nell'altro l'azione dello Spirito Santo, non può che gioirne e dare gloria al Padre celeste (cfr Mt 5,16).

3. “Per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone”: camminare insieme nella santità.

Questa espressione della Lettera agli Ebrei (10,24) ci spinge a considerare la chiamata universale alla santità, il cammino costante nella vita spirituale, ad aspirare ai carismi più grandi e a una carità sempre più alta e più feconda (cfr 1 Cor 12,31-13,13). L'attenzione reciproca ha come scopo il mutuo spronarsi ad un amore effettivo sempre maggiore, «come la luce dell'alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio» (Pr 4,18), in attesa di vivere il giorno senza tramonto in Dio. Il tempo che ci è dato nella nostra vita è prezioso per scoprire e compiere le opere di bene, nell’amore di Dio. Così la Chiesa stessa cresce e si sviluppa per giungere alla piena maturità di Cristo (cfr Ef 4,13). In tale prospettiva dinamica di crescita si situa la nostra esortazione a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell'amore e delle buone opere.

Purtroppo è sempre presente la tentazione della tiepidezza, del soffocare lo Spirito, del rifiuto di «trafficare i talenti» che ci sono donati per il bene nostro e altrui (cfr Mt 25,25s). Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale (cfr Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). I maestri spirituali ricordano che nella vita di fede chi non avanza retrocede. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l'invito sempre attuale a tendere alla «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001], n. 31). La sapienza della Chiesa nel riconoscere e proclamare la beatitudine e la santità di taluni cristiani esemplari, ha come scopo anche di suscitare il desiderio di imitarne le virtù. San Paolo esorta: «gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10).

Di fronte ad un mondo che esige dai cristiani una testimonianza rinnovata di amore e di fedeltà al Signore, tutti sentano l’urgenza di adoperarsi per gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere buone (cfr Eb 6,10). Questo richiamo è particolarmente forte nel tempo santo di preparazione alla Pasqua. Con l’augurio di una santa e feconda Quaresima, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 3 novembre 2011

BENEDICTUS PP. XVI


lunedì 27 febbraio 2012

Il matrimonio è l'unico luogo degno per generare figli - Papa Benedetto XVI

Al problema dell'infertilità occorre dare risposte rispettose della "dignità umana e cristiana della procreazione", che "non consiste in un "prodotto", ma nel suo legame con l'atto coniugale, espressione dell'amore dei coniugi".
Lo ha ricordato il Papa ai partecipanti alla diciottesima assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita, ricevuti in udienza sabato mattina, 25 febbraio, nella Sala Clementina. Esprimendo incoraggiamento per il lavoro svolto durante l'incontro - incentrato sul tema "Diagnosi e terapia dell'infertilità" - il Pontefice ha sottolineato la necessità di "considerare attentamente la dimensione morale" della questione, per rispondere al "desiderio non solo di donare un figlio alla coppia, ma di restituire agli sposi la loro fertilità e tutta la dignità di essere responsabili delle proprie scelte procreative".
In ogni caso, per Benedetto XVI va salvaguardata "l'umanità integrale dei soggetti coinvolti": l'unione di un uomo e una donna "in quella comunità di amore e di vita che è il matrimonio - ha puntualizzato al riguardo - costituisce l'unico "luogo" degno per la chiamata all'esistenza di un nuovo essere umano". Anche se l'infertilità non significa frustrazione della vocazione matrimoniale, le aspirazioni genitoriali di una coppia infertile sono da considerarsi certamente "legittime". E "devono pertanto trovare, con l'aiuto della scienza, una risposta che rispetti pienamente la loro dignità di persone e di sposi". Da qui il monito del Papa contro "lo "scientismo e la logica del profitto" che "sembrano oggi dominare il campo dell'infertilità e della procreazione umana, giungendo a limitare anche molte altre aree di ricerca".
La strada indicata dal Pontefice è quella di "una scienza intellettualmente onesta", consapevole dei propri limiti ma "affascinata dalla ricerca continua del bene dell'uomo". Una scienza che non ceda alla tentazione "di trattare il bene delle persone riducendolo a un mero problema tecnico": l'indifferenza nei confronti del vero e del bene, secondo il Papa, rappresenta infatti "una pericolosa minaccia per un autentico progresso scientifico".


Fonte:(©L'Osservatore Romano 26 febbraio 2012)

domenica 26 febbraio 2012

Quaranta giorni per crescere nell’amore di Dio e del prossimo


Cominciamo oggi i santi quaranta giorni di quaresima e conviene esaminare attentamente perché questa astinenza è osservata per quaranta giorni.
Mosé, per ricevere la Legge la seconda volta, ha digiunato quaranta giorni (Gen 34,28).
Elia, nel deserto, si è astenuto dal mangiare quaranta giorni (1Re 19,8).
Il Creatore stesso, venendo tra gli uomini, non ha preso alcun cibo per quaranta giorni (Mt 4,2).
Sforziamoci anche noi, per quanto possibile, di tenere a freno il nostro corpo con l’astinenza in questi santi quaranta giorni…, per divenire, secondo la parola di Paolo, «sacrificio vivente» (Rom 12,1).
L’uomo è offerta vivente e al tempo stesso immolata (cfr Ap 5,6) quando, pur non lasciando questa vita, fa morire però in sé i desideri mondani.
E’ soddisfare la carne che ci ha trascinato al peccato (Gen 3,6); la carne mortificata ci conduca al perdono. L’autore della morte, Adamo, ha trasgredito i precetti della vita mangiando il frutto proibito dell’albero. Bisogna dunque che noi, privati delle gioie del paradiso a causa del cibo, ci sforziamo di riconquistarle con l’astinenza.
Tuttavia nessuno creda che basti l’astinenza. Il Signore dice per bocca del profeta: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio? dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne» (Is 58,7-8).
Ecco il digiuno che Dio vuole…: digiuno attuato nell’amore del prossimo e impregnato di bontà.
Dà quindi agli altri ciò di cui ti privi; così la penitenza del tuo corpo gioverà al benessere del corpo del prossimo che ne ha bisogno.

(San Gregorio Magno)
 Omelia sul Vangelo

venerdì 24 febbraio 2012

Verso la Quaresima. Il vero digiuno – Card. Carlo Maria Martini

La Chiesa ci esorta all’inizio della Quaresima con le parole del profeta Isaia dicendoci che il vero digiuno, la genuina esperienza penitenziale consistono «nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua casa» (Is 58, 7).
Situazioni come quelle qui descritte non sono soltanto nel tempo di Isaia.
Non poche le vediamo anche tra noi. Altre esistono in maniera ben più grave e generalizzata nel Terzo Mondo. Nell’Enciclica Dives in Misericordia, il Beato Giovanni Paolo II parla di «gigantesco rimorso costituito dal fatto che accanto agli uomini nelle società agiate e sazie… non mancano nella stessa famiglia umana degli individui, dei gruppi sociali che soffrono la fame… E il loro numero raggiunge decine e centinaia di milioni». Ma accanto a questo bisogno, pur così macroscopico e colossale, quanti altri bisogni, vicini e lontani
, bussano alle nostre porte.
Non si tratta di esaurire soltanto la nostra attività in alcuni gesti concreti, si tratta anche qui di scavare nel profondo, di trovare quel luogo segreto nel quale le radici del nostro fare operoso, del dono di noi stessi e della nostra vita, dei nostri gesti di carità vengono irrorate dall’acqua della fede e dalla potenza della Parola di Dio.
All’uomo che rischia di dividersi in se stesso, di frazionarsi e di rompersi, dobbiamo offrire l’immagine di un uomo e di una comunità che vivano l’espressione orante della fede e il gesto generoso della carità come espressioni di un’unica realtà profonda: quella dell’uomo redento da Gesù Cristo, passato alla vita attraverso la morte per amore.
(Cardinale Carlo Maria Martini)

mercoledì 22 febbraio 2012

La mia speranza … speranza per gli altri – papa Benedetto XVI


“Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro,
mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l’altra.
Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo.
Nessuno viene salvato da solo.
Continuamente entra nella mia vita quella degli altri:
in ciò che penso, dico, faccio, opero.
E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri:
nel male come nel bene. Così
la mia intercessione per l’altro
non è affatto una cosa a lui estranea,
una cosa esterna, neppure dopo la morte.
Nell’intreccio dell’essere, il mio ringraziamento a lui,
la mia preghiera per lui può significare
una piccola tappa della sua purificazione.
E con ciò non c’è bisogno di convertire
il tempo terreno nel tempo di Dio:
nella comunione delle anime
viene superato il semplice tempo terreno.
Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell’altro
né è mai inutile.
Così si chiarisce ulteriormente un elemento importante
del concetto cristiano di speranza.
La nostra speranza è sempre essenzialmente
anche speranza per gli altri;
solo così essa è veramente speranza anche per me.
Da cristiani
non dovremmo mai domandarci solamente:
come posso salvare me stesso?
Dovremmo domandarci anche:
che cosa posso fare perché altri vengano salvati
e sorga anche per altri la stella della speranza?
Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale”

(papa Benedetto XVI)
Fonte: dall’Enciclica “Spe Salvi”,  n. 48)

domenica 19 febbraio 2012

Il diritto di essere se stessi – Jean Vanier


Una delle più grandi difficoltà della vita comunitaria è che si obbligano a volte le persone a essere diverse da quello che sono; si appiccica su di loro un ideale al quale devono conformarsi.  Se non arrivano a identificarsi all’immagine che si fa di loro,  temono di non essere amati o almeno di dare una delusione. Se ci arrivano, credono di essere perfetti. Ora, in una comunità, non si tratta di avere delle persone perfette. Una comunità è fatta di persone legate le une alle altre, ognuna fatta di quel miscuglio di bene e di male, di tenebre e di luce, di amore e di odio.E la comunità non è che la terra in cui ognuno può crescere senza paura verso la liberazione delle forme d’amore che sono nascoste in lui. Ma non ci può essere crescita che si riconosce che c’è possibilità di progresso, e dunque che c’è ancora in noi una quantità di cose da purificare, tenebre da trasformare in luce, paure da trasformare in fiducia.

Spesso, nella vita comunitaria, ci si aspetta troppo  dalle persone, e s’impedisce loro di riconoscersi e di accettarsi così come sono. Le si giudica molto presto, o le si classifica in categorie. Esse sono allora obbligare a nascondersi dietro una certa maschera. Ma loro hanno il diritto di essere brutte, e di avere un mucchio di tenebre dentro di sé, e angoli ancora induriti nel loro cuore in cui si nasconde la gelosia e perfino l’odio! Queste gelosie, queste insicurezze sono naturali; non sono “malattie vergognose”. Esse appartengono alla nostra natura ferita. E’ la nostra realtà. Bisogna impararle ad accettarle, a vivere con esse senza drammi, e a poco a poco, sapendosi  perdonati, a camminare  verso la liberazione.

Io vedo nelle comunità certe persone vivere una specie di colpevolezza inconscia; hanno l’impressione di non essere quello che dovrebbero essere. Hanno bisogno di essere confermate e incoraggiate alla fiducia. Hanno bisogno di sentire che possono condividere anche la loro debolezza senza essere respinte.

(Jean Vanier)

Fonte: La comunità luogo del perdono e della festa

mercoledì 15 febbraio 2012

omelia del Card. Angelo Scola per i 50° di fondazione della Parrocchia dei Santi Angeli Custodi di Milano

Arcidiocesi di Milano

Parrocchia dei Santi Angeli custodi


50° di fondazione

Domenica, 12 febbraio 2012
                                                                

Os 6,1-6; dal Salmo 50 (51); Gal 2,19 – 3,7; Lc 7,36-50



Omelia di S.E.R. Card. Angelo Scola,
Arcivescovo di Milano
 


1. «I tuoi peccati sono perdonati» (Vangelo, Lc 7,48). Il filo rosso che lega le tre Letture della Santa Messa di oggi è la parola “misericordia” (Domenica della divina clemenza): quale parola più adeguata di questa per celebrare il 50° di fondazione della vostra parrocchia? Tutti noi qui riuniti riconosciamo questo luogo (tempio di pietre vive) e questo tempo, che abbraccia ormai mezzo secolo, come frutto della Sua misericordia. Sono grato al parroco, ai sacerdoti e a voi tutti per questo invito a celebrare con voi in rendimento di grazie questa azione Eucaristica.

2. Il Signore, per bocca del profeta Osea, è costretto a constatare l’inconsistenza dell’amore del suo popolo, nonostante le assicurazioni di pentimento e le promesse di fedeltà: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (Prima Lettura, Os 6,4). Anche noi siamo forse incapaci di amore vero come il fariseo Simone. La domanda retorica di Osea è rivolta a noi questa sera: «Che dovrò fare per te, Efraim, che dovrò fare per te, Giuda?». Essa mostra il “conflitto”, caratteristico del pensiero di Osea, tra la volontà salvifica di Dio e la sua giustizia.

3. La risposta a questo “conflitto” divino si chiama misericordia. Gesù è il nome proprio della misericordia di Dio. Il brano del vangelo di Luca ne descrive magistralmente la dinamica, mettendo a confronto le due figure della donna peccatrice e del fariseo.

«… sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Vangelo, Lc 7,47): il perdono è in proporzione dell’amore, del pentimento mosso dall’amore.

Certo la donna aveva amato in un modo stravolto e peccaminoso, ma paradossalmente a questo suo amore impuro la grazia che è Gesù stesso che con la Sua persona, i Suoi gesti e le Sue parole spalanca la possibilità dell’amore vero. E questa grazia di Dio carica di clemenza, la muove al traboccante pentimento. «Un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi» (Salmo responsoriale, Sal 50 [51]).

Invece - come acutamente nota Gregorio Magno - «… il Fariseo veramente superbo e falsamente giusto accusa la malata della sua malattia e il medico per il soccorso che le porta, lui che era malato di superbia, e non lo sapeva» (Gregorio Magno, Om. 33,1-8). Quante volte non succede anche a noi di fare lo stesso, a cominciare da chi ci è prossimo?

4. L’insegnamento di Paolo nel brano della Lettera ai Galati può essere letto come una spiegazione del vangelo. Egli è un fariseo e peccatore a cui è stato perdonato. Ma Gesù l’ha convinto del suo peccato («Perché mi perseguiti?») e il suo zelo mal diretto è stato cambiato dalla grazia in divorante zelo missionario.

5. «Egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!”» (Vangelo, Lc 7,50). La donna cede alla Sua misericordia. Questo si chiama fede. La fede è, infatti, grazia e libertà: «E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Epistola, Gal 2,20).

In questo mondo pieno di chiacchiere abbiamo bisogno di qualcosa di solido: la fede è questo punto di forza. La fede che ci trasforma ogni giorno, attraverso la preghiera, soprattutto quella liturgica, e ci consente il vero culto: l’offerta della nostra vita. La fede che, sorretta dalla Parola di Dio, dalla catechesi, dal magistero del Papa e dei Vescovi diventa intelligenza della realtà. Ci rende “critici” verso la “cultura dominante” e ci consente di vivere il quotidiano (affetti, lavoro, riposo) in modo costruttivo.

6. Gli Angeli a cui vi siete affidati sono stati e continueranno ad essere potenti custodi della fede di questa vostra comunità.

Ho molto apprezzato i significativi Quaderni con cui avete voluto illustrare la storia di questi cinquant’anni ricordando i parroci, i sacerdoti, le vocazioni, la musica, la presenza del Vescovo, gli oratori. Tutto questo deve essere per il futuro. Il futuro della vostra comunità, ben inserita nel Decanato, ma anche della società civile di questa vostra Zona. Milano ha più che mai bisogno di cristiani consapevoli, capaci di proporre il loro stile di vita nella società plurale. Soprattutto in questo tempo di travaglio. Proprio oggi si celebra la XXXI Giornata diocesana della solidarietà.

La vostra comunità è stata particolarmente feconda di vocazioni di totale donazione a Cristo e alla Chiesa. Penso alle molte vocazioni matrimoniali e ai consacrati. Il Servo di Dio Marcello Candia ne è la figura più famosa. Imitiamone la santità. Di testimoni hanno soprattutto bisogno oggi i nostri fratelli uomini.

«… Egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (Vangelo, Lc 7,50). Questo tenero congedo Gesù rivolge questa sera ad ognuno di noi e a tutta la comunità. Amen.

Fonte: http://angeloscola.it/2012/02/12/da-50-anni-%e2%80%9ctempio-di-pietre-vive%e2%80%9d/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=da-50-anni-%25e2%2580%259ctempio-di-pietre-vive%25e2%2580%259d

L'ignoranza ha preso il microfono - ultime dal Festival di Sanremo


«Quando l’ignoranza prende il microfono per diffondere il suo messaggio è doveroso replicare, seppur con serenità e rispetto delle persone, per amore della verità. Ieri sera, in apertura del Festival di Sanremo i giudizi di Adriano Celentano su due testate cattoliche nazionali da lui accusate di ipocrisia, di parlare di politica e non di Dio, sono stati la prova di un vuoto che è anche dentro di l...ui. Vuoto di conoscenza di ciò che le testate cattoliche professionalmente sono e vuoto di conoscenza del servizio che esse svolgono per la crescita umana, culturale e spirituale della società tutta. Un vuoto voluto, e quindi ancor più triste, perché a tutti è possibile conoscere e comprendere il ruolo laico dei media cattolici nel nostro Paese. È dunque più l’amarezza che il disappunto a prendere il sopravvento dopo quanto accaduto ieri sera sul palco di un teatro che, è bene ricordarlo, non è la realtà del vivere quotidiano. Ma il giorno dopo c’è, forse, da attendersi che a parole insensate, cioè impensate, seguano parole pensate e di scusa. Anche senza microfono». (dal Sir, agenzia di stampa della Conferenza episcopale italiana)
 
 Noi aggiungiamo che nessuno può presentarsi in Tv e, approfittando dell'evento internazionale e del forte audience, fare sfoggio di anticlericalismo della peggior specie e arrogarsi la presunzione di insegnare alla Chiesa come annunciare il Vangelo. Davvero questo no. A Celentano dà fastidio che i giornali cattolici, oltre che di Cristo, osino parlare di cultura, storia, scienza, attualità, politica. E gli dà talmente fastidio che, dinanzi a decine di milioni di spettatori in tutta Europa, invoca la chiusura dei giornali cattolici, bollandoli come "inutili e ipocriti". Ebbene noi gli ricordiamo che compito della Chiesa è annunciare Cristo in ogni dimensione della società, perché non è possibile disgiungere la coscienza dalla pratica. E lo facciamo con le parole del Beato Giovanni Paolo II, un grido di insurrezione contro la pretesa di Celentano, e di chiunque, voglia imbavagliare il Cattolicesimo, confinandolo solo all'intimo della coscienza: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo, alla sua salvatrice potestà! Aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo!».

fonte: https://www.facebook.com/#!/PapaGiovanniPaoloII

domenica 12 febbraio 2012

Gesù nostro contemporaneo – Card. Angelo Scola – Spunti dal libro di Papa Benedetto XIV Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione.

Gesù nostro contemporaneo
Comitato per il progetto culturale della CEI

 Gesù di Nazaret. Discussione a partire del libro

Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione.
di J. Ratzinger / Benedetto XVI

 Roma, 9 febbraio 2012

Card. Angelo Scola
Arcivescovo di Milano

 1. È risorto!
 
Se vuol essere esauriente, qualsiasi riflessione o dialogo su Gesù di Nazaret non può evitare la sconvolgente “pretesa” dell’annuncio della Sua risurrezione. Dalla mattina di Pasqua, infatti, una catena ininterrotta di testimoni ha consegnato alla storia l’annuncio di Gesù Risorto, primizia della risurrezione dai morti. Tutto il cristianesimo sta o cade sulla verità di tale pretesa e sulla decisione rispetto ad essa. Infatti annunciare Gesù Risorto è annunciare Gesù come contemporaneo, cioè,  affermare la possibilità di incontrarLo e di seguirLo qui ed ora. In una parola, di essere da Lui salvati oggi. Lo aveva già visto Sören Kierkegaard quando scrisse:
«l’unico rapporto etico che si può avere con la grandezza (così anche con Cristo) è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette di ammirarlo… e mi lascia anche vivere in tutt’altre categorie: non mi costringe a giudicare in senso definitivo»[1].

È evidente, allora, che sulla risurrezione si gioca l’esperienza credente di ogni cristiano. Questo spiega perché sia la proposta metodologica, sia lo sviluppo dei contenuti dell’opera che Joseph Ratzinger-Benedetto XVI dedica a Gesù di Nazaret trovino il loro adeguato orizzonte nella considerazione della risurrezione del Signore. Il capitolo 9 del secondo volume – La risurrezione di Gesù dalla morte – con le sue ProspettiveÈ salito al cielo. Siede alla destra di Dio Padre e di nuovo verrà nella gloria – rappresenta il fulcro della ricerca ratzingeriana e, nello stesso tempo, il fattore decisivo per cogliere la contemporaneità dell’evento Gesù Cristo all’uomo di ogni tempo e luogo.

Rispetto all’annuncio di “Gesù nostro contemporaneo” - per dirla col titolo di questo evento internazionale promosso dal Comitato per il Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Italiana - noi ci troviamo allo stesso crocevia in cui si trovarono gli apostoli. La morte in croce di Gesù, infatti, provocò lo scandalo nei Suoi. E non poteva non provocarlo, poiché nessuno aveva mai parlato di un Messia crocefisso: «In un primo momento, la fine di Gesù sulla croce era stata semplicemente un fatto irrazionale, che metteva in questione tutto il suo annuncio e l’intera sua figura»[2]. Per noi oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, è consuetudine riferirci al Carme del servo sofferente di Isaia (Is 53) o ai Salmi “della Passione” come ad anticipazioni o prefigurazioni della morte del Messia. Ma l’enigmatica figura del servo sofferente non era mai stata concepita come messianica. Non era infatti una figura regale. E come c’entravano, almeno a prima vista, i lamenti del salmista nei Salmi 22 o 69 col Messia figlio di Davide?

Si impone, a questo punto, una domanda: come sono arrivati i discepoli a cogliere nel Crocifisso il compimento delle promesse messianiche? Come si spiega che quei primi, sconvolti dalla croce nonostante tre anni di convivenza con il loro “rabbi”, abbiano cominciato a cogliere nelle Scritture l’annuncio di quanto si sarebbe effettivamente adempiuto nella singolare vicenda di Gesù? Come mai Pietro ha potuto concludere il suo discorso la mattina di Pentecoste affermando: «Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36)?

È stato un avvenimento clamoroso e del tutto sorprendente, la risurrezione di Gesù, del Crocifisso apparso a loro vivo - proprio Lui, come indica il sepolcro vuoto -, a condurre la loro ragione a “capire” ciò che era già contenuto nelle Scritture: «Non sono state le parole della Scrittura a suscitare il racconto dei fatti, ma i fatti in un primo tempo incomprensibili hanno condotto ad una nuova comprensione della Scrittura»[3]. Infatti «“la fede cristiana tiene o si perde a seconda che si creda o no alla risurrezione del Signore”, la quale è un “evento”, non un’idea. L’idea non può produrre eventi. Viceversa un evento, oltre che produrre altri eventi, può produrre una rete interminabile di idee»[4].

La stessa dinamica - e in questo si vede la genialità metodologica della proposta del Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger – è rintracciabile in ogni istante della storia del cristianesimo. Infatti, scrive il nostro autore: «Il processo del divenire credenti si sviluppa in modo analogo a quanto è avvenuto nei confronti della croce. Nessuno aveva pensato ad un Messia crocifisso. Ora il “fatto” era lì, e in base a tale fatto occorreva leggere la Scrittura in modo nuovo… La nuova lettura della Scrittura, ovviamente, poteva cominciare soltanto dopo la risurrezione, perché solo in virtù di essa Gesù era stato accreditato come inviato di Dio»[5].

Quali sono le implicazioni della proposta ratzingeriana per un’adeguata lettura dei Vangeli che conduca il fedele al riconoscimento della contemporaneità di Gesù?

2. Il Gesù reale e la comunità confessante

L’autore parte dalla preoccupazione esplicita di «presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il “Gesù storico” in senso vero e proprio. Io sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. Io ritengo che proprio questo Gesù - quello dei Vangeli - sia una figura storicamente sensata e convincente»[6]. È proprio questa «figura storicamente sensata e convincente», rintracciata da Joseph Ratzinger nei Vangeli, che riconosciamo come a noi  contemporanea. A questa condizione è ragionevole seguirLo, qui ed ora.

Ratzinger intende in tal modo esplicitare la struttura propria dell’annuncio evangelico. Potremmo anche dire: la struttura essenziale della cristologia, così come essa è espressa negli stessi Vangeli, che mette immediatamente in campo il rapporto fede-storia.

Per illustrare adeguatamente questa affermazione, è utile far ricorso alla figura geometrica dell’ellisse. Sono i due fuochi che, nella loro reciprocità, danno forma all’ellisse. La testimonianza evangelica rivela una reciprocità tra due fuochi: il Gesù reale (contenuto della testimonianza) e la comunità apostolica confessante (forma della testimonianza). Ha quindi una struttura ellittica. Si parla di reciprocità perché, se sono gli occhi della fede del soggetto ecclesiale (secondo fuoco) a permettere l’accesso alla conoscenza del Verbo di Dio incarnato, il Gesù reale (primo fuoco), è quest’ultimo (primo fuoco) che continuamente plasma il soggetto che testimonia (secondo fuoco).

a) La critica illuminista

Come sappiamo fino al 1700 l’assunzione di questa struttura ellittica dell’annuncio evangelico è stata pacifica: si è spontaneamente accettata la corrispondenza tra contenuto testimoniato (Gesù reale) e fede testimoniale (comunità apostolica confessante).

Tuttavia, dalle origini della critica storica in ambito illuminista, questa convinzione è stata messa in crisi al punto che, col tempo, si è giunti fino ad affermare la tesi opposta: l’impossibilità di accedere al Gesù reale attraverso la comunità apostolica confessante, cioè attraverso la forma testimoniale della fede[7]. È paradigmatico in proposito il punto di partenza metodologico di un eminente esegeta, il cattolico americano John P. Meier. Nella sua opera in quattro volumi, A marginal Jew[8]: «Il “Gesù reale” (...) nel senso usato (...) di una ragionevole testimonianza completa di parole e azione pubbliche, è sconosciuto e non conoscibile. Il lettore che volesse conoscere il Gesù reale dovrebbe chiudere questo libro immediatamente, poiché il Gesù storico non è il Gesù reale, né la facile via che a lui conduce. Il Gesù reale non è accessibile e non lo sarà mai. Questo è vero non perché Gesù non sia esistito - certamente è esistito -, ma piuttosto perché le fonti rimaste non hanno mai avuto l’intenzione di registrare tutto o la maggior parte delle parole e delle azioni del suo ministero pubblico - per non parlare del resto della sua vita -»[9]. Secondo Meier, noi non possiamo, dunque, conoscere il “Gesù reale”, possiamo invece, conoscere il “Gesù storico”. Chi è questo Gesù storico? «Per “Gesù della storia” intendo il Gesù che possiamo “recuperare” ed esaminare usando gli strumenti scientifici della moderna ricerca storica (...) Per sua natura, questa ricerca può ricostruire solo frammenti di un mosaico, il pallido profilo di un affresco sbiadito che consente molte interpretazioni (…) Il Gesù storico può darci frammenti della persona “reale”, ma niente di più»[10].

È ragionevole domandarci: dove porta l’affermazione dell’impossibilità di arrivare al Gesù reale attraverso la testimonianza della comunità apostolica confessante così come ci è attestata dai Vangeli? Essa conduce inesorabilmente alla negazione della capacità della comunità testimoniante di “conoscere” Gesù di Nazaret e, a fortiori, impedisce di relazionarsi a Lui come a noi contemporaneo[11].

In altri termini: la separazione tra “ciò che riesco a conoscere su Gesù tramite lo studio e il ragionamento” e “ciò che sostengo tramite la fede”, lascia veramente spazio alla fede adeguatamente intesa? Se le certezze sul Gesù vissuto nella Palestina del primo secolo sono affidate solo all’analisi storico-critica, a cosa serve la fede? Ratzinger rileva il pericolo di una simile separazione tra conoscenza storica e fede: «Come risultato comune di tutti questi tentativi [si riferisce alle ricostruzioni del Gesù storico realizzate dalla ricerca scientifica soprattutto a partire dagli anni Cinquanta] è rimasta l’impressione che, comunque, sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo in seguito la fede nella sua divinità abbia plasmato la sua immagine. Questa impressione, nel frattempo, è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto»[12].

b) Come uscire dall’impasse

È possibile offrire una critica adeguata all’assolutizzazione del pur necessario metodo storico-critico che sembra imporre il divieto di accedere al Gesù reale attraverso la comunità apostolica confessante? Ci sono a mio avviso due strade, necessarie e complementari, per mostrare l’insufficienza di questa assolutizzazione.

La prima di esse poggia sulla considerazione del “testo” in quanto tale[13]. Un certo uso del metodo storico-critico, infatti, prescinde da quanto hanno messo in evidenza autori come Gadamer, parlando della Wirkungsgeschichte (storia dell’efficacia) del testo. Lo spazio che si apre tra il testo e il lettore non è vuoto, ma carico degli effetti esercitati lungo il tempo dal testo stesso[14]. Questo dato non è estraneo né al testo né al lettore contemporaneo del testo. Inoltre le scienze linguistiche si sono soffermate sulla distinzione tra il linguaggio informativo e il linguaggio performativo (che propone enunciati nuovi in dialogo con gli ascoltatori e i lettori)[15]. Di questa natura sarebbero le confessioni di fede cristiane[16].

Questi rilievi, se riferiti ai Vangeli, già di per sé consentono di riconoscere che è stata la confessione di Gesù da parte della comunità apostolica (forma testimoniante) «a fondare il racconto della sua [di Gesù] storia, mentre chi non ha creduto in lui non ha neppure sentito la necessità di raccontare la sua storia»[17]. Nel caso di Gesù fede e storia sono inseparabilmente intrecciate. Non si comprende, allora, su quale base critica si possa escludere l’apporto della fede per la conoscenza della storia del Galileo. Non è possibile rinunciare alla struttura ellittica della cristologia prescindendo dall’uno o dall’altro dei due fuochi (contenuto della testimonianza- forma testimoniale, ovvero Gesù reale – comunità apostolica confessante): è stata infatti la comunità confessante dei testimoni a raccontare la storia di Gesù, a rendere conto del contenuto della testimonianza, il Gesù reale.

La seconda strada, ancor più radicale, per mostrare l’inadeguatezza dell’assolutizzazione del metodo storico-critico, ci porta a riconoscere che l’inseparabile intreccio tra fede e storia si evince anche dalle più avvedute riflessioni sulla natura della storia. Se dobbiamo pensare ad un qualche senso della storia, non possiamo ridurla ad una somma di fatti bruti tra loro giustapposti. Se la storia ha un senso è perché, in un certo modo, in essa si attua il destino dell’uomo. La storia è res gestae, cioè espressione di azioni significanti. Questo dato emerge con chiarezza dalla considerazione dell’intenzione generativa dei testi che raccontano la storia. Questi, infatti, non consentono di essere spogliati da tale intenzione da parte di una pretesa oggettività storica, sotto pena di rimanere in totale balìa della ricerca soggettiva. Va indubbiamente riconosciuta l’esistenza di uno scarto tra l’analisi critica di un testo e l’intenzione generativa del medesimo, tuttavia questo scarto sta a garantire l’originalità dell’intenzione fondativa del testo, impedendo al lettore o allo scienziato di appropriarsene come se fosse un suo prodotto. L’intenzione, sempre soggiacente al racconto storico, è la solida manifestazione di come le circostanze e i rapporti che fanno la storia orientino la libertà a prendere posizione, a decidere. Proprio per questa ragione, la storia e il testo che la racconta chiedono adesione, la fede, non la pura credenza, ma la fede come dimensione “critica” della ragione[18].

Nel caso dell’evento di Gesù Cristo risorto, evento che incomincia nella storia (attraverso il Suo darsi a vedere) ma si proietta escatologicamente nel “nuovo eone”, la libertà interpellata è quella testimoniante del credente. La testimonianza evangelica della comunità apostolica confessante ha come intenzione profonda quella di offrirci l’accesso alla verità di Gesù, al Gesù reale. Così sia il Gesù reale (contenuto delle fede) che la comunità apostolica confessante (forma testimoniale) hanno una qualità storica, non si trovano oltre e fuori della storia, in modo che per fare storia si debba eliminare la figura ellittica della cristologia. In questo modo nell’incontro con la comunità ecclesiale confessante, l’uomo può decidere per la verità del Gesù reale, proprio perché essa si offre storicamente alla sua libertà[19]. Questa è l’intenzione dei Vangeli: permettere, a partire dai testimoni, di arrivare al Testimone fedele (cf. Ap 1,5) perché la libertà possa prendere posizione su di Lui[20].

c) L’accesso al Gesù reale

La struttura propria dell’annuncio trasmesso dai Vangeli, impone ad un’ermeneutica autenticamente critica di mantenere salda l’ellissi nei suoi due fuochi: il contenuto della testimonianza (il Gesù reale) e l’attestarsi nella Scrittura della forma testimoniante ad opera della comunità apostolica.

Questa struttura rispetta la genesi storica della Sacra Scrittura: essa è l’attestarsi del rapporto che la comunità confessante ha con il Testimone fedele (cf. Ap 1,5). La comunità cristiana, soggetto vitale, di cui gli apostoli, radunati intorno al Sì immacolato di Maria[21], sono il nucleo costitutivo, in forza della risurrezione, è diventata testimone di quanto è accaduto: i discepoli hanno trasmesso ciò che hanno vissuto,  ciò che essi «hanno udito, quello che hanno veduto con i loro occhi, quello che hanno contemplato e che le loro mani toccarono del Verbo della vita» (cf. 1Gv 1,1). La Scrittura pertanto non può essere letta e compresa al margine del soggetto vivo che l’ha generata come forma normativa (ispirata e canonica) di testimonianza. Afferma in proposito Ratzinger: «Il popolo di Dio – la Chiesa – è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della Bibbia sono sempre presenza»[22].

Una lettura equilibrata della Scrittura che la mantenga organicamente correlata ai diversi significati analogici della Parola di Dio - il Verbo eterno, la persona di Gesù Cristo, la predicazione degli Apostoli, la Parola trasmessa dalla Tradizione viva della Chiesa e quella attestata e divinamente ispirata che è la Sacra Scrittura, Antico e Nuovo Testamento[23] - consente l’accesso alla persona storica di Gesù Cristo, alla Sua predicazione e alle Sue azioni, alla Sua morte e risurrezione, alle Sue apparizioni e al Suo ingresso nell’eone definitivo. Permette, cioè, di avere accesso al Gesù reale.

Una corretta ermeneutica, pertanto, deve accettare che proprio il carattere storico della rivelazione, attestato dalla Scrittura, richieda di non squalificare la forma testimoniale della comunità confessante, ma di valorizzarla al massimo. La dimensione teologica dell’ermeneutica consente una realistica assunzione della forma testimoniante, cioè di uno dei due ineliminabili poli dell’ellisse. Scopo ultimo dell’ermeneutica non potrà essere quello di ridurre il fuoco della comunità apostolica confessante (forma testimoniale) a ricerca della “nuda verità storica”, al fine di verificare cosa può resistere del primo fuoco, il Gesù reale (il contenuto della testimonianza). Anche se questo lavoro ha una sua utilità, esso dovrà inserirsi nell’orizzonte compiuto della comunità apostolica confessante che, per poter accedere al contenuto testimoniato, il Gesù reale, necessita di fede e ricerca storico-critica.

Se non è possibile prescindere dalla comunità apostolica confessante (forma testimoniale), sarà però anche necessario verificare le condizioni di affidabilità di tale forma. E questo proprio in ordine alla possibilità di raggiungere il Gesù Cristo reale (contenuto della testimonianza). In quest’ottica ermeneutica, compiuta ed unitaria, la dimensione storico-critica del metodo risulta decisiva, qualora non si presuma l’impossibile, cioè, l’obliterazione della “fede testimoniante” per il timore che comprometta la scientificità dell’ermeneutica stessa. La dimensione storico-critica è resa necessaria dalla condizione storica del contenuto della testimonianza. A rivelare Dio è l’umanità singolare di Gesù di Nazaret con la sua storia. Tale singolarità storica di Gesù ha un valore universale proprio perché si tratta dell’umanità del Figlio unico di Dio. L’aspetto storico-critico e quello teologico-spirituale sono distinguibili, ma inseparabilmente correlati. In questo contesto appare la fecondità degli apporti della Terza Ricerca, in particolare di quelli che indagano l’ebraicità di Gesù.

L’ermeneutica adeguata alla Scrittura si dà solo se vengono assunti integralmente i due fuochi dell’ellisse propri dell’annuncio evangelico.

La dinamica descritta ridona alla categoria di testimonianza il suo ruolo primario. L’annuncio evangelico incontra, in ogni tempo e luogo, l’esperienza di una persona tramite il testimone e la sua testimonianza. Prende da qui avvio l’avventura dell’interpretazione o verifica, in cui tutti i fattori in gioco vengono valorizzati: la qualità dell’esperienza del testimone, il contenuto della testimonianza, l’apertura della ragione di chi la dona e di chi la riceve, come la loro moralità o responsabilità. Si capisce allora che anche l’akribeia dell’esegeta non si giochi soltanto nella sua padronanza dei metodi di critica letteraria, ma nella sua responsabilità morale di fronte a quella testimonianza che ha raggiunto la sua esperienza.

3. Due implicazioni culturali della contemporaneità di Gesù

Alla luce della proposta del Gesù di Nazaret di Ratzinger vorrei mettere brevemente in evidenza due implicazioni “culturali”.

La prima può essere così formulata: l’ermeneutica biblica proposta da Joseph Ratzinger nel Gesù di Nazaret rappresenta una perspicua documentazione dell’incessante richiamo del Papa ad allargare la ragione per rispettarne tutta l’ampiezza. Infatti, riconoscere la necessità di attenersi all’intima connessione del “contenuto della testimonianza” (il Gesù reale) con la “forma testimoniale” (la comunità apostolica confessante) significa mettere in valore l’ “istanza critica” della ragione. Questo, come abbiamo visto, è congruo con la natura stessa della storia che mai può eludere l’appello della libertà.

La ragione, infatti, è chiamata ad essere aperta al contenuto trasmesso dalla testimonianza, senza pre-giudicarne la possibilità. L’annuncio evangelico favorisce questa apertura quando narra l’ingresso del Mistero nella storia. Invece l’ipotesi della Rivelazione costituisce spesso uno scandalo per la ragione moderna. Ne dà prova lo stesso Ratzinger a proposito delle testimonianze sulla Risurrezione: «Ma può veramente essere stato così? Possiamo noi -soprattutto in quanto persone moderne- dar credito a testimonianze del genere? Il pensiero ‘illuminato’ dice di no (…) Nelle testimonianze sulla resurrezione, certo, si parla di qualcosa che non rientra nel mondo della nostra esperienza (…) Ci viene detto piuttosto: esiste un’ulteriore dimensione rispetto a quelle che finora conosciamo. Ciò sta forse in contrasto con la scienza? Può veramente esserci solo ciò che è esistito da sempre? Non può esserci la cosa inaspettata, inimmaginabile, la cosa nuova?»[24]. Il cristianesimo annuncia proprio questo novum. Ed è proprio qui che si salva il principio di analogia nella sua verità radicale: col novum cristiano un evento è entrato nella storia: «Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo / Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato»[25].  Un evento passato anticipa l’evento presente e questo sempre ripropone l’evento passato. Ed il novum dell’avvenimento inaspettato che si fa presente allarga la ragione: la realtà è più grande di quanto io potessi immaginare. È ragionevole supporre che il Mistero che fa tutto il reale possa irrompere nella mia storia presente come fece, nel passato, in quella di Maria e Giuseppe, dei pastori, dei Magi e di coloro che seguirono Gesù.

La seconda implicazione culturale si rifà alla qualità propria della storia e, in questo caso, della storia di Gesù. La storia chiede decisione, chiede libertà. Emerge con forza il celebre imperativo di Kierkegaard nel suo Diario: «la verità è che è stato completamente dimenticato l’imperativo cristiano: tu devi. Che il cristianesimo ti è stato annunciato significa che tu devi prendere posizione di fronte a Cristo. Egli, o il fatto che Egli esiste, o il fatto che sia esistito è la decisione di tutta la esistenza»[26]. Non c’è storia che possa prescindere dalla decisione del singolo uomo, né uomo che possa pretendere di decidere al posto di un altro. Ogni censura fatta alla storia, è condannata a fallire, proprio perché è una sorta di attentato oggettivo contro la libertà.

4. Oggi come ad Emmaus

Il cammino che porta oggi alla confessione di fede nel Risorto, abbiamo affermato all’inizio, è lo stesso che dovettero percorrere i primi. L’episodio di Emmaus ne descrive paradigmaticamente la dinamica. Come chiarisce Ratzinger-Benedetto XVI: «Il racconto circa i discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35) descrive il cammino fatto insieme, la conversazione nella comune ricerca, come un processo in cui il buio delle anime pian piano si rischiara grazie all’accompagnamento di Gesù (cfr v. 15). Si rende evidente che Mosè e i Profeti, che “tutte le Scritture” avevano parlato degli eventi di questa passione (cfr. v. 26s): l’ “assurdità” si rivela ora nel suo profondo significato. Nell’avvenimento apparentemente privo di senso si è in realtà schiuso il vero senso del cammino umano; il senso ha riportato la vittoria sulla potenza della distruzione e del male»[27].

Un avvenimento che non si poteva prevedere illumina tutte le Scritture. I due discepoli lo riconoscono. Sperimentano una sorprendente corrispondenza tra il rimprovero di Gesù e la loro ragione (per l’antropologia ebraica il “cuore”): «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). Tutte le cose cui Gesù faceva riferimento erano già presenti nelle Scritture, ma essi non se ne erano resi conto. Infatti, Gesù “denuncia” la loro incapacità di ragionare: «Sciocchi e tardi di cuore [lenti nel ragionare] nel credere alla parola dei profeti!» (Lc 24,25).

L’episodio di Emmaus ci inoltra nel cammino della fede, e previene il rischio, sempre incombente, di una riduzione intellettualistica dell’interpretazione. È il gesto “sacramentale” di Gesù, lo spezzare il pane, quello che apre gli occhi ai discepoli che possono così riconoscerlo (cf. Lc 24,31). Oggi, come allora, la testimonianza della risurrezione di Gesù ci raggiunge in “gesti e parole intrinsecamente unite”. Per la potenza dello Spirito, a noi oggi accade di fare la stessa esperienza dei due di Emmaus, attraverso parole vere e gesti sacramentali che in modo efficace realizzano quello che significano[28].

Per questo l’Eucaristia - che non si dice in modo compiuto se non si arriva ad affermare la sua res, cioè, l’unità del popolo di Dio, della Chiesa - è il luogo proprio dell’interpretazione delle Scritture, cioè, dell’accesso al Gesù reale[29]. Nell’Eucaristia il Risorto si rende contemporaneo alla libertà di ogni uomo e lo urge a dar “forma eucaristica” a tutta la sua esistenza.

La contemporaneità eucaristica del Risorto all’umana libertà, assicurata sacramentalmente per l’opera dello Spirito, è espressione della novità della risurrezione, da non confondere mai con la mera sopravvivenza. Infatti, come afferma Ratzinger-Benedetto XVI, «potremmo considerare la risurrezione quasi come una specie di radicale salto di qualità in cui si dischiude una nuova dimensione della vita, dell’essere uomini»[30]. Questa nuova dimensione dell’essere è caratterizzata dal superamento della spazialità che noi sperimentiamo, ma il corpo del Risorto è veramente corpo, e per sempre «l’Uomo Gesù appartiene ora anche con lo stesso suo corpo totalmente alla sfera del divino e dell’eterno»[31]. In questo senso il vero Corpo del Risorto - il corpo cosmico di cui parlano le Lettere ai Colossesi (cfr 1, 12-23) e agli Efesini (cfr 1,3-23) - è «il luogo in cui gli uomini entrano nella comunione con Dio e tra loro e così possono vivere definitivamente nella pienezza della vita indistruttibile»[32]. Si comprende, allora, perché la Chiesa, fin dall’inizio, parli dell’Eucaristia come pignus futurae gloriae e perché l’abbia sempre considerata come la testimonianza per eccellenza della Presenza di Cristo in mezzo a noi.

Il cuore di ogni uomo di ogni tempo e luogo, per quanto confuso possa essere il suo incedere lungo la strada della vita, grida il bisogno di salvezza. Che enigma mai sono io che ora sono, ieri non ero e domani non sarò? Ogni uomo, magari nelle più profonde e poco sondabili fibre del suo essere, invoca un Salvatore. Ma la questione delle questioni è che può salvare solo uno che sia vittorioso per sempre sulla morte e che nel presente si relazioni gratuitamente con me. L’ha intuito Kafka in una celebre lettera a Milena: «Lei continuamente impara a proprie spese che si può salvare un altro soltanto mediante la propria esistenza. Ed ora mi ha già salvato con la sua esistenza e cerca ancora di farlo in un secondo tempo con altri mezzi, infinitamente minori. Se uno salva l’altro dall’affogare, compie beninteso una grandissima azione, ma se in seguito dona al salvato anche un abbonamento a lezioni di nuoto, a che serve? Perché cerca, questo salvatore, di alleggerirsi il compito, perché non vuol continuare a salvare l’altro ancora con la sua esistenza, con la sua esistenza sempre pronta, perché vuol scaricare il compito sulle spalle di maestri di nuoto?»[33].

Gesù il Crocifisso Risorto, Colui che ha affermato «Io ed il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30), ha il potere di salvarmi, di liberarmi dal peccato e dalla morte perché continua ad offrirsi tangibilmente alla libertà di ogni uomo attraverso la Sua Chiesa con la consolante promessa: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).

Egli è il contemporaneo Salvatore che ci raggiunge qui ed ora, e nel presente ci fa pregustare l’eterno.



[1] S. Kierkegaard, Diario, a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1962, 348.
[2] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, 227.
[3]«Nella luce della risurrezione, nella luce del dono di un nuovo camminare in comunione col Signore, si doveva imparare a leggere l’Antico Testamento in modo nuovo: “Nessuno, infatti, si era aspettato una fine in croce del Messia (...) Non sono state le parole della Scrittura a suscitare il racconto dei fatti, ma i fatti in un primo tempo incomprensibili hanno condotto ad una nuova comprensione della Scrittura», ibid., 228.
[4] G. Colombo, Gesù Cristo e il Suo Spirito, Centro Ambrosiano, Milano 2011, 113.
[5] Ratzinger, Gesù di Nazaret II, 273.
[6] Id., Gesù di Nazaret I, Rizzoli, Milano 2007, 18. La proposta di Ratzinger vuol superare l’impoverimento della figura di Gesù a cui ha condotto l’assolutizzazione del metodo storico-critico. Afferma l’autore nella prefazione al libro di cui ci occupiamo oggi: «Il “Gesù storico”, come appare nella corrente principale dell’esegesi critica sulla base dei suoi presupposti ermeneutici, è troppo insignificante nel suo contenuto per aver potuto esercitare una grande efficacia storica; è troppo ambientato nel passato per rendere possibile un rapporto personale con Lui», ibid., 8-9.
[7] Una sintesi delle ricerche su Gesù in: G. Segalla, Sulle tracce di Gesù, Cittadella, Assisi 2006, 146-193; G. Theissen – A. Merz, Il Gesù storico, Queriniana, Brescia 1999, 13-29.
[8] Cf. J. P. Meier, Un ebreo marginale 1-4, Queriniana, Brescia 2001-2009.
[9] Meier I, 27. La sottolineatura è nostra.
[10] Ibid., 31-32. A partire da tali presupposti si arrivato a sostenere che il cristianesimo nasce dal rifiuto di una riforma [della casa d’Israele] e propriamente parlando la sua figura fondatrice [Gesù] non gli appartiene. In proposito cf. D. Marguerat, La ricerca del Gesù storico tra storia e teologia: nessi e tensioni, in “Teologia” 33 (2008) 37-54.
[11] Cf. P. Beauchamp, L’uno e l’altro testamento. Saggio di lettura, Paideia, Brescia 2000; Id., L’uno e l’altro testamento. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001; G. Angelini (a cura di), La rivelazione attestata. La Bibbia fra testo e teologia, Glossa, Milano 1998.
[12] Ratzinger, Gesù di Nazaret I, 8.
[13] Faccio qui mio, in buona parte, il quadro sintetico proposto in: R. Penna, Gesù di Nazaret. La sua storia, la nostra fede, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, 16-21.
[14] Cf. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1995; J. D. G. Dunn, Gli albori del cristianesimo. 1. La memoria di Gesù, Paideia, Brescia 2006, 34-152.
[15] Cf. J. L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987.
[16] A queste considerazioni sul testo in quanto tale si possono aggiungere altri limiti dell’assolutizzazione del metodo storico-critico applicato al Nuovo Testamento: il rischio di lasciar ancorata nel passato la parola biblica, la tendenza a ridurre le parole bibliche a semplici parole umane e la perdita dell’unità della Bibbia come dato storico immediato. In proposito cf.: Ratzinger, Gesù di Nazaret I, 12-15.
[17] Penna, 15.
[18] Cf. G. Colombo, La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, 3-12.
[19] «Non esistono un Gesù della storia ed un Cristo della fede, di competenza, rispettivamente, della ricerca storico/archeologica e della elaborazione teologica. Solamente la fede può decidere della verità di Gesù, proprio perché quella di Gesù è una storia e come tale può essere restituita e compresa adeguatamente –non solo spiegata- soltanto prendendo posizione», G. Trabucco, A proposito di due libri discutibili, in Quale storia a partire da Gesù? Conversazioni di G. Barbaglio e A. Bodrato, Esodo Servitium, Venezia-Troina 2008, 97.
[20] Cf. Benedetto XVI, Verbum Domini 34-36. 
[21] Cf. H. U. von Balthasar, La mia opera ed Epilogo, Jaca Book, Milano 1994, 57.
[22] Ratzinger, Gesù di Nazaret I, 17.
[23] Cf. Benedetto XVI, Verbum Domini 7.
[24] Ratzinger, Gesù di Nazaret II, 274-275. In questo modo Ratzinger risponde ad una formulazione estrema del cosiddetto “principio di analogia”, formulato da Ernst Troeltsch nel celebre articolo Sul metodo storico e dogmatico in teologia (cf. E. Troeltsch, Gesammelte Schriften. Vol II. Zur religiösen Lage, Religionphilosophie und Ethik [Tübingen 1922] 729-753). Inoltre la formulazione del principio di analogia da parte di Troeltsch è stata sottomessa a rigorosa critica. A questo proposito cf.: V. A. Harvey, The Historian and the Believer. The Morality of Historical Knowledge and Christian Belief (New York 1966) 3-9, 14-19; W. Pannenberg, Grundfragen systematischer Theologie. Gesammelte Aufsätze (Göttingen 1967) 45-57; M. Hengel, “Historische Methoden und theologische Auslegung des Neuen Testaments”, KuD 19 (1973) 85-90; T. Peters, “The Use of Analogy in Historical Method”, CBQ 35 (1973) 475-482; G. Maier, Das Ende der historisch-kritischen Methode (Wuppertal 1974) 48; E. Krentz, The Historical-Critical Method (Philadelphia 1975) 55-61; W.J. Abraham, Divine Revelation and the Limits of Historical Criticism (Oxford 1982) 92-115.
[25] T. S. Eliot, Cori da “La Rocca”, in Id., Poesie, Mondadori, Milano 1974, 387.
[26] Citato in L. Giussani, Alle origini della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, 39.
[27] Ratzinger, Gesù di Nazaret II, 227-228.
[28] «La liturgie chrétienne est un lieu où le livre devient Parole. Et la théologie chrétienne fait même de cette parole la manifestation d’une présence. Quand une parole frappe mon oreille je cherche instinctivement celui qui parle. S’il veut être entendu, celui-ci ne craint pas d’attirer l’attention sur sa présence. L’acte de parole comporte un «je» qui se s’adresse à un «tu» ou à un «vous»; il est appel, convocation à l’écoute. Et le cadre de la liturgie chrétienne est tout entier fait pour donner vie à la «Parole». Il se vit comme un dialogue car il y a parole et réponse de l’assemblée» P. Béguerie, “La Bible née de la liturgie”, in La Maison-Dieu 126 (1976) 108-116, qui 111.
[29] «La Chiesa sacramento che vive dalla e nell’Eucaristia illuminata dalle Scritture, lette, in ultima analisi interpretate autenticamente nella liturgia garantita dal Magistero della Chiesa, è questa mediazione intrinseca» A. Scola, Eucaristia, incontro di libertà, Cantagalli, Siena 2005, 51.
[30] Ratzinger, Gesù di Nazaret II, 303.
[31] Ibidem.
[32] Ibid., 304.
[33] F. Kafka, Lettere a Milena, Praga 31 luglio 1920.

Card. Angelo Scola
Arcivescovo di Milano